Il processo che viene qui celebrato contro i militanti delle BR-PCC e i rivoluzionari è pienamente calato nel clima di questa nuova fase politica, una fase politica complessa e densa di contraddizioni la quale, in relazione al piano che investe questo processo, riflette da un lato le particolari condizioni provocate dalla politica antiguerriglia sui prigionieri, dall’altro è la misura politica delle modifiche profonde che stanno avvenendo negli assetti del potere della borghesia, nella sostanza stessa della mediazione politica tra classe e Stato. La proposta dello Stato di soluzione politica per la guerriglia fatta qualche anno fa ai prigionieri, allo scopo di chiudere il conflitto aperto dal terreno rivoluzionario, ha sostanzialmente fallito il suo obiettivo, in quanto si è risolta unicamente con un ulteriore arruolamento nelle file della controrivoluzione di alcuni ex militanti, mentre il tentativo di riversarla sul terreno dello scontro rivoluzionario si è scontrato con l’indisponibilità delle BR e dei rivoluzionari a deporre le armi.
Il risvolto alla soluzione politica ha dato luogo ad un incremento dell’attività antiguerriglia volta a liquidare militarmente le BR e per altro verso a ridefinire le condizioni dei prigionieri che non intendono mercanteggiare la loro identità rivoluzionaria e d’organizzazione col nemico di classe. La politica antiguerriglia, compresa la sua specifica accezione verso i prigionieri, deriva direttamente dalle condizioni politico-generali dello scontro di classe, ovvero il modo con cui essa viene definita è strettamente legato all’evoluzione dei rapporti politici tra classe e Stato; per questa ragione il fallimento della soluzione politica non è dipeso unicamente dalla netta intransigenza opposta dalle BR-PCC a questo tentativo controrivoluzionario, ma principalmente dalla vitalità del processo rivoluzionario, dalle condizioni oggettive e soggettive per espletarlo, dalla verifica attraverso la pratica della centralità della prospettiva rivoluzionaria nel contesto dello scontro fra classi esistente nel nostro paese, e dalla funzione che in ciò vi riveste l’avanguardia combattente.
Proprio per l’evidenza di questo dato politico il quale dipende dal carattere della dinamica generale dello scontro di classe in Italia i “golpisti istituzionali” che in questa fase gestiscono la politica dell’Esecutivo, non trovano altro modo di contenere le istanze antagoniste che si producono nel campo proletario, se non attraverso chiare e concrete intimidazioni all’interno di un attacco ampio e articolato che si avvale di metodi di controguerriglia contro gli aspetti qualificanti dello scontro e come “tattica” preventiva per smorzare il montare delle istanze di lotta. La difficoltà di tenere a bada entro limiti di “mediazione possibile” la crescente opposizione di classe porta l’Esecutivo ad operare forzature su forzature nelle relazioni politiche con la classe. La difficile gestione di tali pressioni viene mistificata dalla “campagna contro la criminalità”. Sì, esiste una campagna di criminalità, ma è quella che sta attuando l’Esecutivo contro l’ambito di classe: raid militari nei conflitti di lavoro e contro le espressioni del Movimento Rivoluzionario, interventi d’autorità sul diritto di sciopero, esecuzioni legalizzate, minacce di estendere i metodi antiguerriglia sul movimento di classe. Questa travagliata fase di scontro fa temere allo Stato la sola cosa che più di ogni altro può mettere in discussione il suo potere: ovvero l’attività rivoluzionaria delle Brigate Rosse, perché capace di legarsi dialetticamente alle istanze di lotta più mature, e di dirigerle e organizzarle sul terreno dello scontro rivoluzionario.
Questo spettro, la guerriglia, non fa dormire sonni tranquilli alla borghesia e al suo Stato, perché rappresenta l’alternativa strategica, concreta e praticabile alla crisi della Borghesia Imperialista. Ed ecco agitare questo spettro in termini preventivi nel chiaro intento di strumentalizzare la guerriglia per ritorcerla da un lato contro il movimento di classe, dall’altro contro le stesse Brigate Rosse. Una politica terroristica questa dagli evidenti limiti… e che dimostra le insormontabili difficoltà della Borghesia Imperialista, mentre per lo scontro rivoluzionario le prospettive non possono venir meno, al di là di inevitabili battute d’arresto, dato lo spessore politico che in questo ventennio si è sedimentato nel tessuto di classe e nelle sue avanguardie a partire dal ruolo che le BR hanno saputo svolgere nel dirigere questo complesso processo rivoluzionario.
In questo senso la nostra presenza qui è tesa ad esprimere l’attualità e la validità della linea politica e della proposta strategica della nostra Organizzazione malgrado la volontà, che si esprime anche in quest’aula, di soffocare la presenza politica dei militanti delle BR e dei rivoluzionari, di mistificare il senso stesso dei processi politici contro la guerriglia dentro formule e riti giuridici che per quanto sommari risultano inefficaci a nascondere la natura di classe di questi processi: quindi il nostro atteggiamento qui non può che riflettere il rapporto di guerra esistente tra la guerriglia e lo Stato, e in conseguenza di ciò, ribadiamo l’inconciliabilità delle nostre posizioni nei confronti dello Stato.
Per meglio comprendere i caratteri della fase politica che si è aperta nel nostro paese è necessario delineare brevemente il quadro internazionale che si è maturato in quest’ultimo decennio data la stretta relazione che corre tra la situazione in Italia e nel resto del mondo capitalistico. Mai come adesso la contraddizione Est-Ovest manifesta la sua dominanza all’interno del contesto mondiale. Le demagogiche campagne dell’imperialismo sulla “dissoluzione dei blocchi” e sulla nuova “era di disarmo” a mala pena dissimulano gli interessi economici, politici e militari che sottostanno alle prese di posizione e al ruolo svolto dai paesi occidentali all’interno della frantumazione degli equilibri post-bellici. L’accumularsi delle contraddizioni prodotte dalla crisi economica e dagli elementi di approfondimento dell’imperialismo, nel loro interconnettersi, premono verso il piano delle relazioni politiche, e quindi anche militari, stabilite dal rapporto Est-Ovest, una dinamica questa che è alla base dell’attuale fase dell’imperialismo; quello che si sta verificando è un complesso processo, che ha maturato significativi passaggi della tendenza alla guerra, e che si manifesta con caratteristiche specifiche a questa fase dell’imperialismo. Il riflesso di questi passaggi sul piano politico e militare si misura giocoforza col quadro storico stabilito dalla divisione del mondo in due sfere d’influenza, in due campi di interesse contrapposto, e che nella fase attuale da origine a quelle peculiari relazioni tra l’imperialismo e i “paesi dell’Est” date anche dalla specifiche condizioni e contraddizioni di questi paesi. Così come la crisi che si produce dentro al modo di produzione capitalistico, la tendenza alla guerra e il portato oggettivo dell’accumularsi critico della crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali (e di mezzi di lavoro) che non possono operare come tali. Uno stato a cui il capitale, esaurite tutte le possibili controtendenze, ha risposto storicamente con la guerra, quale mezzo per distruggere il sovrappiù di capitale prodotto in tutti i suoi termini, dove lo stadio di accumulazione critica delle contraddizioni mette in discussione equilibri e rapporti di forza complessivi premendo per una loro ridefinizione. Il movimento economico che si è affermato in quest’ultimo decennio nel mondo capitalistico, a seguito delle ristrutturazioni e delle introduzioni di nuove tecnologie nella produzione, ha fatto sì che si formassero poderosi processi di accentramento e centralizzazioni monopolistiche. Un processo che nel suo insieme ha liberato enormi quote di capitale finanziario. Per il grado di interdipendenza già esistente tra le economie capitaliste, questo movimento ha provocato un salto in avanti nel livello di internazionalizzazione ed integrazione economica tra gli Stati della catena imperialista; ciò ha nel contempo evidenziato le modifiche sopravvenute nella collocazione dei paesi della catena rispetto alla divisione internazionale del mercato del lavoro uscita dal dopoguerra. Sono gli USA, quale paese più sviluppato della catena, che hanno fatto da battistrada rispetto alle tendenze economiche affermatesi nel resto del mondo capitalistico, e propria per questa ragione hanno consumato per primi tutte le tappe che conducono alla crisi. La velocità con cui si consuma il ciclo capitalistico negli USA ha fatto sì che si affermasse la tendenza ad usare la politica del riarmo (e in taluni casi sbocchi militari) come “stimolatore” dell’economia; basti pensare che fin dal 1948 il ciclo espansivo già iniziava ad incepparsi manifestando i primi segni di recessione. La guerra di Corea ha avuto in quel caso la funzione di ritrainare l’economia USA. Quando è avvenuto il salto di composizione organica nella produzione, con l’introduzione della microelettronica e della robotica nei mezzi di lavoro, la velocità del ciclo è ulteriormente aumentata, e per la maggior produttività derivata anche dall’intensificazione dei ritmi di lavoro, si è alzato vertiginosamente il tasso di plusvalore relativo dando luogo a questa dinamica capitalistica: da un lato processi di concentrazione monopolistica, dall’altro uno stimolo alla caduta tendenzionale del saggio medio di profitto. Ma la rapidità con cui si è consumato il ciclo ha provocato una strisciante e pervicace recessione; soprattutto verso la fine del periodo reaganiano la struttura produttiva si è significativamente indebolita anche per la tendenza dei capitalisti a chiudere o non rinnovare gli impianti produttivi investendo solo in particolari settori ad alta tecnologia. La dimensione di questa tendenza ha configurato un vero e proprio processo di destrutturazione produttiva, la cosiddetta deindustrializzazione. In una certa misura le stesse scelte di politica economica compiute durante la presidenza Reagan hanno contribuito all’indebolimento della struttura produttiva. Il neo-liberismo ha messo in atto una serie di misure per favorire la ripresa dell’accumulazione capitalista e l’incremento dei profitti, in tal senso ha agito su più piani: sia stimolando l’azione selettrice della concorrenza, sia con apposite politiche monetarie, sia comprimendo le spese sociali; se a ciò si aggiunge la drastica riduzione del costo del lavoro avvenuto con le ristrutturazioni, si comprende come il cosiddetto “boom economico più lungo del dopoguerra” sia solo riferito ai profitti, in quanto è avvenuto in un contesto recessivo, contesto che non ha prodotto un allargamento della base produttiva al livello dell’investimento capitalistico necessario. Il boom dei profitti è stato tale da causarne un’inflazione e ciò ha favorito quella particolare tendenza ad impegnarli in speculazioni finanziarie, le quali conseguentemente hanno rigonfiato i parametri economici rispetto alla ricchezza reale prodotta. I poderosi processi di fusione attuati dai grandi trust monopolistici in settori ad alta composizione organica hanno avuto come risvolto il ridimensionamento dei settori a bassa e media tecnologia e la rovina di gran parte dell’agricoltura, un processo che come rovescio ha inevitabilmente approfondito le differenze sociali.
Alcuni dati possono dare la misura di questa realtà. Nella produzione in questo decennio la produttività per addetto è aumentata del 14%, mentre la perdita di potere contrattuale della classe operaia e delle sue rappresentanze sindacali ha consentito che fossero stipulati contratti che per assurdo prevedevano una riduzione di salario in casi di perdita di competitività dell’azienda; la stessa rimodellazione del mercato del lavoro ha camuffato i dati concreti, facendo apparire come occupati anche quelli che hanno lavorato poche settimane l’anno, o poche ore per settimana, o tramite la possibilità di suddividere un salario tra più persone. La riduzione delle spese sociali (previdenza, casa, sanità, istruzione) ha inciso sul livello di reddito di quegli strati che in passato sono stati l’anima della classe media, comportandone un drastico impoverimento. Di fatto in questo decennio gli stessi parametri borghesi calcolano al 13% sull’intera popolazione il tasso di povertà. Al fine di intervenire sugli effetti della crisi in termini controtendenziali e favorirne il decorso sono stati sviluppati molti studi dagli economisti borghesi sul tipo e durata dei cicli, come ad esempio quelli elaborati dal “Centro internazionale per la ricerca sui cicli economici della Columbia University”, una maggiore conoscenza che è servita per intervenire preventivamente con politiche mirate. Queste politiche, soprattutto quelle monetarie, hanno funzionato da stimolo artificiale delle stasi, per questo è stato possibile convivere con la recessione per così tanto tempo. Gli effetti di questi palliativi (“economia drogata”) hanno dato spazio a tesi sulle capacità autogeneratrici del capitalismo e ad apologetiche “bontà” di questo sistema sociale. Ma poiché le controtendenze non possono incidere nella sfera della produzione, nella sede cioè dove si produce la crisi, queste finiscono solamente per spostare in avanti le contraddizioni approfondendole ulteriormente, tenendo anche conto della diminuzione del capitale messo in moto in un ciclo capitalistico a questo livello di sviluppo. Per queste ragioni le controtendenze messe in atto negli anni ’80 hanno esaurito il loro effetto “calmierante”, finendo con il produrre gravi scompensi nell’economia mondiale. Nonostante questi interventi, negli USA dall’82 la crescita del prodotto nazionale lordo non ha superato la soglia del 3%, indice per il quale gli stessi economisti borghesi non considerano vi possa essere crescita: in poche parole recessione.
La realtà è che a far da volano dell’economia statunitense è stato il più colossale riarmo prodotto dal dopoguerra, il principale intervento di politica economica operato dalla Casa Bianca e su cui ha fatto ruotare tutte le altre decisioni economiche. Gli alti tassi d’interesse hanno permesso di rastrellare capitali da ogni parte andando a finanziare i programmi del Pentagono, una politica monetaria che se è stata funzionale al riarmo, ha da un lato esportato inflazione in Europa, dall’altro ha contribuito ad ingigantire il deficit di bilancio sia federale che nel commercio. La scelta del riarmo ha permesso e permette di immobilizzare i capitali eccedenti all’interno delle tecnologie avanzate impiegate intorno al settore bellico, un settore che assorbe enormi quote di finanziamento solo per sviluppare la ricerca (parte di essa finalizzata su calcolatori superveloci). Le tecnologie avanzate applicate al militare hanno consentito di approntare sofisticati sistemi d’arma, applicabili tanto ai satelliti quanto alle nuove e moderne armi convenzionali; un dato questo che dimostra l’inconsistenza degli apologetici scenari di pace che la propaganda imperialista cerca di propinare, non fosse altro che per il volume astronomico degli investimenti “incorporati” all’interno del riarmo.
Data l’interconnessione delle economie, è subito chiaro come l’andamento dell’economia statunitense condizioni quelle degli altri paesi. In questo senso le principali controtendenze tendono ad affermarsi in tutto l’ambito capitalistico, rafforzando l’interdipendenza e complementarietà, nonché il loro rapporto gerarchico; così è stato per le politiche keynesiane, come per quelle neo-liberiste, così lo è tendenzialmente per il riarmo. L’Europa Occidentale fino ad ora, pur nelle sostanziali differenze di posizioni, ha usufruito di maggiori margini economici. La stratificazione risultata dallo sviluppo ineguale ha permesso di ammortizzare gli effetti della crisi in tempi più lunghi, ciò ha consentito di adottare misure controtendenziali, che tra l’altro non hanno soffocato le produzioni a bassa e media tecnologia, anzi sono state favorite da appositi aiuti statali. Ciò nonostante in questi ultimi anni la tendenza ad adottare la scelta della particolare politica economica del riarmo, come traino dell’economia, è proceduta in modo consistente anche in Europa Occidentale a partire dall’Inghilterra che per prima vi ha ricorso anche a causa delle sue strette relazione con gli USA. Ma la politica di riarmo, necessitando di ingenti masse di capitale finanziario per potersi legare alle tecnologie avanzate, richiede giocoforza uno sforzo comune dei paesi europei, per questo attualmente sia la ricerca che le commesse vere e proprie sono centralizzate da organismi che fanno riferimento alla NATO. Questa cooperazione, in parte forzata, favorisce l’ulteriore interconnessione delle economie e su un altro piano si riflette nei livelli di integrazione politico-militare. Per questa ragione la filosofia dell’Alleanza Atlantica, rispecchiando questa situazione, ha promosso significative esperienze interforce che integrano i rispettivi ammodernamenti degli eserciti e per altro verso approfondiscono i livelli di collaborazione multilaterale e bilaterale tra paesi europei in campo militare. Le differenze che si sono accentuate nella collocazione dei paesi della catena vedono spostarsi il peso economico verso il cuore dell’Europa Occidentale, senza che questo significhi perdita della leadership degli USA, sia perché rimane il paese più sviluppato capitalisticamente, per quanto indebolito dalla strisciante recessione, sia per il ruolo politico-militare che a tutt’oggi rende gli USA in grado di forzare e pilotare verso le sue scelte politiche i partners della catena, pur tra stridenti contraddizioni, senza dimenticare la capillare penetrazione economica che il gigante statunitense ha perpetrato sull’intero continente, con conseguente influenza politico-militare. Tutto ciò all’interno della dimensione internazionalizzata dell’imperialismo che costringe ad una stretta interrelazione economica tutti i paesi della catena, con il risultato di poter scaricare parte degli effetti della crisi sugli altri partners. Questo quadro però non si presta a facili schematizzazioni come quelle che vedono tre principali antagonisti in campo, Giappone-USA-Europa Occidentale; ciò è infondato per il fatto che da un lato l’economia giapponese è cresciuta in modo totalmente dipendente dagli USA, e quindi con un certo grado di complementarietà, mentre dall’altro l’Europa Occidentale, pur nelle differenze di movimento della dinamica capitalistica, è assai integrata al livello di composizione dei colossi monopolistici col capitale finanziario USA, anche se gli ultimi anni hanno visto un’inversione di tendenza degli investimenti, accentuandosi quelli europei verso gli USA. Questi dati acuiscono maggiormente i livelli di concorrenzialità sui mercati capitalistici sottoponendoli a spinte contrastanti, e questo anche perché l’ultimo decennio è stato decisivo per una modifica qualitativa dell’ambiente capitalistico nello specifico europeo a causa del formarsi di significative aggregazioni monopolistiche intereuropee (e per la maggior tenuta del tessuto produttivo). Questa situazione ha in un certo senso rivoluzionato i termini della concorrenza interimperialista dato il definirsi delle nuove concentrazioni le quali richiedono, per formarsi, un ulteriore avanzamento del grado di internazionalizzazione; inoltre per le spregiudicate politiche commerciali che ogni paese adotta ciò provoca inevitabili resistenze e spinte protezionistiche di tutti i paesi capitalistici, nonostante gli accordi commerciali che vengono periodicamente fatti e puntualmente disattesi per il forzare della concorrenza. Di fatto il protezionismo scarica i suoi effetti più negativi nel commercio mondiale con i paesi in via di sviluppo. Il quadro europeo è, in questa congiuntura economica, il centro del movimento dei capitali. La liberalizzazione del mercato europeo e gli accordi politici raggiunti ratificheranno una realtà sostanzialmente operante: gli ulteriori passaggi politici a livello comunitario sanciranno le regole tese a formare l’ambiente più favorevole alle aggregazioni monopolistiche, diventando esse stesse veicolo per il processo di coesione politica europea. Ma l’Europa Occidentale non è un territorio economicamente e politicamente omogeneo; le differenze stratificate di peso economico delineano una gerarchizzazione marcata al centro della quale si situa la Repubblica Federale Tedesca. La RFT è andata assumendo un ruolo economico preponderante soprattutto all’interno di questa fase, a partire dalle caratteristiche della sua situazione economica, che in termini capitalistici è una delle più avanzate. Nella RFT si esprime emblematicamente l’aspetto dominante dell’imperialismo, dato dalla fusione tra capitale finanziario e capitale industriale e, per la sua specifica storia economica, ciò è favorito dalla sostanziale mancanza di vincoli nel ruolo delle banche come accentratrici di capitale finanziario. Questo ha fatto sì che pochi grandi gruppi bancari detengano quasi di fatto il controllo dei settori industriali più importanti del paese attraverso formule di partecipazione che ne garantiscono la maggioranza assoluta (la Deutsche Bank, la Dresdener Bank, la Commerzbank hanno partecipazioni, e quindi controllo, in proporzioni simili, nella Daimler nella Benz, nella Metallghesellshaft, nella Westfallen, Holzmann, Volkswagen, Basf, Hoechst, Siemens, Mbb, ecc…); per questa ragione il capitale finanziario e la funzione delle banche nella RFT hanno un ruolo cruciale nel controllo dell’andamento dei mercati, nelle fusioni tra grandi trust, sia dentro al paese che di tipo multinazionale e, cosa fondamentale, sulla direzione dei flussi finanziari. Questa realtà spiega da sola la centralità dell’attacco sferrato dalla Rote Armee Fraktion al presidente della Deutsche Bank, A. Herrhausen, tenendo conto dell’influenza che un tale ruolo esercitava nelle decisioni politiche principali prese a diversi livelli nella RFT. Anche nella RFT (così come nel resto dell’ambito capitalistico) gli altissimi profitti che le concentrazioni monopolistiche raggiungono avvengono in un contesto di recessione strisciante, in concomitanza dell’utilizzo degli impianti attivi vicino al 90% della loro capacità, mentre sul piano della circolazione c’è troppa liquidità, un valore del marco troppo alto, un’inflazione troppo instabile e, per altro verso, uno sbilancio degli investimenti sempre più massicci verso l’estero; in poche parole, gli effetti più vistosi della sovrapproduzione assoluta di capitali. Risalta agli occhi l’analogia storica con il precedente periodo prebellico nelle caratteristiche della situazione economica della RFT (così come nel resto dell’Europa Occidentale) e ciò è ancora più evidente se si confronta il suo riflesso sul piano politico. Oggi come allora la RFT è il nodo cruciale delle svolte politiche che si prefigurano in questa delicata fase internazionale. Ma le analogie non possono rendere la complessità dei fattori in gioco subentrati nella situazione, proprio a partire dal rapporto Est-Ovest nonché per l’evoluzione maturatasi in questi 45 anni a partire dalle relazioni che l’imperialismo ha stabilito con i paesi in via di sviluppo. La principale novità storica è appunto la realtà dei paesi che hanno operato le prime rotture rivoluzionarie, un fattore che per la sua importanza ha reso la contraddizione Est-Ovest dominante su tutte le questioni internazionali e che ha scandito dal dopoguerra le tappe sostanziali degli equilibri mondiali. Un fattore che ha il suo cuore proprio nella Germania (divisa in due dopo il conflitto) dove si riflettono tutti i mutamenti di sostanza del rapporto tra i blocchi (anche perché geograficamente interessata dallo spostamento di tali equilibri). I mutamenti di sostanza in quest’ultimo decennio, nascono proprio dalla RFT (e dall’insieme dell’Europa Occidentale) a partire dalla capillare penetrazione economica verso i paesi dell’Est. La forte complementarietà tra le economie dell’Europa Occidentale – e della RFT in particolare – e quelle dei paesi dell’Est – URSS in testa – è alla base del sostenuto flusso di investimenti destinato ad aumentare nel prossimo futuro. Già l’interscambio commerciale con i paesi del blocco orientale per la sola RFT è di circa 24 miliardi di marchi di esportazione e di circa 20 miliardi di marchi di importazione, con un saldo attivo di oltre 4 miliardi di marchi per la RFT; se si paragona l’interscambio fra la RFT e gli USA (esportazioni verso gli USA per più di 45 miliardi, importazioni per circa 29 miliardi, con un attivo di oltre 16 miliardi di marchi per la RFT) si può comprendere l’importanza di questo dato (fonti Bundesbank). Una penetrazione economica che non è alternativa al riarmo, anzi i due aspetti si autoalimentano, per la natura del capitale, anche per l’elemento qualitativo di questa penetrazione dato da massicci flussi di capitale finanziario e che assumono pure la forma di “aiuti” economici all’Est europeo; è la crisi economica dell’imperialismo che spinge verso questa direzione poiché i paesi dell’Est europeo sono sufficientemente strutturati da consentire quella complementarietà necessaria a rilanciare la produzione con una diversa divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Così come per la seconda guerra mondiale furono gli USA che di fatto finanziarono il conflitto attraverso gli enormi investimenti in Europa, e principalmente in Germania quale paese più ricettivo, nella fase storica attuale è possibile che si ripresenti una dinamica simile, dove però il ruolo che fu degli USA non è svolto da un singolo paese, ma vi concorre la catena imperialista nel suo insieme, pur con posizioni differenziate che favoriscono l’Europa Occidentale e, all’interno di essa, la RFT per la forza che vi esercita il capitale finanziario. Se dal breve al medio periodo questa dinamica economica consentirà una stasi nell’accavallarsi del processo di crisi economica, dal medio al lungo periodo gli effetti economici, che si matureranno dall’uso del riarmo come principale immobilizzo di capitali eccedenti, avvicineranno come non mai lo sbocco militare date le caratteristiche peculiari “dell’investimento bellico”, il quale non consente un rientro nel circuito produttivo, anzi il loro non uso porta al collasso economico (beninteso il riarmo è altra cosa dalla normale produzione bellica che funziona dentro alle leggi della produzione in generale, dato che il “riarmo” è un intervento di politica economica che porta ad armare per sé lo Stato che se ne fa carico e non per il normale commercio). Se questa è la particolarità del riarmo dentro lo stadio economico che materializza la tendenza alla guerra in presenza di altre circostanze (crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali con lungo ristagno produttivo e recessivo, mercati capitalistici saturi, equilibri nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati che necessitano di essere ridefiniti) ciò non significa attuazione immediata della tendenza poiché l’interazione con i fattori politici e militari abbisogna della rottura di molti equilibri politici e la maturazione di altri che si avvicinano a questa realtà (necessità) economica; processo per niente spontaneo e oggettivo, ma dato dal concreto scontro fra i diversi soggetti politici in campo.
L’Europa Occidentale in questo contesto generale, per i processi di coesione politica che sta promuovendo, acquista un peso sempre più rilevante nel processo di modifica degli equilibri del vecchio assetto postbellico, non solo lungo la direttrice Est/Ovest, ma anche nelle aree di crisi della periferia. È indubbio che la RFT in questo quadro tende ad imprimere i suoi interessi nelle scelte e nelle posizioni che assumono i paesi europei; questo per la forza del suo ruolo economico, che si impone nonostante scontri e differenze. Il grosso interesse della RFT ad impossessarsi degli spazi economici che i vicini paesi del’Est – Repubblica Democratica Tedesca in testa – offrono, è rivestito da plateali quanto revanscistici richiami nazionalistici “all’autodeterminazione dei popoli”, un cinismo politico che non manca alla Borghesia Imperialista tedesca e che consentirà un ulteriore rafforzamento della sua posizione economica.
Per questo la RFT assume un peso centrale all’interno della ridefinizione degli equilibri Est/Ovest. L’Europa comunitaria, nonostante i propositi di “unificazione politica” enunciati in primo luogo da Francia, Italia, RFT, è nella realtà un processo molto contraddittorio, perché se da un lato la dinamica stessa di questa fase dell’imperialismo necessita dello svincolo delle “barriere normative e commerciali nazionali”, dall’altro l’aspra concorrenza per occupare le posizioni più appetibili sul mercato capitalistico comporta una accentuata conflittualità in riferimento agli specifici interessi, come nel caso appunto della RFT. Infatti essa intende far pesare a suo favore lo sgretolamento degli equilibri con l’Est europeo poiché più favorita nell’accaparramento di questi mercati e quindi intenzionata a condizionarli ed inglobarli anche politicamente approfittando della loro attuale “instabilità politica”. Questo ha un riflesso proprio sul procedere di questi accordi politici che dovrebbero promuovere una “formale giurisdizione europea”. Tale discontinuità non impedisce all’Europa Occidentale di procedere nella coesione politica attraverso intese che di volta in volta si formano per il concomitare di reciproci interessi, come nel caso dell’opera di sfondamento ad Est attraverso pressioni di ogni tipo ed entità miranti a creare le condizioni favorevoli alla penetrazione del capitale finanziario, con il dispiegamento di vaste pressioni politiche; un terreno questo che coinvolge tutti i paesi della catena imperialista. Per questa ragione pare delinearsi un’informale divisione dei mercati futuri (vedi il tentativo dell’Italia di costituire un polo alternativo di aggregazione, alternativo a quello che nella regione settentrionale dell’Europa Occidentale ruota attorno alla RFT). Il dinamismo politico europeo per quanto persegua interessi specifici non è in antagonismo con gli interessi USA (almeno all’interno di questa fase) nonostante le diverse modalità con cui si relazionano alla contraddizione Est/Ovest; essi in modo diverso concorrono ad avvicinare il medesimo obiettivo: la rottura dei vecchi equilibri. Ciò non significa affatto fine del bipolarismo, si è chiusa solo una fase dello scontro Est/Ovest per l’apertura di un’altra e in relazione all’aggressività raggiunta dal capitale monopolistico in questa fase di crisi-recessione. È nel contesto della tendenza alla guerra, fatta di visibili e concreti processi di riarmo e compattamento all’interno dell’alleanza imperialista, pur nella diversità di ruolo e ai diversi gradi in cui si manifesta la crisi generale, che si colloca la coesione economica, politica e militare dell’Europa Occidentale. Un processo che perciò investe tutte le sue strutture sovranazionali (NATO, UEO, Consiglio d’Europa) a dimostrazione che i cosiddetti processi di pace sono solo un velo mistificatorio per nascondere le pressanti contraddizioni politiche ed economiche in cui si dibatte l’imperialismo. Sono gli USA, incalzati dalla crisi, a prendere l’iniziativa; essi adottano una strategia globale tesa ad intervenire in ogni zona di crisi, sia cercando di impedire la perdita di posizioni sia operando per il loro rafforzamento, interventi che sono principalmente di origine militare fino a palesare vere e proprie invasioni (dirette) come i recenti fatti in centro-America stanno a dimostrare. Intorno a questa strategia globale gli USA cercano di compattare tutta l’alleanza imperialista. L’attivismo USA è principalmente coadiuvato dall’Europa Occidentale tramite l’intensa attività “politico-diplomatica” consentitagli dai maggiori margini di manovra; questa si esprime principalmente nell’area di crisi mediterranea-mediorientale per ricucire in avanti gli strappi operati dalle precedenti forzature militari USA. Un’area che per la sua importanza (confine non definito nel dopoguerra, rotte strategiche) ha necessitato di un intervento di ordine complessivo; esso ha operato verso i conflitti nel senso di un loro contenimento e normalizzazione permettendo sostanziali modifiche nelle posizioni dei paesi arabi in senso filo-occidentale. Ma la normalizzazione è lontana dall’essere raggiunta per la resistenza opposta dai popoli libanese e palestinese, resistenza tale da far naufragare i vari tentativi d’intervento diretto, come ad esempio quello francese in Libano oppure, per altro verso, le pressioni cosiddette diplomatiche condotte dall’Italia in primo luogo per contenere, all’interno di una soluzione mediata, la rivolta del popolo palestinese data la sua indisponibilità a farsi normalizzare dalla pace imperialista. È un fatto che la resistenza del popolo palestinese non, ha permesso l’attuazione del piano Shultz-Shamir sull’autonomia amministrativa dei territori, facendo fallire tutti gli “accordi” che non si misurano con le questioni che la lotta ha posto all’ordine del giorno. La determinazione rivoluzionaria del popolo palestinese nel perseguire l’obiettivo della propria autodeterminazione sta minando ed erodendo la capacità di contenimento militare d’Israele per i riflessi che questo conflitto produce sul piano politico, sia interno all’area che a livello generale. La regione mediorientale-mediterranea è il luogo ove si riflettono e si intrecciano sia la direttrice Est-Ovest quale zona non definita nel dopoguerra e in cui l’alleanza occidentale ha premuto e preme (già nel ’48 con l’installazione dell’entità sionista a gendarme degli interessi imperialisti) al fine di modificare l’equilibrio di questi confini a suo favore, sia la direttrice Nord-Sud la quale coinvolge direttamente l’Europa Occidentale perché sua naturale zona d’influenza, e dunque per i conflitti che si producono tendenti a rompere la “cappa normalizzatrice” dell’imperialismo. Per questi due aspetti centrali questa regione va considerata l’area di massima crisi rispetto alle altre aree di crisi periferica. Ma è tutta la periferia ad essere sottoposta all’intervento dell’imperialismo, a partire dall’attivismo militare USA; esso, laddove non è direttamente praticato, è ugualmente presente attraverso i finti governi e le forze controrivoluzionarie che gli USA organizzano. Questo è il tipo di relazioni internazionali che intendono instaurare laddove le armi della diplomazia e lo strangolamento economico non sono sufficienti a ricondurre alla “ragione” i paesi che non si sottomettono alla logica dell’imperialismo o che non contrastano efficacemente i processi rivoluzionari interni (Panama, Nicaragua, Salvador, Filippine sono gli esempi più rilevanti). Gli USA ancora una volta si identificano col volto feroce della controrivoluzione imperialista, ma tanto è sanguinaria tanto essa manifesta la debolezza strategica del potere, dell’imperialismo, il quale a causa delle profonde diseguaglianze e dell’immiserimento che provoca non fa altro che suscitare la legittima resistenza dei popoli per la loro autodeterminazione e la necessaria opposizione di classe nelle metropoli del centro. Alla base di questa condizione non c’è una pura volontà di dominio perché l’imperialismo non è una politica, esso è uno stadio economico del capitalismo in cui domina il capitale finanziario. Il rapporto di sfruttamento che l’imperialismo stabilisce con i paesi della periferia solo apparentemente è simile al rapporto coloniale, se non per l’assoggettamento politico che in entrambi i casi ne è derivato. Se il colonialismo è consistito sostanzialmente nella rapina delle materie prime e delle risorse, l’imperialismo basa il suo dominio sul privilegio e monopolio dello sfruttamento industriale, al livello di sviluppo ineguale necessario a questo stadio economico; in questo senso la qualità dello sfruttamento è superiore e il dominio politico non si esprime più nei protettorati, ma per i vincoli che questi paesi sono costretti ad avere col mercato capitalistico, il quale ne condiziona pesantemente lo sviluppo economico e sociale. Basti pensare all’imposizione dei prezzi sulle materie prime o delle monoculture e monoproduzioni, o al potere esercitato dagli organismi finanziari internazionali (FMI, BM, ecc.) che condizionano l’erogazione dei prestiti alle concrete pressioni politiche. L’imperialismo impedendo il libero sviluppo dei paesi terzi (così come nel suo centro il libero sviluppo delle forze produttive “incatenate” dai rapporti di produzione) rappresenta storicamente la forza del regresso nel mondo. Un bilancio di questi ultimi 40 anni mette in risalto come l’imperialismo abbia subito nel suo insieme un’erosione costante della sua forza d’influenza e della sua estensione (pur in presenza di un approfondimento dello stesso modo di produzione). Se nella periferia i processi di decolonizzazione prima e di emancipazione dei popoli nelle “nuove democrazie” poi, hanno permesso di sottrarre molti paesi al dominio imperialista, all’interno del sistema si è affermata la prassi rivoluzionaria storicamente adeguata al suo superamento: la Guerriglia.
Per questa ragione l’antimperialismo è la questione politica prioritaria che attraversa tanto i popoli in lotta nella periferia quanto lo scontro di classe e rivoluzionario nel centro imperialista, e in diversi momenti le rotture rivoluzionarie avvenute nella periferia hanno riversato il loro potenziale all’interno del Movimento Rivoluzionario del centro, influenzando anche tendenze politiche terzomondiste. L’evolvere della situazione internazionale e la marcata integrazione politica e militare della catena ha posto le condizioni per il superamento della concezione solidaristica dell’antimperialismo. Il mutato atteggiamento riguardo la necessità di opporsi e combattere l’imperialismo è partito dall’evidenza che lo stesso procedere del processo rivoluzionario nei paesi del centro necessitava di un indebolimento e ridimensionamento dell’imperialismo. Ciò ha posto con sempre maggior chiarezza che il dovere delle forze rivoluzionarie di sviluppare il processo rivoluzionario nel proprio paese doveva unirsi alla possibilità di praticare una politica antimperialista in grado di provocare nel cuore del sistema questo indebolimento; in sintesi, un compito politico che l’avanguardia rivoluzionaria combattente, la Guerriglia, si è posta e che ogni Forza Rivoluzionaria ha affrontato e affronta con l’approccio specifico; ciò però non ha impedito che si sviluppasse un processo di confronto sulla necessità di un’unità politica tra le diverse Forze Rivoluzionarie per combattere l’imperialismo. Questa acquisizione importante sul terreno dell’antimperialismo non è sfuggita alla Borghesia Imperialista; tant’è che un punto qualificante, che sta tutto interno ai processi di coesione politica della catena imperialista, e in particolare nello specifico europeo, è quello delle politiche antiguerriglia, che passa attraverso una più stretta centralizzazione e coordinamento degli apparati repressivi, con l’omogeneizzazione degli strumenti legislativi quali ad esempio lo “spazio giuridico europeo” ed anche la definizione di iniziative politiche comuni quali la soluzione politica per la guerriglia (RFT, Francia, Italia, Spagna). E’ un punto qualificante da un lato perché caratterizza l’esperienza che la Borghesia Imperialista ha acquisito in relazione all’importanza politica e strategica della guerriglia, tanto nel centro imperialista quanto nell’area limitrofa mediterranea-mediorientale, dall’altro perché su questo piano minori sono le contraddizioni interborghesi e interimperialiste, dato che si tratta di difendere in tal senso gli interessi della catena imperialista nel suo complesso. Ovvero tali politiche partono dalla consapevolezza che esiste un fronte oggettivo dato dall’interesse comune delle varie Forze Rivoluzionarie che combattono l’imperialismo. Questa oggettività spinge alla costruzione-consolidamento del fronte antimperialista a livello soggettivo, di cui il Fronte Combattente Antimperialista (FCA) è punto di partenza e momento qualificante della politica di alleanze. Ma già precedentemente, in base alle contraddizioni che presenta l’agire della varie frazioni della Borghesia Imperialista nei diversi paesi, si erano poste le condizioni per una serie di contatti e accordi che vedono in particolare l’Italia al centro di questo complesso meccanismo.
Il nostro paese si è mostrato all’avanguardia in questo campo (grazie all’esperienza accumulata in vent’anni di scontro rivoluzionario al suo interno e all’essere geograficamente vicino all’area di massima crisi) ed è riuscito a porsi al centro delle politiche antiguerriglia in Europa Occidentale e nell’area, stipulando ben 17 trattati con altrettanti paesi europei, arabi e del Nord-Africa, trattati che prevedono prevalentemente l’attivizzazione di centri di “intelligence” separati da quelli già esistenti (esempio Interpol) finalizzati all’acquisizione di notizie a carattere preventivo sullo stato delle Forze Rivoluzionarie operanti e sui movimenti rivoluzionari in genere (non esclusi naturalmente quelli a carattere politico-religioso quali i gruppi islamici). Essendo bilaterali e non prevedendo l’esclusività delle informazioni raccolte e trasmesse, questi accordi pongono l’Italia nella posizione di “centrale di acquisizione e smistamento” dell’attività antiguerriglia facendone, tra l’altro, un punto qualificante della sua politica estera. Questa attività controrivoluzionaria è tutta interna alla dinamica dell’imperialismo che tende alla gestione offensiva delle contraddizioni sociali e politiche che si producono nei diversi paesi, in funzione di deterrenza, sia quando acquista forma militare sia quando si mantiene sul piano politico, in quanto questi due piani interagiscono fra loro, con delle ricadute uno sull’altro, trattandosi in definitiva di misure coordinate sul piano politico che influiscono sulla connotazione del rapporto imperialismo/antimperialismo e rivoluzione/controrivoluzione in tutta l’area europea-mediterranea-mediorientale.
La condotta della guerra rivoluzionaria nelle dinamiche dello scontro rivoluzione/controrivoluzione
La dinamica di fondo che è alla base di questa complessa fase internazionale attraversa tutti i paesi della catena imperialista, in questo senso condiziona ed incide nei contesti di ogni Stato, a tutti i livelli della loro politica a causa delle similitudini politico-sociali che si sono determinate con lo sviluppo dell’imperialismo. Il nostro paese riflette questa dinamica generale pur all’interno delle sue specificità e le spinte che essa produce, interagendo con i termini delle specificità nazionali, inaspriscono le contraddizioni del quadro politico interno rendendolo quanto mai instabile e problematico. L’esecutivo che si è formato si caratterizza per l’aspetto restauratore insito nel suo programma. Un aspetto conseguente alle sostanziali forzature (autentici colpi di mano) avvenute nel quadro istituzionale a tutti i livelli del potere statale e all’interno dei rapporti politici fra le classi, delineando chiaramente il procedere di un vero e proprio “golpe istituzionale”. Nei fatti sono state consumate rotture e modifiche nel modo di effettuare il “governo” del paese tali da aprire concretamente alla “seconda repubblica”. Non si tratta di un ritorno reazionario ai vecchi tempi, benché la compagine dell’esecutivo si avvale dei più oscuri personaggi espressi dalla classe dominante in questi ultimi quarant’anni, al contrario questa rappresenta al meglio quella frazione dominante della Borghesia Imperialista che intende prevalere su tutte le altre. Le “sbavature conservatrici” non sono eccezioni nostrane che mal si addicono alla “gestione democratica” dell’attuale stadio dell’economia capitalistica, ma esse contraddistinguono l’intero ambito dei paesi imperialisti. Se si analizzano le tendenze politiche affermatesi nei paesi occidentali, soprattutto dopo gli anni ’70, si può osservare come i governi delle cosiddette “democrazie rappresentative” tendono a concentrare il potere in “esecutivi forti” con un marcato dirigismo nei metodi di governo e conseguente restringimento degli spazi di mediazione politica; laddove tali tendenze sono state ratificate in normative e leggi di stampo restrittivo hanno comportato la modifica strisciante delle legislature. Questo tipo di esecutivi hanno gestito i pesanti costi sociali della crisi economica e delle ristrutturazioni produttive; per questo il loro operato si contraddistingue per il suo carattere antiproletario e controrivoluzionario (laddove è presente il processo rivoluzionario), ciò anche quando tali esecutivi sono stati guidati dai socialisti (ad esempio Francia, Italia, Spagna). In ultima analisi il taglio degli esecutivi che sono stati espressi nell’ambito dei paesi capitalistici configura l’attuale forma storica di dittatura borghese che meglio rappresenta la tendenza dominante dell’imperialismo, a maggior ragione nella fase politica che si è aperta in cui premono spinte verso soluzioni per regimi forti tout-court. Nella situazione del nostro paese questa tendenza si compenetra con le peculiarità storiche e politiche relative alla natura dello scontro di classe e al livello di sviluppo economico, nonché con i caratteri specifici assunti dalla classe dominante; ciò rende l’Italia ben inserita nel contesto generale della realtà politica dei paesi occidentali, con tutto il portato restauratore che essa esprime. Per questi motivi non esiste, se non nella gestione demagogica delle “opposizioni istituzionali”, uno sviluppo democratico dell’imperialismo; i riflessi delle “guerre concorrenziali” tra i grandi gruppi monopolistici, non sono lotte tra una versione più democratica e un’altra conservatrice del capitalismo, al contrario lo scontro vitale per aggiudicarsi le migliori posizioni fa sì che le frazioni di Borghesia Imperialista premano senza mezzi termini per pesare sul terreno della rappresentanza politica allo scopo di essere meglio favorite da quest’ultimo. Ma al di là di questo dato di fondo, sono estremamente complessi i fattori che intervengono nello scontro politico del paese per la natura di classe dello stesso. La fase politica che si è aperta in Italia rappresenta in tutta chiarezza, e in particolare nell’operato del governo Andreotti, le pressanti contraddizioni in cui è costretta a muoversi la frazione dominante della Borghesia Imperialista. In primo luogo ciò è testimoniato dal ruolo svolto dalla Presidenza della Repubblica nella nascita di questo governo e dal peso assunto nelle coalizioni dalla figura del Presidente del Consiglio, un peso preponderante all’interno dell’esecutivo per la dinamica impressa alla ridefinizione dei poteri e delle funzioni dello Stato che trova ormai attuazione verso una forma di governo caratterizzata dal progressivo accentramento dei poteri nell’esecutivo e in esso la sempre più manifesta funzione “coesiva” e “vincolante” del Presidente del Consiglio nel dirigere l’azione di governo. In definitiva la modifica e l’affinamento del modo di governare (suoi strumenti e metodi). Dal tipo di contraddizioni che sono venute a maturazione per tutto il corso dell’ultimo decennio, sintetizzabile nella necessità per uno Stato a capitalismo maturo d’intervenire nel movimento dell’economia in crisi (un intervento complesso data la sua dimensione internazionale) e di far fronte al governo del conflitto di classe, conflitto che ha conosciuto espressioni di uno spessore e con un grado di autonomia senza eguali nelle altre formazioni economico-sociali occidentali, e l’esistenza di un processo rivoluzionario diretto e organizzato dalla Guerriglia, ne è scaturito un processo di riadeguamento dello Stato che ha investito nel suo complesso forme e meccanismi del potere. Un processo non solo di carattere meccanico-oggettivo (ovvero scaturente solo sul piano di relazione crisi/rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato, che pure esiste), ma che trova le sue radici e i suoi punti di squilibrio proprio nella specificità della democrazia rappresentativa italiana che, sorta dalla guerra e dalla Resistenza, ne ha ereditato una precisa configurazione degli equilibri generali politici e di forza fra classe e Stato. Un processo di riadeguamento non certo lineare, che è relativo alle stesse forme di dominio della Borghesia Imperialista nel loro interrelazionarsi dialettico con la struttura economica (evoluzione dell’imperialismo) e con la classe (maturità del movimento di classe ed esistenza del processo rivoluzionario). In tal senso la democrazia rappresentativa è l’involucro sovrastrutturale adeguato alla fase dell’imperialismo, proprio in quanto ha dimostrato di possedere quell’elasticità necessaria a far fronte alla crisi, nella misura in cui questa ha prodotto non solo dei gravi scompensi economici e sociali, ma anche politici. Infatti, alla fine degli anni ’70, la DC – cioè la forza politica attorno a cui si era formato ed aveva ruotato il sistema politico italiano – entrò in una grave crisi politica dopo il fallimento della politica di “unità nazionale”; la complessa articolazione delle forze politiche borghesi ha in quell’occasione mostrato di poter garantire la “governabilità” del paese, segnando anche delle importanti tappe politiche nella definizione del più generale processo di rifunzionalizzazione dello Stato. La stabilità politica dell’Italia nelle scelte politiche fondamentali, quali il rapporto con l’alleanza atlantica, col grande capitale monopolistico e con la classe nelle politiche adottate, portanti come unico tratto distintivo un chiaro carattere antiproletario e controrivoluzionario, in tal senso ha trovato attuazione proprio nella complessità della democrazia rappresentativa, segnatamente al rifunzionalizzarsi dei partiti alle nuove condizioni generate dalla crisi, espresso dal formarsi di nuovi equilibri politici (le presidenze del consiglio “laiche”) che hanno gestito non solo i passaggi necessari alla frazione dominante della Borghesia Imperialista per sostenere la concorrenza e modificare e ricondurre in un nuovo ambito istituzionale i termini del conflitto di classe, attraverso il ripristino di condizioni favorevoli nei rapporti di forza generali fra classe e Stato, ma anche nelle modifiche apportate dal piano istituzionale nella funzione e nei poteri stessi dello Stato.
In questo decennio sono venuti a maturazione una serie di passaggi concreti nel processo di “riforma dello Stato” (i processi di esecutivizzazione in particolare) e di volta in volta si sono costruiti equilibri politici che hanno espresso nelle diverse fasi il punto di risoluzione (relativo) per le contraddizioni che nascevano dalle necessità di governo del paese. Dentro questo processo complesso e contraddittorio la DC ha maturato una nuova centralità che oggi la rende il perno di equilibri politici facenti capo alla frazione dominante di Borghesia Imperialista. Il processo contraddittorio aperto dalla “fase costituente” che tende ad evolvere verso una “seconda repubblica”, modificando funzione e peso dei partiti e gli strumenti con cui si opera la mediazione politica fra classe e Stato, si è ripercosso sugli equilibri politici che si instaurano a livello di governo spostando, nella sostanza, in avanti le stesse contraddizioni interborghesi e di conseguenza il loro punto di sutura. Se il passaggio dalla presidenza Goria al governo De Mita ha rappresentato una sterzata definitiva in questo processo con la ripresa del possesso in senso complessivo delle leve del comando sulla base di un progetto politico organico, seguita poi da una vera e propria escalation di colpi di mano e forzature, l’ulteriore passaggio in questa direzione operato con il governo Andreotti mostra in tutta evidenza gli effetti dell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, così come la necessità impellente di operare forzature nei rapporti di forza complessivi laddove si credeva di potervi far fronte con il processo di sviluppo della “democrazia formale” e con la costruzione di false “alternanze di governo” (le staffette). In realtà l’unica “alternanza” che si è realizzata è appunto quella all’interno della DC, tutta relativa alle contraddizioni che sono maturate in questo processo e che hanno reso più stretti i margini di manovra nel “governo possibile” in presenza della crisi generale e del mutamento dei rapporti di forza a livello internazionale. L’attuale esecutivo, avvalendosi dei passaggi già operati verso l’esecutivizzazione e la rifunzionalizzazione dello Stato, in particolar modo la riforma della presidenza del Consiglio, la modifica del voto segreto, si è mosso su questa falsariga spingendo però l’acceleratore in seguito all’aggravarsi del quadro politico ed economico interno ed internazionale, caratterizzando l’azione di governo secondo schemi che non è errato chiamare di “golpismo istituzionale”, relativamente ai problemi posti dalla fase attuale dell’imperialismo, ovvero l’approfondimento della contraddizione Est/Ovest e la necessità di adeguare il capitale monopolistico ai nuovi livelli di concorrenza, mentre sul piano interno principalmente verso la vasta conflittualità politica e sociale che si esprime con le forme di lotta e di organizzazione a “macchia di leopardo”, che investe cioè molteplici settori di classe; lotte che avendo sperimentato a fondo la sostanza del neocorporativismo nelle relazioni industriali come corrispettivo dell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, sono di fatto già parzialmente fuori controllo nel momento stesso in cui si esprimono, essendo caratterizzate a priori da una forte critica al sindacalismo di regime. Entro questo quadro in parte oggettivo, ma soprattutto soggettivo, cioè di lucida persecuzione di obiettivi prefissati nell’ambito dell’esecutivo, vediamo dispiegare l’azione di governo che spazia contemporaneamente su più piani, caratterizzandosi nel suo complesso come movimento di vera e propria restaurazione (nel senso di una tendenza all’azzeramento delle precedenti conquiste politiche e sociali della classe e non nel senso di un’involuzione reazionaria nelle forme di dominio della Borghesia Imperialista). Così è nei rapporti intergovernativi, con politiche di selezione nel rapporto fra ministeri e Presidenza del Consiglio passate da un lato attraverso il filtro del Consiglio di Gabinetto, che inoltre rappresenta una sorta di “comitato di crisi” riunito in permanenza per impattare le varie “emergenze” e per ricondurre entro interessi generali le inevitabili sfasature che si producono, e dall’altro con i vincoli cui sono sottoposti i singoli ministeri in materia di spesa sottoposta al vaglio del Capo del Governo e della triade bilancio-tesoro-finanze per verificarne la compatibilità con i rigidi indirizzi di politica economica. Analogamente nel rapporto tra esecutivo e parlamento si tende alla funzionalizzazione delle camere al governo (proposta di modifica del “bicameralismo perfetto”) per farle tendere ad una funzione di pura e semplice ratifica delle decisioni governative, per adesso attuate con il ricorso al voto di fiducia. Gli ultimi episodi in materia chiariscono il vizio per i colpi di mano che esprime però uno stato di necessità relativo al fatto che l’esecutivo deve muoversi contemporaneamente su più piani e con la medesima impronta decisionista perché ne risulti la possibilità di contenimento delle contraddizioni che si frappongono fra stato reale dei rapporti di forza e indirizzo politico programmatico, contraddizioni a loro volta alimentate proprio da questo modo di operare a suon di forzature. Inoltre nel rapporto con la Magistratura risulta chiarissima la ormai consolidata funzione assegnatagli di repressione-contenimento delle contraddizioni sociali e in più il tentativo di compattamento alle esigenze dell’esecutivo passanti attraverso la proposta di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), tendente ad azzerare il peso delle rappresentanze dell’opposizione “istituzionale”, così come per la Corte dei Conti che ha una funzione chiave per ciò che riguarda l’intervento dello Stato nell’economia, chiamata così a ratificare le scelte dei ministeri economici che favoriscono i monopoli, tutte squilibrate verso i finanziamenti diretti e indiretti al grande capitale in relazione ai processi di concentrazione monopolistica in atto, e ancora per la Corte Costituzionale chiamata a compatibilizzare con equilibrismi giuridici gli strappi operati nel quadro istituzionale. Altro piano è quello del rapporto tra potere centrale e poteri locali, dove a fianco della legge Gava, che sancisce la non autonomia politica in termini di indirizzo e di funzione degli organi del governo locale e la “responsabilizzazione” in materia di spesa sul piano amministrativo, si realizza la centralizzazione dei modelli di governo, imponendo coalizioni siamesi di pentapartito. Inoltre, un’attenzione particolare merita la recente proposta di Andreotti di riunificare i vari apparati dei Servizi Segreti, che palesemente tende a rafforzare il potere “golpistico” compattando l’azione dell’apparato più filogovernativo per antonomasia, che da sempre opera un ruolo controrivoluzionario tristemente noto.
Contemporaneamente a tutta questa serie di cambiamenti nel modo di governare, più o meno sanciti dalle modifiche legislative e istituzionali, è mutato in questa ultima fase anche l’approccio ai passaggi già operati o da operare sul piano della “riforma dello Stato”. Se da un lato l’esecutivo si è avvalso della riforma della Presidenza del Consiglio e della modifica del voto segreto come validi puntelli per i suoi colpi di mano, la stessa riforma della Farnesina ha subito nel suo iter alcune modifiche in relazione, in primo luogo, alle necessità derivanti dalla collocazione dell’Italia nella catena imperialista e all’interno del processo di coesione politica europea e, conseguentemente, rispetto al piano della rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato. Infatti, per far fronte alle esigenze sul piano dell’evoluzione dei rapporti Est/Ovest, con tutto il suo portato politico-strategico, oltre che economico, nella riforma della Farnesina è previsto che il Ministro degli Esteri coordini tutte le attività che riguardano la politica internazionale, anche se svolte da altri ministeri o Enti Locali (ad esempio le Regioni) con un’organizzazione delle Direzioni Generali per aree geografiche (Europa e Nord America, Sud America, Africa mediterranea e mediorientale, Africa sub-sahariana, Sud-Est asiatico e Oceania). La “supervisione” del Ministero degli Esteri che ne deriva è chiaramente attinente all’aumentato peso dell’Italia soprattutto sul piano diplomatico e politico, in primo luogo in relazione all’inserimento dei paesi della fascia sud europea nel processo di coesione-integrazione, e poi rispetto ai conflitti che si producono nell’area mediterranea-mediorientale, ma ha un riflesso diretto anche nei processi di esecutivizzazione poiché la gestione centralizzata della politica estera tende ad evitare le sfasature che normalmente si producono quando ad operare sono più soggetti istituzionali in una materia complessa qual è appunto la politica estera che evidentemente comprende più piani d’intervento. Si fanno sempre più evidenti entro questo processo, da un lato, l’enorme importanza assunta dal piano internazionale nello svolgersi delle relazioni tra i diversi istituti dello Stato e, dall’altro, le sue implicazioni complessive in termini politico-diplomatico-militari rispetto allo stretto legame tra crisi/compattamento dell’alleanza imperialista/rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato: l’attivismo dell’Esecutivo in politica estera risponde anch’esso ad uno stato di necessità con il suo tratto restaurativo pur negli “affinamenti” legislativi e istituzionali. Rispetto al rapporto capitale-lavoro l’azione dell’attuale Esecutivo ha reso ancor più evidente il suo intervento diretto nelle principali questioni che riguardano la contrattazione della forza-lavoro e nel merito delle relazioni industriali; è recente l’ennesimo accordo capestro sul costo del lavoro spalleggiato dall’Esecutivo che ha spinto affinché esso prevedesse a fianco di tale questione anche un capitolo sulle nuove regole di composizione dei conflitti, così da rafforzare ulteriormente le posizioni del capitale, al contempo indebolendo quelle del sindacato, approfondendo la sua già grave crisi di rappresentatività che è divenuta materia da tutelare per legge! Inoltre, l’uso massiccio e spregiudicato della precettazione è divenuta la soluzione decisionista come anticipazione della legge antisciopero, un intervento questo sul piano istituzionale che per la forte opposizione incontrata nel campo proletario non ha ancora trovato attuazione per le contraddizioni interborghesi che ne sono derivate; per aggirare l’ostacolo, allora, si è posta mano agli stessi meccanismi della precettazione, rendendone più facile il ricorso. Il piano politico del rapporto classe/Stato si è andato a modificare a partire dalle forzature operate con la controrivoluzione degli anni ’80. Le tappe sostanziali dello scontro politico e sociale nel nostro paese, lo sviluppo stesso dei caratteri dell’autonomia di classe, sono tali per l’attività della Guerriglia, in quanto la sua prassi interviene sui rapporti di forza generali tra le classi, ed è per questa dinamica che la controrivoluzione degli anni ’80, oltre a scompaginare il tessuto di lotte proletarie, ha portato necessariamente con sé il corollario di restauro-ripristino delle precedenti condizioni favorevoli alla Borghesia Imperialista, in sostanza andando a modificare le stesse forme di dominio della borghesia adeguandole alla fase dell’imperialismo, nonché adeguandole ai livelli di scontro politico e sociale e all’esistenza del processo rivoluzionario. Partendo da questo dato generale, questo Esecutivo ha spinto al massimo la tendenza alla restaurazione, facendo delle pressioni e intimidazioni di chiara marca controrivoluzionaria, una pratica costante e quotidiana: blitz nei luoghi di lavoro per normalizzare i conflitti che vi si producono, in particolare camuffando la sostanza dello smantellamento dello “Stato sociale” in “scarsa attitudine al lavoro”; attacco e criminalizzazione di qualsiasi forma di antagonismo all’operato del governo, allo scopo di operare una pacificazione forzata e il silenziamento delle tensioni politiche e sociali che si producono nel paese. Un terreno obbligato, questo, anche in relazione alle esigenze del capitale in questa fase, che ha portato i livelli di sfruttamento della forza lavoro ad un limite di per sé insostenibile e che quindi genera conflitti e processi di aggregazione sui quali il governo si preoccupa di intervenire con metodi terroristici. Il quadro che viene a delinearsi di converso è perciò quello di una forte instabilità politica e sociale; lo stesso quadro politico delle forze istituzionali (di maggioranza e di opposizione) dimostra come alla generale tendenza all’accentramento dei poteri nell’Esecutivo ne consegue un indebolimento nella dialettica tra le forze politiche che continuamente genera la necessità di un riassestamento. Se la tendenza dominante all’esecutivizzazione è il tratto caratteristico di tutte le democrazie mature occidentali, la specificità del caso italiano merita di essere sottolineata proprio perché costituisce un percorso a suo modo originale sul piano del rapporto classe/Stato. Il riadeguamento delle forze politiche indotto dalla rifunzionalizzazione dello Stato trova uno stretto collegamento con l’accentramento dei poteri nell’Esecutivo proprio a partire dagli equilibri che si formano intorno alla frazione dominante della Borghesia Imperialista. Il processo intrapreso dal PCI è tutto interno a questa dinamica e rappresenta solo l’atto conclusivo della progressiva perdita di peso politico e della modifica della funzione stessa che, precedentemente alla fase controrivoluzionaria, PCI e sindacato avevano svolto in quanto rappresentanze istituzionali della classe. Ma ciò che è più importante è che lo snodo conclusivo del percorso revisionista ruota attorno al tema politico dominante della “modifica delle regole del gioco”, in primo luogo attorno alla modifica della legge elettorale che ne costituisce un capitolo determinante poiché va a ridisegnare la geografia politica delle sedi parlamentari e dei rapporti di coalizione fra le forze politiche rappresentanti la Borghesia Imperialista, tenendo conto anche che il “modello” del pentapartito è ormai già nei fatti superato dalla centralità assunta dalla DC nelle coalizioni di governo.
Il PCI, costretto ad inserirsi in questo processo in virtù della modifica dei termini della mediazione politica tra classe e Stato, ne scambia la forma con la sostanza: infatti la provocatorietà del referendum proposto sulla legge elettorale non è tanto perché costringe la maggioranza a compattarsi per scongiurarlo e porre dunque mano a quello che costituisce il più delicato ingranaggio del meccanismo della “riforma dello Stato” (infatti è chiaro che l’approvazione di una nuova legge si misura con un terreno e ad un clima politico non ancora giunto pienamente a maturazione cui sta cercando di porre rimedio questo stesso Esecutivo con la pratica dei colpi di mano sulle questioni politiche preminenti), quanto perché è agitato a scopo lealista e propagandistico per camuffare nella forma referendaria ciò che invece è materia esclusivamente relativa agli interessi borghesi negandone così il carattere di classe.
Nella sostanza il PCI finisce per favorire la modifica del quadro costituzionale, sancendo per così dire la rottura degli equilibri instauratisi dal dopoguerra, in virtù di una “rinnovata affidabilità al sistema” che è poi semplicemente il conformarsi ad una dialettica puramente formale con le forze di governo, così da rappresentare solamente il garante “democratico” del regime.
Sono proprio gli anni della controrivoluzione a segnare in modo irreversibile la natura ed i passaggi del processo rivoluzionario nel nostro paese, ad imporre il terreno e la qualità dello scontro di classe, ad imporre il terreno di adeguamento alle avanguardie e al movimento rivoluzionario, e ciò per una semplice ragione generalizzabile a tutti gli Stati: è in riferimento al come, al modo con cui la borghesia impone la sua dittatura di classe, al come e al modo con cui la borghesia regolamenta e “istituzionalizza” il proprio dominio che si organizza l’opposizione di classe, l’opposizione rivoluzionaria.
È sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi vent’anni non una delle ragioni obiettive che stavano alla base della costituzione della Guerriglia nelle metropoli imperialiste è venuta meno. Ovvero, in sintesi le ragioni dell’affermarsi della Guerriglia, della strategia della lotta armata, sono date dai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo ha posto in essere sia sul piano storico-politico che economico-sociale. E in principal luogo nella diversa caratterizzazione delle forme di dominio e quindi del rapporto classe/Stato con l’affermarsi della controrivoluzione preventiva e dall’altro lato per il conseguente grado di integrazione politico-militare fra gli Stati della catena che stabilisce una nuova condizione entro cui viene a collocarsi e svilupparsi lo stesso processo rivoluzionario. Da ciò si è constatato il venir meno del dato del “momento eccezionale” (strategia terzinternazionalista dell’insurrezione) e ponendo in essere, nel carattere di lunga durata della guerra di classe, l’aumentato peso della soggettività rivoluzionaria nello scontro. Anzi, l’intersecarsi del movimento delle crisi capitalistiche e il rapporto rivoluzione/controrivoluzione, ha spinto gli Stati della catena imperialista (pur con tempi e passaggi riferiti alla propria storia concreta) a rimodellare i termini del “governo” del conflitto di classe. Questa la natura e la base da cui hanno preso il via le odierne “riforme dello Stato” riconoscibili da tutti, anche se molti fanno finta o hanno interesse a non vedere e ciò per un’unica ragione, perché riconoscere questi dati di fondo e la realtà attuale significa (per parte rivoluzionaria) collocare la propria militanza nei presupposti interni alla formazione della Guerriglia; perché la Guerriglia nelle metropoli imperialiste non è semplicemente un surrogato della guerra, una “tecnica militare” (guerra guerreggiata), ma l’organizzazione adeguata a misurarsi contro lo Stato, a rompere il reticolo della mediazione politica che caratterizza il rapporto politico tra le classi negli Stati a capitalismo maturo; è l’unità del politico e del militare; è rompere con il monopolio della violenza della classe dominante per praticare gli interessi generali del proletariato e collocarli nella loro giusta dimensione: scontro per il potere con il fine del superamento della società divisa in classi. D’altronde, questi ultimi dieci anni segnati dall’approfondimento del rapporto di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione hanno evidenziato in termini oggettivi come un processo rivoluzionario nelle metropoli imperialiste, in presenza della Guerriglia, assuma la connotazione di una Guerra di Classe di Lunga Durata, come la proposta della lotta armata sia il solo terreno adeguato allo scontro per l’organizzazione di classe. È evidente perciò come questi anni di controrivoluzione siano decisivi per lo scontro stesso del processo rivoluzionario nel nostro paese, decisivi perché non ci si può sottrarre al livello di scontro raggiunto; perché le dinamiche dello scontro rivoluzione/controrivoluzione attraversano in maniera orizzontale tutte le istanze politiche della classe (anche se lo Stato calibra il suo intervento nei confronti della classe e delle sue avanguardie mirandolo e dosandolo a seconda delle istanze si cui va ad agire); perché hanno imposto ed impongono all’avanguardia armata di misurarsi con le leggi dello scontro, di adeguare costantemente il proprio impianto politico, di affinare le capacità per realizzare il programma politico. Il contraltare a questi compiti è l’annientamento politico, è l’arretramento complessivo delle posizioni politiche della classe senza vie di mezzo! Per le BR questi anni sono stati fonte di ricchi insegnamenti e di una rinnovata capacità proiettata nel futuro proprio per la comprensione che hanno acquisito delle leggi generali che influenzano le dinamiche dello scontro di classe nelle metropoli imperialiste. Un percorso pratico fatto di avanzate e ritirate, di successi e sconfitte, di errori pagati duramente. Errori in parte evitabili e comunque sempre frutto dell’attività rivoluzionaria pratica. L’Organizzazione in attività saprà ancora una volta risolvere tali errori e far tesoro degli insegnamenti pratici e teorici. Dal loro superamento saprà trarne profitto, rilanciando su tali nuove acquisizioni (come sempre è successo in questi vent’anni) lo scontro a livello più alto. Da parte delle BR uno dei momenti fondamentali nel processo di riadeguamento alle mutate condizioni dello scontro è stata la scelta, nel 1982, di aprire la Ritirata Strategica. Le condizioni politiche generali in cui fu operata la Ritirata Strategica rimarcavano una sostanziale inadeguatezza dell’impianto e della linea politica dell’Organizzazione sui termini dello scontro. Da una parte l’incapacità di cogliere i mutamenti che a livello dell’imperialismo andavano a modificare il quadro degli equilibri generali. Dall’altro lato, per quanto riguarda l’analisi dello Stato e della situazione interna, si riteneva che l’attacco all’“Unità Nazionale” aveva lasciato la borghesia e lo Stato incapaci di ricompattare le proprie fila e di riformulare nuove intese politiche. Questo era anche il prodotto di una visione dello Stato schematica, che da un lato assolutizzava il piano soggettivo, dall’altro ne schematizzava le funzioni ad articolazioni del “Sistema Imperialista delle Multinazionali”. Non si coglieva il movimento partito all’interno stesso della borghesia e dello Stato teso a sferrare una controffensiva politico-militare alla classe, a partire dalle sue avanguardie di lotta e rivoluzionarie. Con il fine di operare una rottura a favore della borghesia nei rapporti di forza tra le classi per ridimensionare così il peso politico acquisito dalla classe operaia e dal proletariato. Una controffensiva senza precedenti, la quale non poteva che partire infliggendo un duro colpo alla Guerriglia in modo da riversarlo sull’intero corpo di classe attraversandolo orizzontalmente: dai settori dell’autonomia di classe che si sono dialettizzati con la Guerriglia, al movimento rivoluzionario, fino a pesare sulle condizioni politiche e materiali di tutto il proletariato. Una controffensiva che per proporzioni, modi di dispiegamento, ha assunto caratteri di vera e propria controrivoluzione. Le posizioni inadeguate, prodotte principalmente dalla giovinezza politica, sono state battute nelle battaglie politiche contro il soggettivismo idealista e l’operaismo. Il ricentramento operato dall’Organizzazione (esplicitato dall’azione Dozier per quanto riguarda l’antimperialismo e dall’azione Taliercio per quanto riguarda il piano classe/Stato) non impedì contraddizioni e ritardi. Ma il ripristino del corretto metodo dell’analisi materialista permise l’apertura della Ritirata Strategica nonostante i limiti di comprensione che l’Organizzazione aveva della stessa, gli permise di ritirarsi e proseguire nel riadeguamento pur all’interno della pressione esercitata dalla controffensiva dello Stato. La giustezza della scelta della Ritirata Strategica ha dimostrato nel tempo tutta la sua validità, poiché interpretando opportunamente le leggi della guerra rivoluzionaria ha permesso alle BR di ripiegare da posizioni niente affatto avanzate, collocando correttamente la sconfitta tattica dell’82 nell’andamento discontinuo dello scontro all’interno del percorso di lunga durata. Una scelta che ha permesso di aprire una fase rivoluzionaria in cui le BR, ritirandosi, hanno sottratto per quanto possibile, le forze al dissanguamento causato dalla controffensiva dello Stato senza cadere nell’avventurismo. In tal modo le BR hanno iniziato un lungo e difficile processo di riadeguamento complessivo a fronte delle modifiche avvenute nel contesto dello scontro con la conseguente durezza delle condizioni politiche e materiali venutesi a determinare nel tessuto proletario e nell’autonomia di classe. Un processo quindi non lineare e ciò proprio per la natura stessa dello scontro di classe e del processo rivoluzionario in generale e della funzione della Guerriglia in particolare, la quale evidenzia senza mediazione il rapporto di guerra che vige nello scontro di classe, caratterizzandolo pertanto come processo di guerra di classe di lunga durata.
Non linearità perché è un percorso materiale collocato per intero all’interno delle contraddizioni generate nel tessuto di classe dal confronto rivoluzione/controrivoluzione. Pertanto non è solo riduttivo, ma in alcuni casi anche oggettivamente opportunista pensare che sia sufficiente la “ricollocazione di un corpo di tesi e la loro propaganda per l’uscita dalla Ritirata Strategica” e ciò perché di fatto è sottrarsi alle implicazioni che ha l’operare nell’unità del politico e del militare, l’operare della Guerriglia indipendentemente dalla coscienza che se ne ha. Ma il procedere del processo di riadeguamento è strettamente legato alla ricostruzione delle condizioni politiche e militari della guerra di classe, alla capacità delle BR di articolare un processo di attivizzazione/organizzazione delle forze proletarie a partire dalle condizioni create dall’arretramento. Tenendo conto che per la Guerriglia anche il riadeguamento si realizza nell’unità del politico e militare; implica quindi che l’avanguardia combattente stabilisca una “condotta della guerra rivoluzionaria” i cui termini sono interni ai presupposti della Ritirata Strategica sino a che l’evolversi successivo dei livelli di ricostruzione, compattamento e direzione delle forze proletarie sul terreno rivoluzionario non abbiano maturato l’assestamento necessario per superare le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza tra le classi. Possiamo affermare che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice nel processo rivoluzionario, dai meccanismi che permettono ad una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi rivoluzionaria, al processo rivoluzionario nel suo complesso. Per quanto riguarda l’esperienza maturata dall’Organizzazione possiamo dire che la Guerriglia svolge la funzione di direzione dello scontro di classe, affrontando contemporaneamente e globalmente i principali piani del processo rivoluzionario. La direzione operata dalla Guerriglia è volta ad organizzare e disporre le forze in riferimento al sostenere il livello di scontro dato e ai fini della fase rivoluzionaria sul terreno strategico della lotta armata obiettivamente consolidatosi nello scontro rivoluzione/controrivoluzione in vent’anni di prassi rivoluzionaria delle BR. In altri termini la strategia della lotta armata è il modo con cui si rende praticabile il processo rivoluzionario e si materializza lo sviluppo della Guerra di Classe di Lunga Durata contro lo Stato. Un processo in cui l’avanguardia armata si pone come direzione e organizza fin da subito i settori rivoluzionari di classe che si dialettizzano e si dispongono sul terreno della lotta armata. Vent’anni di prassi rivoluzionaria hanno chiarito come il portato dell’agire nell’unità del politico e del militare abbia tracciato un terreno concreto di (possibile) risoluzione al quesito da sempre oggetto di dibattito nel movimento rivoluzionario, quale la questione del “Partito” e del rapporto “Partito/masse” determinando al tempo stesso una netta demarcazione con l’opportunismo parolaio. Per quanto riguarda il Partito ciò ha evidenziato come questo sia un problema di costruzione/fabbricazione delle condizioni stesse della guerra di classe, cioè problema di costruzione di una direzione politica e di strutture organizzate, adeguate a sostenere lo scontro e a rilanciarlo ed approfondirlo, perseguendo ed assolvendo alle necessità e ai compiti dettati dalla congiuntura politica che scaturiscono dalla contraddizione dominante che oppone la classe allo Stato, disponendo e organizzando le forze disponibili intorno ai compiti imposti dalla fase rivoluzionaria, compiti che in generale sono sempre riferibili allo stato dei rapporti di forza tra le classi, agli equilibri dei rapporti tra imperialismo e antimperialismo, allo stato delle forze proletarie e in ultima istanza ad un determinato passaggio del rapporto di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione. Solo la risposta corretta e contemporaneamente la collocazione materiale delle forze permette di aprire una nuova fase rivoluzionaria di scontro. Nuova fase che è sempre il prodotto di come si è conclusa la fase precedente, in quanto prodotto del rapporto concreto di scontro tra le forze in campo. Pertanto il susseguirsi delle fasi rivoluzionarie assume un andamento non lineare, non schematizzabile dall’inizio alla fine. Alla luce dell’andamento concreto del rapporto di scontro tra le classi, la costruzione di una reale direzione politica attraverso un atto di “fondazione del Partito” pare non solo infantile, ma addirittura opportunista. Per questo le BR fin dalla loro iniziale attività ed elaborazione teorica hanno sempre posto il problema del Partito come processo di costruzione e di fabbricazione delle condizioni stesse della guerra di classe. Nodo che ha sempre caratterizzato le fasi del processo rivoluzionario nel nostro paese, dalla fase della Propaganda Armata alla fase attuale di Ritirata Strategica. In questo percorso le BR si sono costruite come direzione politica dello scontro proprio agendo da partito per costruire il Partito, perché le BR non sono il Partito ma un’organizzazione di Guerriglia che nel loro agire politico-militare pongono le basi per la loro trasformazione in Partito.
In altri termini la Guerriglia, le Brigate Rosse, si pongono nello scontro come un esercito Rivoluzionario (ovviamente con specifiche peculiarità determinate dal tipo di mediazione politica assestatasi negli Stati a capitalismo maturo) che lavora a costruire la direzione politica, il Partito Comunista Combattente. Questa impostazione fa altresì chiarezza riguardo a quelle posizioni che vedono il formarsi del Partito come una sommatoria, “federazione” di gruppi e organismi che si richiamano ideologicamente al comunismo, dettandone l’inconsistenza di queste posizioni.
Riguardo al rapporto “Partito/masse” la posizione delle BR è nettamente chiara; tale rapporto non è altro che il termine di costruzione/organizzazione degli spezzoni di autonomia di classe sul terreno della lotta armata, calibrato nelle forme e nei modi alle fasi rivoluzionarie che si attraversano. La giustezza di queste concezioni, oltre ad essere stata verificata dalla pratica, è derivata dal fatto che la direzione della Guerriglia si esplica sui piani principali dello scontro, cioè vi è interdipendenza e interrelazione tra i diversi momenti in cui si materializza l’operare della Guerriglia nella dinamica attacco-costruzione-organizzazione-attacco. Questo perché un processo rivoluzionario non è la risposta agli attacchi della borghesia alle condizioni politiche e materiali della classe (un atto difensivo), anche se nel suo sviluppo conosce fasi di resistenza più o meno prolungate, ma è nella sua sostanza un processo di attacco per affermare gli interessi generali del proletariato. In questa fase della guerra di classe segnata, dal lato dell’attività controrivoluzionaria dello Stato, da una riformulazione complessiva di tutti i termini della mediazione politica tra le classi e da parte rivoluzionaria, inserita nella fase generale dalle BR definita di Ritirata Strategica, cioè un periodo politico non quantificabile in anni nel quale l’attività rivoluzionaria è prevalentemente tesa ad una ricollocazione delle forze in modo da mantenere e rilanciare la capacità offensiva espressa dalla Guerriglia, diventano di fondamentale importanza i criteri con i quali si sviluppa l’attacco, si definiscono gli assi programmatici e la disposizione/strutturazione delle forze disponibili. Un dato generale dell’operare della Guerriglia è che la sua iniziativa è tesa a lacerare il piano degli equilibri politici fra classe e Stato e a costruire le condizioni materiali per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario che può partire solo intervenendo (con l’attacco) al punto più alto dello scontro. Questo poi si ripercuote come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi fino al piano capitale/lavoro, una dinamica di intervento che “libera” – anche se momentaneamente – energie proletarie.
Una forza politica che deve trovare il suo corrispettivo sul piano rivoluzionario nella costruzione di organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, calibrata nelle forme e nei modi alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali. Vantaggi momentanei derivanti dell’attacco operato che vanno tradotti in organizzazione, perché lo scontro rivoluzionario diretto dalla Guerriglia nelle metropoli imperialiste non può costruire “basi rosse” stabili, non può avere retroterra logistico, perché lo scontro rivoluzionario nei centri imperialisti è una guerra senza fronti dove l’attività controrivoluzionaria dello Stato si dispiega contro l’intero campo proletario (Guerriglia, movimento rivoluzionario, classe); dove il processo rivoluzionario avanza in una condizione di accerchiamento strategico, almeno fino alla fase finale dello scontro rivoluzionario. Alla luce di questa considerazione di carattere generale ed ai caratteri assunti dallo Stato (in quanto organo della dittatura borghese e contemporaneamente manifestazione della inconciliabilità fra le classi) le BR fanno dell’asse classe/Stato il principale elemento programmatico su cui si costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata. Non si tratta come nel passato di disarticolare, mettendoli sullo stesso piano, tutti i centri della macchina statale (periferici e centrali) anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello Stato, visto in una separatezza tra i suoi apparati (politici, burocratici, militari) a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe, ricondotta a due sole fasi principali: quella dell’accumulo di capitale rivoluzionario e il suo dispiegamento nelle guerra civile. L’esperienza acquisita dalle BR ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nell’andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni l’attacco allo Stato, al suo cuore congiunturale, va inteso nel giusto criterio affermatosi nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco.
Centralità: si può affermare che date le condizioni politiche dello scontro, il suo approfondimento, la capacità dell’attacco di disarticolare (inteso in termini relativi e non assoluti) risiede in primo luogo nella capacità tutta politica di individuare all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della Borghesia Imperialista.
Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio delle forze che tale progetto sostengono.
Calibramento: sta nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado di approfondimento dello scontro (ad esempio anche in casi di arretramenti il livello di intervento non può prescindere dal punto di scontro più alto assestato), allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese che negli equilibri internazionali fra imperialismo e antimperialismo. Questi i criteri che guidano l’attacco e la scelta dell’obiettivo e che permettono alla Guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale. In ultima analisi possiamo affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase della guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.
Altro elemento programmatico, di vitale importanza, su cui si costruiscono i termini della guerra di classe è l’antimperialismo. Su questo terreno si è sviluppato un processo di confronto e di unità politica tra le diverse forze rivoluzionarie. L’esordio del Fronte Rivoluzionario Combattente in Europa Occidentale promosso nel 1985 dalla Rote Armee Fraktion (RAF) e da Action Directe (AD) ha costituito il primo momento di confronto concreto nelle forze rivoluzionarie, a partire dalla prassi che lo ha sostanziato; si è posto cioè sul piano soggettivo la possibilità di superare quel fronte oggettivo costituito dai singoli percorsi rivoluzionari che avvengono sia nel centro che nella periferia. L’assunzione soggettiva della politica di Fronte permette quindi di connotare l’internazionalismo proletario all’interno della prassi adeguata alla profondità dello scontro tra imperialismo/antimperialismo; in questo senso ribadiamo la giustezza delle affermazioni fatte dal Fronte fin dal suo esordio, e cioè che lavorare alla costruzione e consolidamento del Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria. L’attività antimperialista delle BR fin lì praticata con le iniziative politico-militari Dozier e Hunt, si è confrontata con il problema politico del Fronte ponendosi in dialettica con il suo processo di avanzamento e consolidamento (l’iniziativa politico-militare Conti).
L’approccio delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente alla politica di Fronte Combattente Antimperialista (FCA) è quella di una politica di alleanze con le altre forze rivoluzionarie (non necessariamente del centro) tesa a costruire momenti di unità successivi contro il nemico comune (le politiche centrali dell’imperialismo). Per questo il fronte non è e non può essere una formazione “spuria” di una nuova Internazionale Comunista, come qualcuno nell’intento di denigrare questa proposta politica ha cercato di spacciare, ma sostanzialmente è fondata su un rapporto di alleanza fra le varie forze combattenti. Tutto ciò non significa che l’attività antimperialista sostituisca l’intera prassi rivoluzionaria all’interno del paese; ovvero vive la consapevolezza che i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata dipendono in primo luogo dalla capacità di intervenire nelle contraddizioni tra classe e Stato e che tali contraddizioni nascono all’interno delle condizioni peculiari del paese (per quanto possano essere influenzate dalle relazioni che l’imperialismo stabilisce all’interno). Per questa ragione l’attività nel FCA costituisce per le BR una parte del loro programma politico, essa cioè vive con l’attacco al cuore dello Stato un rapporto programmatico. Inoltre, per la nostra Organizzazione, l’attività del FCA non può disperdersi in un attacco generico all’imperialismo, a qualsiasi livello esprime la sua politica, ma ne deve individuare i nodi centrali, sia quando essi si esplicano nel cuore del sistema, sia quando sono volti a “normalizzare“ l’area mediterraneo-mediorientale, sia quando essi si coordinano per stabilire politiche controrivoluzionarie nei confronti della Guerriglia e del FCA. Ciò significa intendere l’alleanza come un processo di unità successive, che non comportano l’annullamento del proprio impianto specifico nella politica di Fronte, ma stringerla all’interno dell’obiettivo di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo, indipendentemente dalle finalità strategiche delle Forze Rivoluzionarie che vi contribuiscono, siano esse lotte di liberazione nazionale o la conquista del potere politico da parte del proletariato. Per questo le BR affermano insieme alla RAF che non si tratta di fondere ciascuna Organizzazione in un’unica Organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo. L’unità possibile e necessaria, nel FCA, fra le Forze Rivoluzionarie del centro e quelle della periferia, nulla toglie al diverso peso e funzione che ognuna occupa nello scontro, due livelli che appunto si riunificano politicamente nella lotta contro l’imperialismo. All’interno di questi criteri generali, la nostra Organizzazione si rapporta alla politica del Fronte, contribuendo al suo rafforzamento attraverso intese politiche fattive. È all’interno di questo contesto, in riferimento alla politica di alleanze praticata e promossa dalla nostra Organizzazione, che rivendichiamo ancora l’iniziativa combattente della RAF contro il presidente della Deutsche Bank, Alfred Herrhausen. Essa, insieme alla precedente contro Tietmayer, si inserisce contro il centro della politica che in questa fase costituisce l’elemento principale del processo di coesione (formazione) dell’Europa Occidentale a partire dal suo cuore, il ruolo della Repubblica Federale Tedesca.
Due assi programmatici (classe/Stato, antimperialismo/imperialismo) che sono il terreno pratico su cui le BR sviluppano e verificano la loro capacità d’attacco e assolvono alla funzione di direzione politica dello scontro. Una direzione che si colloca nel quadro di scontro interno e internazionale dove qualificare e far vivere nella strutturazione e disposizione delle forze il patrimonio acquisito in questi vent’anni e misurarsi con l’approfondimento dello scontro rivoluzione/controrivoluzione. Per inciso va detto che questi anni di prassi rivoluzionaria hanno verificato che qualora viene meno il modulo politico-organizzativo fondato sui criteri di clandestinità e compartimentazione, su sedi politiche ben definite che permettono di accertare e relazionare le diverse responsabilità attraverso il centralismo democratico, vi è perdita di capacità della Guerriglia su tutti i piani dello scontro. In questa fase politica quello che va tenute presente è il quadro determinato dalla dialettica rivoluzione/controrivoluzione nel nostro paese, un processo che si ripercuote nel modo in cui lo Stato si relaziona al campo proletario. Lo Stato ha ben presente che non può eliminare la componente rivoluzionaria, in questo senso ha definito un apparato antiguerriglia con un raggio d’intervento politico complessivo, ovvero finalizzato a tenere sotto pressione le componenti proletarie e rivoluzionarie che esprimono antagonismo verso lo Stato. Un aspetto questo che si compenetra con la mediazione politica facendo di quest’ultima un reticolo di atti politici e materiali che contrastano con l’ambito stesso di formazione dell’avanguardia, nel tentativo di impedire all’autonomia di classe di esprimersi. In sintesi, misurarsi con le condizioni politiche del rapporto classe/Stato per pesare sugli equilibri dello scontro mette in luce i termini necessari della dialettica Guerriglia/autonomia di classe. Una dialettica che a livello dell’organizzazione di classe sul terreno della lotta armata deve agire sul binomio ricostruzione-formazione. Le BR hanno lavorato e lavorano per porre le basi alla fase di ricostruzione; queste poggiano sui passaggi effettivamente compiuti dall’avanguardia rivoluzionaria in termini di ricentramento teorico, politico e organizzativo attraverso la prassi concretamente messa in campo per portare l’iniziativa rivoluzionaria al punto più alto dello scontro tra le classi. Se queste basi consentono di definire questo indirizzo politico su cui s’incentra il lavoro rivoluzionario, è però vero che la fase di ricostruzione è un passaggio problematico e difficile per i molti fattori di contraddizione a cui l’avanguardia combattente deve dare soluzione. A fronte della qualità richiesta all’intervento rivoluzionario, quindi delle condizioni complessive per espletarlo, vi è la continua necessità di operare ricostruzione dei mezzi e delle forze che devono essere disposte; questo comporta un andamento avanzate-ritirate, per via dell’equilibrio da mantenere tra i due fattori, il quale deve confrontarsi con l’intensa attività antiguerrigliera e controrivoluzionaria dello Stato, e per altro verso per il necessario processo di formazione delle stesse forze rivoluzionarie. Ecco perché questa fase è soggetta ad un andamento fortemente discontinuo che comporta il procedere fra avanzate e ritirate, condizionando in tal modo l’atteggiamento tattico del momento. In sintesi, un termine di lavoro che attraversa verticalmente e orizzontalmente le forze in campo (seppure con le dovute differenze) a partire in primo luogo dalla formazione dei rivoluzionari.
L’adeguamento nella capacità di esprimere la direzione idonea alle mutate condizioni dello scontro comporta un salto di qualità nella centralizzazione delle forze in campo attorno all’attività generale dell’Organizzazione, cioè emerge la necessità politica che l’attività dell’Organizzazione si muova in termini di forte centralizzazione politica, che nell’accezione leninista significa: centralizzazione delle direttive politiche sull’intero movimento delle forze, decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse sedi e istanze organizzate. Più precisamente la centralizzazione deve rispondere alla capacità di responsabilizzare le forze in un piano di lavoro le cui caratteristiche politiche siano di patrimonio di tutti e non interpretabili spontaneamente dai diversi livelli organizzati. La centralizzazione dell’attività del movimento delle forze è condizione che richiede il massimo utilizzo politico delle medesime all’interno di una disposizione volta a farle muovere intorno all’iniziativa dell’Organizzazione. Ciò avviene solo dentro un piano di lavoro definito, all’interno del quale tutte le forze concorrono non per spontaneo apporto, ma disposte e organizzate in modo da contribuire confacentemente. Una dinamica politico-organizzativa che può avvenire appunto nel duplice movimento centralizzazione politica/decentralizzazione delle responsabilità. Questo perché non è più sufficiente disporsi spontaneamente sulla lotta armata pensando di ritagliarsi in piccolo i problemi posti dallo scontro; in altri termini, una riproposizione dell’esperienza dei nuclei, che al proprio livello riprendevano le indicazioni dell’Organizzazione, in questo contesto non è più praticabile politicamente.
Non si tratta di dover far fare esperienza al proprio livello alle forze che si relazionano, ma si tratta fin da subito di formarle all’interno di una disposizione che permette di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro richiede: la dimensione del senso organizzato del lavoro per rispondere alle necessità che assume questo livello di sviluppo della guerra di classe. Al di fuori di questo dato politico c’è solo un’interpretazione fumosa dell’unità dei comunisti che, muovendosi in ordine sparso, non può che trascendere dalle condizioni che lo scontro impone, al limite ritagliandosi un proprio spazio ininfluente ad incidere sullo scontro stesso, ma di fatto favorendo la dispersione delle forze e delle iniziative in quanto su di esse grava, indipendentemente dalla coscienza con cui si sono disposte nello scontro, tutto il peso delle condizioni politiche. Questo adeguamento implica la capacità di esprimere un livello di direzione politico-organizzativa adeguata alla centralizzazione nella disposizione delle forze sull’attività dell’Organizzazione, un livello di direzione che nel suo complesso muove verso un avanzamento nel processo di costruzione del Partito Comunista Combattente.
I militanti delle BR-PCC: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari organizzati intorno alle BR-PCC: Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco Venturini.
Febbraio 1990