Premessa
Rispetto al testo del 5.6.94 pubblicato da un gruppo di militanti prigionieri della nostra Organizzazione che ritrattano la loro rivendicazione dell’azione di Aviano dobbiamo riaffermare che le Brigate Rosse hanno un’identità politica, strategica e programmatica, chiarissima lungo una storia di ventiquattro anni durante i quali la direzione è sempre stata nell’Organizzazione in attività. Lì rimane.
La logica e la procedura adottate da questi nostri compagni sono gravi e sconcertanti. Le spieghiamo con la confusione e l’oscillante disorientamento determinati da anni di assenza di attività politico-militare e quindi di direzione politica di Organizzazione e con la conseguente ignoranza dei problemi odierni dello scontro. La fase di ricostruzione della guerriglia nell’attività è estremamente complessa e difficile per tutti e non deve stupire troppo che ciò possa anche riflettersi a suo modo, in maniera più distorta in carcere.
Come militanti delle BR-PCC abbiamo discusso e deciso la gestione di questo processo nel metodo degli ultimi vent’anni: sulla linea politica dell’Organizzazione in attività – consapevoli che, come ogni militante sa bene, non spetta ai prigionieri sindacare l’operato dell’Organizzazione bensì sostenerlo – assieme ai nostri compagni coi quali in carcere siamo organizzati e nel carcere in cui siamo rinchiusi. In questo stesso corretto ambito abbiamo ora ritenuto obbligata questa nostra nota e, insieme abbiamo ritenuto doveroso fare ciò che è possibile per evitare contrapposizioni che siamo in grado di valutare come sicuramente dannose per l’insieme del movimento rivoluzionario. Nelle contraddizioni non antagoniste e soprattutto nelle questioni interne d’Organizzazione rifiutiamo per principio, per metodo e per stile di lavoro di alimentare logiche di schieramento.
Non intendiamo perciò discutere pubblicamente. Le BR non svolgono dibattiti a cielo aperto, che producono solo divisione e confusione: solo nel processo prassi-teoria-prassi si produce chiarezza, e così unità.
L’intero contributo teorico-pratico dato dalle Brigate Rosse nel processo rivoluzionario in Italia è un patrimonio acquisito, è la base politico-militare su cui pur nelle difficoltà la guerriglia in attività, le BR-PCC, si stanno confrontando contro lo stato e l’imperialismo nel lavoro di rimettere in moto la continuità della direzione rivoluzionaria del proletariato. È all’Organizzazione in attività che anche noi, in quanto prigionieri, ci discipliniamo, come ogni militante prigioniero è tenuto a fare.
La conduzione della fase di ricostruzione è un processo nient’affatto lineare, che oltre tutto è dovuto ripartire sui colpi militari subiti dalla nostra Organizzazione nell’88-89 e ha la necessità di costruire nei tempi dovuti il suo consolidamento, che non può che prodursi sulle proprie gambe nel vivo dello scontro.
Dichiarazione Corte di Assise di Udine 6 giugno 1994.
Il 2 settembre 1993 un nucleo armato della nostra organizzazione ha attaccato il personale militare americano della base aerea Usa di Aviano. Lo rivendichiamo ancora una volta, e in quest’aula, come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.
Lo scopo era di infliggere le maggiori perdite e causare il maggior danno possibile al nemico: indipendentemente dall’esito concreto conseguito dalla nostra operazione e dalle circostanze particolari che ne hanno condizionato il risultato, la scelta dell’obiettivo e delle modalità dell’attacco è difesa da una valutazione politica del tutto consapevole del livello di scontro da praticare per rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria, nella logica offensiva della guerriglia e nella linea delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC. Il bilancio sulla conduzione e sulla conclusione dell’operazione di Aviano ha di sicuro suggerito alla nostra organizzazione utili motivi di riflessione e fornito nuovi elementi critici di esperienza. Nessun insegnamento andrà sprecato, in futuro certamente faremo meglio.
In ogni caso la nostra azione contro uno dei maggiori centri logistici e operativi della struttura militare americana in Europa meridionale e nell’area mediterranea ha dimostrato ancora una volta che attaccare le forze imperialiste non solo è necessario ma è possibile anche in condizioni difficili coma ha detto un grande guerrigliero: «Bisogna fare la guerra in tutti i posti dove la fa il nemico, nella sua casa, nei luoghi dove si diverte e si riposa… Bisogna impedire che il nemico abbia anche un solo minuto di tranquillità, un minuto di tregua fuori dalle sue basi e anche all’interno di queste…». (Che Guevara)
Per la linea delle Brigate Rosse il piano in cui si attesta, nel vivo dell’azione, il rapporto fra rivoluzione e controrivoluzione e si fissa il conseguente impegno politico-militare dell’avanguardia combattente, non deriva dai rapporti di forza misurati sulla specificità delle situazioni locali, ma sintetizza nella pratica dell’attacco la contraddizione principale, imperialismo/antimperialismo. Per questo nonostante l’acuirsi della crisi nella ex Jugoslavia e l’avvio dell’operazione “Deni Flight” ponessero la base di Aviano in prima linea, riaffermandone il ruolo e l’importanza come braccio operativo della strategia Nato di intervento nei Balcani e sottolineandone la funzione già svolta in passato di indispensabile ponte logistico per le “proiezioni di potenza” americane nell’area mediterranea e mediorientale, è stato possibile colpire dove volevamo anche se non come volevamo. A fronte della determinazione della guerriglia, poco contano i vari gradi di allarme “bravo” o “charlie”, le tanto propagandate “eccezionali misure di sicurezza”, l’estendersi e l’approfondirsi di un controllo poliziesco già capillare in una delle regioni storicamente più militarizzate d’Europa.
Il 2 settembre ’93 le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente lo hanno dimostrato.
Nella propria impostazione strategica le BR hanno definito fin dalle origini l’indirizzo antimperialista ed internazionalista del processo rivoluzionario entro cui collocare lo sviluppo stesso della lotta armata per la conquista del potere politico da parte del proletariato in questo paese. Già nella risoluzione della direzione strategica del 1975 l’organizzazione afferma che: «…la guerra di classe rivoluzionaria nelle metropoli europee è anche guerra di liberazione antimperialista, perché l’emancipazione di un popolo da un contesto imperialista deve fare i conti con la repressione imperialista. Non esistono vie nazionali al comunismo perché non esiste la possibilità di sottrarsi singolarmente al sistema di dominio imperialista».
A partire da questi presupposti politici di fondo l’attività più che ventennale delle Brigate Rosse ha individuato nella Nato il vettore principale delle politiche centrali imperialiste. Con la cattura del generale Dozier e in seguito con l’azione contro Hunt e fino all’azione Conti, l’analisi si è concretizzata in pratica di combattimento, seguendo una linea che ha saputo svilupparsi fase per fase costruendo le basi per la formazione del Fronte Combattente Antimperialista.
Colpire la Nato attaccando Aviano per noi non significa “smascherare” l’aggressività guerrafondaia occidentale o “denunciare” il pericolo di una intensificazione dell’intervento imperialista in questa o quell’area di crisi. Non è stato un gesto di propaganda armata. Il rombo quotidiano degli F 16 o degli A-10 in fase di decollo per una missione che per la prima volta dalla sua istituzione nel ’49 impegna direttamente la Nato coinvolgendola in uno scenario bellico, è la più efficace propaganda che gli americani stessi possano fare all’autentico carattere “di pace” o “umanitario” delle loro iniziative militari e, insieme, ai miserabili vantaggi che la loro presenza in Friuli comporta per la situazione economica locale. Il proletariato e i popoli della periferia del sistema non hanno il problema di “smascherare” le grottesche costruzioni ideologiche che da sempre mistificano le aggressioni imperialiste, perché hanno provato e provano sulla propria pelle cosa significhi il volo degli aerei a stelle e strisce, dalla Libia alla Somalia, dal Libano all’Irak, da Grenada a Panama e ovunque gli Usa e i loro alleati occidentali hanno seminato morte e distruzione in nome dei diritti dell’uomo.
L’azione di Aviano, quindi, non è stata simbolica, ma ha rappresentato l’applicazione di cosa significhi per le BR-PCC considerare l’attacco agli Usa, l’attacco alla Nato, come il concreto e vitale punto di incontro dell’interesse strategico del proletariato metropolitano e dei popoli già bestialmente sottoposti all’aggressione imperialista in ogni parte del mondo. In questo senso la nostra attività e la decisione di usare le armi il 2 settembre 93 si inserisce a pieno titolo in questa fase di riorganizzazione delle forze rivoluzionarie attorno alle basi programmatiche e dell’impianto strategico delle BR-PCC che pone le condizioni per il rilancio della lotta armata e del processo rivoluzionario in questo paese. A questo proposito collochiamo l’iniziativa dei compagni dei nuclei comunisti combattenti condotta a Roma il 10-1-94 contro la sede del Nato Defence College, struttura di formazione di quadri politico-militari da inserire in ruoli dirigenziali, come un momento qualificante nel percorso di ripresa di una pratica rivoluzionaria che ha dimostrato quanto l’incisività strategica della proposta politica della nostra organizzazione trovi riscontro in quelle avanguardie combattenti consapevoli di misurarsi con gli impegnativi compiti posti all’ordine del giorno dalle stesse caratteristiche dello scontro attuale.
Infine, per ciò che riguarda questo processo, da quanto abbiamo sostenuto risulta chiaramente che il nostro comportamento si riferisce all’ambito degli interessi della guerriglia e quindi non ha bisogno di alcuna giustificazione davanti a un tribunale dello stato. Della nostra condotta politica e pratica rispondiamo soltanto alla nostra organizzazione: le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.
L’arrogante certezza che la fine del bipolarismo consegnasse nelle sole mani della casa bianca il governo del concludersi di un secolo di straordinari sconvolgimenti economici e sociali, di guerre e rivoluzioni, sta tramontando proprio nel momento della massima proiezione estera della supremazia bellica di Washington.
Al di là di ogni apparenza è proprio l’indebolimento tendenziale della base economica dei grandi trust monopolistici americani nei confronti del processo di formazione degli altri poli imperialisti a far privilegiare il piano strettamente militare come terreno su cui riaffermare saldamente fra gli alleati una indiscutibile superiorità USA. In questo senso non esiste una discontinuità sostanziale fra le linee strategiche di gestione della transizione al dopo “guerra fredda”, impostate con l’attacco all’Irak e sfociate nella tesi di Bush sul “nuovo ordine mondiale” a egemonia americana, e l’evoluzione degli indirizzi di politica estera dell’amministrazione democratica.
L’aggressione all’Irak è stata l’ultima guerra in cui l’interesse generale dell’imperialismo a ribadire la subordinazione di un paese della periferia poteva ancora identificarsi con lo specifico interesse Usa al controllo di un’area strategica e, nel contempo, la prima guerra in cui la ricerca da parte americana della copertura di una coalizione internazionale tramite il paravento Onu era finalizzata all’utilizzo dello strumento militare come metro di misura della propria leadership nell’ambito delle relazioni interimperialiste. Fatte le debite proporzioni, e in un altro contesto, la riproposizione di uno schema analogo in Somalia chiarisce quanto la strada dell’uso dell’interesse generale dell’imperialismo, come collante politico di una coalizione animata da esigenze concorrenziali, sia ormai sempre meno producente e praticabile. L’impostazione della operazione “restore hope” voluta dai repubblicani e la sua conclusione malamente gestita dai democratici, non rimandano tanto alla differenza fra Bush e Clinton nel governo della prima fase di “unipolarismo”, quanto al grado di divaricazione fra reali interessi specifici degli stati imperialisti già raggiunto nel breve periodo trascorso dalla guerra del golfo e rispecchiato dall’attuale stallo dell’intervento occidentale nella crisi della ex Jugoslavia. Le oscillazioni della politica estera ufficiale americana sono il riflesso di questa situazione. La casa bianca si muove fra la diretta assunzione di un ruolo di gendarme dell’ordine mondiale e una linea in cui è l’Onu, tramite le sue “missioni umanitarie”, che consente agli Usa di conseguire i propri obiettivi senza risultare direttamente impegnati in ogni congiuntura. Viene anche lasciata aperta un’ipotesi che abbandona la proposta di costruzione di una forza armata stabile Onu e rivaluta la Nato attraverso l’approfondimento del rapporto bilaterale con i maggiori stati imperialisti come miglior veicolo del riconoscimento della supremazia americana. In ogni caso alla favola del presidente buono, disponibile a liquidare l’eredità di Reagan e di Bush, ma prigioniero della logica aggressiva del complesso militare-industriale, può dar credito solo il cretinismo clintoniano di una certa sinistra della borghesia europea, PDS orgogliosamente in testa.
La realtà è che i vari gruppi dirigenti, le frazioni di borghesia, gli stati, si stanno muovendo conseguentemente ad una situazione segnata nel profondo dal generalizzarsi di una crisi per sovrapproduzione assoluta di capitali che da vent’anni investe il sistema imperialista, crisi che è il fattore dominante di questa fase e si traduce oggi nella grave recessione in cui si trovano coinvolti, se pur in diversa misura, tutti gli stati imperialisti.
La tendenza alla guerra come sbocco storicamente inevitabile delle contraddizioni innescate dal carattere strutturale della crisi capitalistica non deriva dalla pianificazione delle politiche aggressive dell’imperialismo ma le presuppone. Il prodotto di queste strategie poi, e come sempre, si verifica sul campo, e ciò nell’epoca dell’imperialismo significa la distruzione dei capitali sovrapprodotti, di merci e di forza lavoro eccedente, ovvero fame, morte e devastazione per milioni di persone: la trasformazione dei conflitti locali in guerre regionali e poi in guerre più estese nella periferia ed ora anche in Europa è la forma con cui si sta già dispiegando la sostanza della tendenza alla guerra.
Il riarmo reaganiano che ha trainato l’illusoria e breve ripresa economica della metà anni ’80 come estrema misura controtendenziale per arginare l’incedere della crisi è riuscita ad accelerare il collasso dell’est, incapace di reggerne le conseguenze anche a causa del grado di integrazione già conseguito nel mercato internazionale. Dall’89 al ’91 si è innescato un processo che, attraverso le crisi interne dei paesi dell’Europa orientale, lo scioglimento del Comecon e del patto di Varsavia, è sfociato nella dissoluzione della stessa Unione Sovietica, con la presa del potere politico da parte di formazioni che esprimono e perseguono organicamente interessi controrivoluzionari ed esigenze borghesi. Le conseguenze di questa realtà sono evidenti. Il quadro strategico internazionale caratterizzato dall’assetto bipolare della contraddizione storica est/ovest si è trasformato radicalmente con ovvie ripercussioni sia nella periferia, sia nel centro del sistema imperialista, specie in Europa. La fine della “guerra fredda” interagisce così con l’aggravarsi delle ragioni strutturali della crisi ed è proprio nell’estendersi e generalizzarsi delle sue conseguenze sociali e politiche in ogni angolo del mondo che la maturazione storica della necessità di rottura del sistema imperialista si traduce nella possibilità di porre con rinnovata forza all’ordine del giorno la costruzione dello sbocco rivoluzionario.
Oggi il “trionfo sul comunismo” può rovesciarsi dialetticamente nel suo contrario. È una possibilità che non cerca di riprendere le mosse dai cieli a temporali dell’ideologia, ma che riaffiora concretamente dalle stesse linee di frattura del precedente equilibrio internazionale e si afferma in uno scenario sempre più instabile e disordinato, lacerato da dinamiche di conflitto che coinvolgono masse enormi di uomini e di donne, ipotecano la sopravvivenza di intere aree geografiche, cancellano e ridisegnano confini, provocano flussi migratori inarrestabili, sconvolgono e rimescolano assetti sociali, culture e tradizioni. Le prospettive di lotta e le grandi potenzialità rivoluzionarie, che scaturiscono dalla natura e dalla portata delle cause materiali alla base della nuova situazione, proprio perché fanno definire strategicamente favorevole il quadro attuale, impongono ai comunisti il massimo impegno nel promuovere quell’ineludibile riadeguamento alle condizioni dure e complesse dello scontro odierno che trova il suo primo passo nella comprensione delle direttrici che caratterizzano questo stadio della crisi del modo di produzione capitalistico contemporaneo, l’imperialismo.
Per quasi mezzo secolo gli stati imperialisti hanno riconosciuto sostanzialmente la supremazia della super potenza americana e il suo ruolo nella difesa dell’interesse generale del blocco occidentale, da intendersi non come sommatoria meccanica di interessi specifici e parziali, ma come convergenza di esigenze ricomponibili in un contesto tendenzialmente unitario in quanto storicamente determinato dalla stessa definizione delle linee economiche e politiche di superamento della crisi postbellica. A differenza della prima guerra mondiale imperialista, la conclusione della seconda vede l’affermarsi di una sola vera potenza egemone, realmente vincitrice. Si innesca così un processo che va diversificandosi dalla precedente dinamica del mondo capitalistico nella sua fase imperialista. Gli Usa che grazie allo sforzo bellico avevano enormemente accelerato lo sviluppo delle forze produttive dovevano ricostruire un’area di mercato adeguata all’assorbimento delle ingenti masse di capitale accumulato. Il piano Marshall rispondendo a questa vitale esigenza americana determina anche le premesse strutturali della futura coesione del campo occidentale; anzi crea il campo occidentale inserendovi da subito le nazioni fasciste sconfitte. Dato da allora quello specifico rafforzamento della tendenza all’internazionalizzazione dei mercati e dei capitali che sul piano mondiale renderà presto obsolete le vecchie forme di dominio degli imperi coloniali ridisegnando le relazioni fra centro e periferia e sul piano “atlantico”, dopo la ricostruzione e la conseguente espansione delle economie europee, sfocerà nella ricerca di progressive ridefinizioni del rapporto di integrazione/concorrenza fra i diversi paesi. Un rapporto che si preciserà nelle tappe successive della connotazione di un interesse generale europeo, formalizzandosi nella creazione di istituzioni e organismi sovranazionali sempre più complessi, allargati e articolati, dalla CECA alla UE del trattato di Maastricht.
Questo processo, lento e intervallato da frequenti battute d’arresto, è potuto avviarsi solo all’interno di una solida cornice politico-militare e diplomatica, del tutto diversa dalle intese o alleanze prebelliche: il patto atlantico nasce infatti con la duplice funzione di fronteggiare l’espansione del campo socialista congelando gli equilibri di Yalta (la dottrina Truman del “containment”) e di stabilizzazione interna in chiave anticomunista e controrivoluzionaria del rapporto classe/stato cercando di fissare i limiti entro i quali integrare nel quadro democratico l’espressione politica mediata e “compatibilizzata” della spinta dal basso delle esigenze proletarie. Una necessità, quest’ultima, particolarmente sentita dalla borghesia di quei paesi dove le masse operaie vedevano nell’Urss un forte punto di riferimento ideologico e nella ricostruzione dell’Europa orientale un concreto esempio di come il piano Marshall non fosse l’unica strada per uscire dalla devastazione provocata dalla guerra. L’istituzione della Nato, mentre segna la piena affermazione della contraddizione est/ovest, rafforza a sua volta le ragioni della coesione rispetto a quelle della divaricazione, alimentando ulteriormente la spinta oggettiva verso la stretta interdipendenza economica dell’occidente. Per un lungo periodo, con qualche eccezione significativa (Suez, momento di punta del gollismo, ecc.) che misura la distanza di questa realtà da quella delle relazioni interimperialiste fra le due guerre mondiali, i contrasti fra le medie potenze verranno quindi incanalati in ambiti politico-diplomatici che ricomporranno le latenti spinte centrifughe in un interesse generale europeo, armonizzandolo con l’esigenza degli Usa a ribadire, congiuntura dopo congiuntura, la propria supremazia nella gestione dell’equilibrio bipolare. In questo senso l’interesse generale del campo occidentale si riassume nel riconoscimento consensuale della leadership americana e si articola gerarchicamente non solo in base al peso economico effettivo dei vari anelli della catena imperialista, ma anche secondo la loro specifica collocazione geopolitica lungo l’asse della contraddizione principale, la linea di fronte con il nemico globale rappresentato dall’Est.
La particolare attenzione Usa alla capacità dell’Italia di tenere adeguatamente la sua posizione nel fianco sud-est della Nato, tradottasi in una prassi consolidata di aperte e dirette ingerenze nelle questioni interne del paese e in un’opera costante di pressioni “non ufficiali” sullo svolgimento dei suoi passaggi politici cruciali, è un esempio ben noto che vale anche per molteplici altre situazioni. La dimostrazione di quanto la contraddizione est/ovest abbia profondamente connotato non solo il definirsi di un interesse generale dell’imperialismo ma, in ultima analisi, anche l’evolversi delle specifiche forme del dominio borghese, sta nello stesso procedere dei vari assetti politico-istituzionali verso il consolidamento delle attuali “democrazie compiute” europee. Allo stesso modo le direttrici strategiche che hanno fin qui presieduto il processo di formazione economica e di strutturazione politica di un polo imperialista europeo non possono essere considerate indipendentemente dalla contraddizione principale che ne ha stabilito i presupposti, orientato lo sviluppo e scadenzato le tappe.
Oggi, con l’esaurirsi di quella solidarietà occidentale in funzione antisovietica che ha contrassegnato un’intera fase storica, le contraddizioni interimperialiste stanno assumendo una portata impensabile anche solo qualche anno fa. Processi che parevano inarrestabili si bloccano e deviano dal loro corso, costruzioni diplomatiche date per eterne si ridefiniscono o si esauriscono. L’unanimità di facciata e l’ottimismo propagandistico dei vertici internazionali riescono sempre meno a mascherare le conseguenze dell’approfondirsi della crisi economica nelle relazioni fra gruppi e stati imperialisti. La loro tendenziale rotta di collisione, per ora ammessa ufficialmente solo a livello di “guerre sui tassi”, “guerre commerciali” o di “contenziosi” sui reciproci protezionismi, influisce in modo evidente sulla tenuta dei vecchi equilibri negli organismi sovranazionali. Lo scontro politico fra interessi concorrenziali si svolge ancora in forme mediate nella camera di compensazione dell’Onu, ma la stessa questione della futura composizione del consiglio di sicurezza è indicativa della velocità con cui la ricollocazione gerarchica nella catena degli stati imperialisti si rifletta nella ricerca di un maggior potere decisionale nel definire la nuova articolazione con la posizione di supremazia americana. Le contraddizioni fra gli Usa e il polo imperialista europeo in formazione vengono moltiplicate dalle dinamiche centrifughe che ridisegnano l’Europa centro-orientale e dal disfacimento dell’ex Unione Sovietica, fattori destabilizzanti che a loro volta si ripercuotono all’interno della UE. La politica di Kohl e la linea della Bundesbank scaricano sugli alleati le difficoltà sorte dall’enorme costo dell’annessione della DDR mettendo così in crisi lo stesso tradizionale asse franco-tedesco. La “Grande Germania” cerca spazio ad oriente e si circonda di una fascia di paesi satellite con l’area del marco che si estende dal Baltico al bacino danubiano, ma la RFT non ha la forza di imporsi da sola come unica potenza egemone continentale. Lo SME è franato, le tappe previste per l’unificazione monetaria non possono più essere rispettate, la situazione economica interna di nessuno stato imperialista risponde più ai parametri vincolanti del trattato di Maastricht, l’intero processo di unificazione deve essere continuamente rinegoziato.
È la crisi balcanica a mettere a nudo, dopo anni di assordante retorica europeista, le difficoltà di una concertazione effettiva delle politiche estere degli stati imperialisti e quindi a definire il reale stadio raggiunto dal processo di formazione del polo imperialista europeo sul piano della autentica coesione e della sua concreta strutturazione politica. I governi di Bonn, Parigi, Londra, Roma, prima sono unanimi nel fomentare l’odio nazionalista come fattore di accelerazione delle tendenze disgregative già presenti nella federazione Jugoslava, poi si dividono nel promuovere l’ascesa e favorire il consolidamento di nuove borghesie compradore in sanguinosa competizione per sistemarsi sotto questo o quell’ombrello protettivo. Messa per la prima volta di fronte ad una prova concreta nella gestione diretta dell’intervento in un’area di crisi, L’UEO dimostra la fragilità del suo iniziale tentativo di porsi, dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, come il vettore della progressiva autonomizzazione politico-militare europea e si subordina ancora una volta alla Nato, muovendosi in modo “compatibile e complementare” alla struttura militare atlantica. Una situazione che conferma come la riqualificazione della Nato nel ruolo di braccio armato dell’Onu, attraverso l’applicazione della dottrina della “presenza avanzata” per la sua proiezione in interventi “fuori area”, privilegia l’interesse americano a condizionare le modalità e i tempi di sfondamento a oriente degli alleati europei. In questa realtà, ancora tutta in movimento, va inserito il nodo in via di definizione dell’associazione alla Nato di vari paesi ex socialisti tramite diversi e progressivi gradi di partnership, mentre la geografia delle nuove alleanze “sul campo” e delle sfere di influenza tende a ricalcare quasi esattamente la disposizione delle forze dell’equilibrio europeo deflagrato nel ’14 con il primo macello mondiale di proletari causato dall’imperialismo.
È in questo scenario che dobbiamo considerare anche la valutazione della situazione italiana, non limitandoci a tenerlo sullo sfondo con una visione che, riducendo l’antimperialismo a una sorta di “politica estera” da affiancare di volta in volta alla conduzione della lotta qui, impedirebbe di concepire da subito l’agire della guerriglia in questo paese come parte integrante dello scontro rivoluzionario a livello internazionale.
Il processo di rafforzamento e sviluppo del fronte combattente antimperialista ha già scontato il peso politico estremamente negativo dell’assenza di una prassi rivoluzionaria adeguata alla gravità del momento durante la partecipazione italiana alla coalizione imperialista che aggredì l’Irak nel ’91. Allora le retrovie del nemico restarono sostanzialmente al sicuro. I movimenti di massa che pure si svilupparono contro la guerra non poterono, a causa della loro stessa natura, sottrarsi effettivamente all’influenza di una sinistra europea che, a partire dal suo interesse oggettivo nella partecipazione agli utili del dominio imperialista del mondo, si dimostrò organicamente schierata nella propria borghesia imperialista. I movimenti oscillarono così inevitabilmente nell’orbita e sotto la direzione di un opportunismo diversamente graduato dal “pacifismo equidistante” fino all’adesione più o meno critica alle superiori ragioni dell’occidente. L’iniziativa della guerriglia in Europa occidentale, e particolarmente in Italia, assolutamente non all’altezza della portata dello scontro , non riuscì ad impostare nemmeno in abbozzo quel rapporto dialettico con le avanguardie espresse anche dal movimento di massa che, sulla base di un’incisiva azione dall’alto e sul terreno di combattimento dettato dal livello dei rapporti di forza complessivi, poteva sviluppare una maturazione in senso antimperialista. Soltanto la presenza attiva ed effettiva di una guerriglia che esprime gli interessi strategici del proletariato può infatti costruire forza e organizzazione sul piano rivoluzionario.
Ma questa indispensabile autocritica non ci può esimere dal prendere posizione su ciò che è accaduto ad una altra organizzazione che pure si era schierata all’avanguardia nella conduzione di campagne di attacco alla Nato e contro le politiche di riarmo imperialista in Europa nel corso degli anni ’80. La Raf ha dichiarato fin dall’aprile del ’92 di voler recedere dal processo di lotta antimperialista per dedicarsi ad una specifica ed “universale” battaglia di “contropotere”. In questa nuova chiave la concezione guerrigliera e la prassi internazionalista che è stata la discriminante fondamentale posta storicamente dalla Raf nel movimento rivoluzionario internazionale, sono totalmente rimosse in quanto ritenute un allontanarsi “dalla lotta qui” e vengono sostituite da una impostazione strategica alternativa per la creazione, attraverso una dinamica che dovrebbe necessariamente svilupparsi dal basso, di spazi sociali liberati da estendere gradualmente in ambito capitalista. Non solo viene così ribaltata la concezione strategica della lotta armata, ma l’atteggiamento verso le lotte del proletariato metropolitano si rovescia nell’apologia delle particolarità e dei limiti delle lotte stesse. Per quanto riteniamo doveroso riaffermare oggi quanto abbiamo sempre sostenuto sulla funzione storica della Raf nella nascita della guerriglia e sul contribuito al suo radicamento ormai venticinquennale nei centri dell’imperialismo, ribadiamo che poco importano gli altri aspetti teorici della sua revisione e che la manovra di far leva sulla condizione dei compagni prigionieri nelle mani del nemico per giustificare la propria deriva opportunista ha tali analogie con vicende già sperimentate in Italia da non meritare di essere denunciata ancora una volta. Al contrario, e per parte nostra, torniamo ad affermare con forza che l’involuzione della Raf conferma ulteriormente come l’abbandono dell’impostazione della guerriglia di partire dal quadro strategico degli interessi del proletariato mondiale come condizione costitutiva, conduce ad abbandonare la linea rivoluzionaria nelle metropoli, nel “proprio” paese. Internazionalismo e antimperialismo effettivi sono garanzia della correttezza strategica e dell’efficacia politica della lotta per il potere nel paese in cui la guerriglia opera. Il rilancio di una linea rivoluzionaria nelle metropoli parte da questa realtà, una realtà che si dimostra ancora più valida in questa fase della situazione internazionale e del rapporto rivoluzione/controrivoluzione ad essa collegato.
Esiste una correlazione diretta fra la necessità della borghesia imperialista di liquidare un assetto politico e istituzionale ormai obsoleto e la ricerca delle condizioni generali più favorevoli per una nuova collocazione dell’Italia nel più grande riallineamento globale di forze mai verificatosi dalla fine della seconda guerra mondiale.
Lo scontro a tutto campo che agita protagonisti e comparse della scena politica attuale va ricondotto a questa prospettiva di fondo ed è in questo senso che va utilizzata la bussola analitica capace di orientare la guerriglia nella corretta individuazione del cuore dello stato.
Dietro la cosmesi propagandistica delle mani candeggiate, della virtù contro il vizio, del nuovo contro il vecchio, compare l’oggettività della dinamica che anima e indirizza la fase di transizione alla seconda repubblica. Era l’esigenza della borghesia imperialista di governare l’inserimento nel processo di formazione del polo europeo sostenendo il livello crescente di integrazione/competizione con le altre economie a presupporre il demitiano “portiamo in Europa l’azienda Italia”, cioè il vecchio. È la stessa tendenza ora rafforzata nel suo carattere competitivo dalla fine del bipolarismo e dalla fluidità degli attuali equilibri internazionali a motivare il berlusconiano “per contare di più in Europa”, cioè il nuovo. Al di là degli imbonimenti ideologici che intasano i canali della costruzione del consenso, appare chiaro che nessuna delle linee politiche oggi in conflitto si propone di frenare un processo che è comune pur nelle ovvie specificità, a tutte le formazioni economico-sociali europee e che detta il riposizionamento di tutti gli stati imperialisti. Lo scontro è invece avvenuto e continua a svolgersi fra la capacità delle diverse linee di porsi come interpreti privilegiate dell’articolazione programmatica, politica e istituzionale, dell’interesse della borghesia imperialista a vedersi garantito il retroterra più funzionale alla proiezione sui mercati internazionali. Come in ogni scontro, ci sono stati vincitori e vinti. Un intero ceto politico è stato, se non del tutto spazzato via, fortemente e definitivamente ridimensionato “per via giudiziaria”, cioè grazie a un metodo che anche nei momenti di maggior tensione ha saputo assicurare la tenuta della stabilità complessiva del sistema.
La DC che per mezzo secolo ha gestito i passaggi determinanti nel progressivo perfezionamento delle forme democratiche del dominio borghese, dalla liquidazione del CLN al centrismo, dal centro sinistra alla solidarietà nazionale, non è riuscita a guidare quella transizione ad una matura democrazia compiuta che pure era stata da tempo promossa dai suoi settori più lungimiranti e organici alla borghesia imperialista. La drastica marginalizzazione della DC non deriva ovviamente né dall’inettitudine della sua leadership, né dai vincoli di un apparato ideologico di matrice cattolica ormai superato, né dal suo grado di corruzione. In quanto a competenze maturate in decenni di esercizio del potere la burocrazia DC non risulta certo sprovveduta rispetto ai nuovi arrivati sulla scena politica. Inoltre, sul piano ideologico, l’interclassismo e il solidarismo cattolico hanno sempre rappresentato un ottimo collante sociale oltre che un efficace supporto teorico alla centralità democristiana. Ridurre poi ad una questione etica il problema della quota di clientelismo “patologico” presente nel sistema di potere democristiano è una grossolana mistificazione che vuole confondere i motivi del definitivo superamento del vecchio “keynesismo all’italiana” e della liquidazione del welfare della prima repubblica. Le cause della fine della DC sono oggettive e materiali. Derivano da un lato dal mutamento non solo dei rapporti di forza fra le classi ma dalla composizione stessa delle classi sotto la spinta incalzante della crisi che rende sempre più difficile la mediazione fra il diversificarsi degli interessi anche all’interno della borghesia, dall’altro segnano l’impossibilità di graduare i tempi e le tappe della riconversione del vecchio sistema di potere, scadenzandoli come in passato sulla velocità di adattamento democristiana ai nuovi assetti e non, come richiesto oggi, sulle priorità espresse direttamente dalla borghesia imperialista. Non è superfluo ricordare, inoltre, come la fine del bipolarismo abbia fatto venir meno quel pilastro fondamentale dell’egemonia DC rappresentato dal tradizionale rapporto fiduciario atlantico con gli Usa, dovuto alla collocazione italiana sulla linea di confine della contraddizione est/ovest. Se il problema di rinegoziare le future relazioni con Washington permane ed anzi assume una crescente importanza, saranno governi non più necessariamente democristiano a gestirlo, com’è dimostrato dalla visita di Clinton e dalla “scommessa” del presidente americano sull’Italia berlusconiana.
La riforma dello stato, la rifunzionalizzazione dei suoi poteri, la ridefinizione delle sue competenze e del grado e delle caratteristiche della sua presenza diretta nella sfera economica avanzano ormai su linee percorse da altri soggetti politici, che si contendono la guida della prosecuzione di un disegno da completare là dove il crollo della DC ne ha lasciato l’abbozzo. L’obiettivo del passaggio alla seconda repubblica era in realtà maturo da tempo. Già dopo la metà del decennio scorso era stato possibile mettere in cantiere progetti di riforma istituzionale che ratificavano l’assestamento del rapporto classe/stato su posizioni decisamente sfavorevoli per il campo proletario. Una modificazione sostanziale dei rapporti di forza che si era potuta concretizzare attraverso la fase di profonda ristrutturazione produttiva dell’inizio anni ’80 e l’attacco controrivoluzionario che aveva non solo colpito duramente la guerriglia, ma che aveva scompaginato l’intero arco delle forme politiche con le quali si era espresso il livello di autonomia di classe ereditato dai grandi cicli di lotta precedenti. La erosione progressiva degli spazi conquistati dalla classe operaia negli anni ’70 di pari passo al restringimento oggettivo delle basi materiali di qualsiasi credibile ipotesi riformista, l’accelerarsi dell’involuzione del revisionismo e la trasformazione del sindacato in una articolazione del regime pronta ad imboccare la strada della concertazione neocorporativa, marciavano parallelamente al precisarsi dei vincoli economici fissati dagli organismi internazionali (CEE, FMI, Banca Mondiale) che imponevano l’avvio del ridimensionamento complessivo del welfare come condizione del rilancio concorrenziale del sistema. La traduzione sul terreno istituzionale di questa situazione, dopo le forzature in senso presidenzialista del periodo craxiano, era sistematizzata nel progetto di riforma De Mita-Ruffilli, nella pratica di governo, viveva già nell’accentramento dei poteri nell’esecutivo, nello svuotamento delle prerogative parlamentari e nel mantenimento dell’opposizione in un ruolo di subalternità consociativa, quindi in quei primi elementi di “democrazia governante” (dove alla massima concentrazione del potere reale corrisponde la più vasta apparenza di democrazia, cioè il massimo di democrazia formale) che dimostravano quanto la fase matura della prima repubblica avesse già incorporato quel salto di qualità nel rapporto classe/stato operato dalla controrivoluzione negli anni ’80. Allo stesso modo la definizione di piani di controllo e riduzione della spesa e di rientro dell’enorme debito pubblico era già stata impostata programmaticamente dal governo De Mita (il primo piano Amato) anche se solo la successiva linea Amato-Ciampi ha cominciato ad applicarla in concreto. Lo schema demitiano non poteva però prevedere la velocità di divaricazione della forbice fra la gradualità di un disegno teso a ridurre al minimo le effettive lacerazioni costituzionali e la maturazione delle spinte alimentate dai pressanti interessi economici della borghesia imperialista. All’interno di questo contesto l’attacco delle Brigate Rosse individua l’importanza del più organico progetto politico elaborato dalla DC per affrontare i delicati passaggi del generale processo di riassetto dello stato e con l’azione contro Ruffilli contribuisce a incrinare gli equilibri politici che lo sostenevano. Il resto è storia recente. La riforma elettorale che doveva sanzionare il definitivo assestamento di una democrazia compiuta a misura del mantenimento di una rinnovata centralità democristiana, si è trasformata in un autentico boomerang accelerando il tracollo della DC e dei suoi vecchi alleati.
È significativo che sia stato un comitato d’affari della borghesia nella più pura delle sue accezioni, il primo vero “governo dei tecnici” dell’epoca postfascista, a porsi sia come curatore fallimentare della prima repubblica, attento a far procedere nella massima stabilità l’emarginazione della dirigenza del pentapartito e la crescita delle nuove formazioni politiche dilazionando la scadenza elettorale per consentire la creazione di un cartello di sinistra-centro, sia come promotore dell’impostazione di una politica estera da media potenza capace di ritagliarsi autonomi spazi di intervento e sfere di influenza.
Il Ciampi continuatore della linea Amato di “risanamento economico” e garante dell’affidabilità della “Azienda Italia” di fronte al sistema bancario internazionale, il Ciampi che svuota le riserve di Bankitalia pur di “tenere il paese agganciato a Maastricht” è lo stesso che perfeziona i primi passi di un rinnovato protagonismo in aree storicamente oggetto dell’espansionismo italiano. Lo dimostrano il protettorato sull’Albania, l’avvio di una presenza concorrenziale a quella di altri stati imperialisti nella penetrazione nella regione balcanico-danubiana e, principalmente, l’intervento in Somalia.
La partecipazione alla sanguinosa aggressione al popolo somalo è stato un concreto passaggio di quella rinegoziazione del rapporto con gli Usa nella definizione dei margini di maggiore autonomia di manovra consentiti all’espressione di un interesse specifico a sottolineare il peso e la rilevanza dell’apporto italiano ad un intervento imperialista. Non solo: la richiesta di un esplicito riconoscimento ufficiale in sede Onu, con i suoi risvolti pratici, sul campo, nel mutamento della relazione di totale subalternità iniziale alla gestione americana di “restore hope” non si riduceva alla ricerca di una affermazione del “prestigio nazionale”, ma rispecchiava il tentativo tutt’altro che formale di attestare una salda presenza italiana nel corno d’Africa ad un livello ben più efficace della precedente e disastrosa esperienza craxiana. Un obiettivo per ora mancato; nell’ambito del più generale fallimento dell’intera operazione, grazie alla tenace e coraggiosa resistenza del popolo somalo, ma che ha mostrato apertamente il grado di crescente difficoltà nella composizione di interessi concorrenziali fra diversi stati imperialisti.
I parà della folgore hanno lasciato sul terreno a Mogadiscio e sulla vecchia strada imperiale di Mussoliniana memoria centinaia di somali giustiziati come “banditi”, forse un migliaio secondo la stima orgogliosamente formulata dal generale Floris al ritorno dalla spedizione. Una buona verifica sul funzionamento del “nuovo modello di difesa” e, insieme, la fine della presunta scarsa affidabilità militare come argomento da far pesare contro l’Italia nelle relazioni interimperialiste.
Su un’altra scala e in un diverso contesto la crisi nella ex Jugoslavia ha fatto risaltare il coinvolgimento italiano in termini ben differenti da quello tradizionale di semplice, per quanto importantissima, portaerei della Nato protesa nel mediterraneo. L’articolazione e la graduazione delle mosse politico-diplomatiche italiane nei confronti della linea americana e delle differenziate strategie d’intervento degli altri stati imperialisti era tesa fin dall’inizio del precipitare bellico della situazione a connotare uno specifico interesse nazionale in discontinuità con il precedente allineamento acritico verso qualsiasi indirizzo di volta in volta adottato dagli alleati più potenti. Anche in questo caso i più ampi spazi di manovra gestiti dal duetto Ciampi-Andreatta sono stati resi possibili dalla completa disponibilità italiana ad attivizzarsi sul piano strettamente militare con una mobilitazione mai registrata in passato e addirittura non richiesta, come si è visto con l’altalena di assensi e dinieghi in sede di organismi internazionali alla proposta dell’invio di un contingente in Bosnia, considerata come un ulteriore fattore di squilibrio in una realtà già complicata dal difficile calibramento nel sovrapporsi sul campo di diverse linee di “interpretazione” del mandato Onu da parte dei vari protagonisti dell’intervento imperialista.
È questa eredità che l’esecutivo di Ciampi ha trasferito nelle mani del cosiddetto “primo governo della seconda repubblica”: la più solida delle piattaforme per qualsiasi successiva forzatura nel senso di un aggressivo attivismo internazionale finalizzato alla nuova collocazione imperialista dell’Italia.
Intervenire nel delicato snodo di contraddizioni in cui si inserisce il rinnovato protagonismo italiano per la piena assunzione di un ruolo da media potenza che spinge per un suo riposizionamento gerarchico, politico, diplomatico e militare negli organismi sovranazionali (dall’Onu alla UE, dalla Nato alla UEO) significa allora provocare anche quelle ricadute sul terreno dei rapporti di forza interni che definiscono il cuore dello stato nella linea garante della più efficace articolazione fra risanamento economico, nuovo quadro politico-partitico, passaggi di riforma istituzionale e di revisione costituzionale. Oggi il cuore dello stato vive nella linea che si afferma e si rafforza nella competizione per dirigere la fase di transizione alla seconda repubblica e perseguire così l’approfondimento e il perfezionamento delle forme di dominio sul proletariato che stabilizzano il rapporto classe/stato sul livello richiesto dalla borghesia imperialista come condizione indispensabile alla proiezione concorrenziale sui mercati internazionali.
Il rapporto di unità programmatica fra antimperialismo e attacco al cuore dello stato va stretto in questo senso ed evidenzia la capacità della guerriglia di individuare e colpire le direttrici politiche centrali della ricollocazione imperialista dell’Italia e nel contempo di impostare realisticamente l’avvio del processo di disarticolazione dell’instaurazione di una autentica seconda repubblica.
Solo con questa logica una adeguata pratica offensiva della guerriglia può costruire le valide premesse per rimettere in moto una corretta dinamica (sempre e comunque vincolata dagli esiti dell’andamento discontinuo dello scontro) che sappia relazionare l’uscita del campo operaio e proletario dalla difensiva con il rinnovarsi dell’espressione politica, anticapitalista, antistatale e antimperialista della sua autonomia. La conseguente rivitalizzazione della dialettica avanguardia combattente/autonomia di classe va costruita nella prospettiva della direzione da parte della guerriglia dei tempi e dei passaggi dell’organizzazione e della disposizione delle forze proletarie rivoluzionarie sul terreno della lotta armata.
Il processo che abbiamo ora delineato sinteticamente non è uno schema astratto né una esercitazione teorica che prescinde dagli effettivi rapporti di forza che caratterizzano la situazione attuale; ma presuppone una valutazione compiutamente materialista anzitutto delle reali condizioni del campo proletario e della natura difensiva delle lotte di resistenza che riesce ad esprimere in questa fase. Un campo operaio e proletario indebolito da anni e anni di attacchi durissimi alle proprie posizioni sociali ed economiche e, nonostante una recente ripresa di mobilitazione e di dibattito, ancora in larga misura depoliticizzato, confuso, inquinato da opportunismi di ogni genere.
Il carattere offensivo o difensivo delle lotte non si stabilisce a partire dal giudizio sulle forme che di volta in volta vengono sviluppate, sulla pratica “alta” o “bassa” o sulla loro diffusione ed estensione quantitativa. Per i comunisti il parametro di riferimento non è l’osservazione sociologica, ma è l’analisi dei rapporti di forza che si determinano fase dopo fase fra proletariato e borghesia, fra classe e stato, fra rivoluzione e controrivoluzione. La capacità di contrastare specifici progetti di attacco alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato e la possibilità delle lotte di sedimentare organizzazione al di fuori e contro il reticolo di mediazioni politiche ed istituzionali che le imbrigliano e le depotenziano, non vanno misurate indipendentemente dai rapporti di forza complessivi, ma relativamente ad essi. La qualità dello scontro di classe e il carattere dell’autonomia operaia e proletaria che vi si può sviluppare è data anche, a partire dalla base materiale delle contraddizioni strutturali del rapporto di produzione capitalistico, dalla coscienza, dalla memoria e dalla tradizione storica che si determinano nel proletariato attraverso le sue esperienze politiche e rivoluzionarie. Esperienze che in questo paese sono particolarmente contrassegnate da più di vent’anni di lotta armata per il comunismo e dal ruolo centrale svolto in questo senso dalle Brigate Rosse. L’impossibilità pratica, in un lungo arco di tempo in cui i colpi subiti dalla guerriglia lo hanno impedito organizzativamente, di riaffermare una presenza rivoluzionaria attiva esprimendola con attacchi al livello necessario ha inciso pesantemente sulla maturazione dell’autonomia di classe come soggetto politico.
Abbiamo ricordato come la fase finale della prima repubblica avesse già ampiamente incorporato quei rapporti di forza decisamente sfavorevoli al campo proletario “capitalizzando” gli esiti dell’attacco dispiegato contro la classe all’inizio degli anni ’80. È da questa realtà che si formalizzano gli accordi neocorporativi e si ridefinisce la funzione del sindacato confederale, terzo attore sul palcoscenico della concertazione con governo e confidustria in quanto non solo garante del controllo e del depotenziamento dei picchi “alti” delle lotte di resistenza, ma soggetto attivo e giuridicamente riconosciuto dell’articolazione nella classe degli assi programmatici della linea di “risanamento economico” e dei suoi effetti sul piano contrattuale, salariale, normativo. Un sindacato di regime che rafforza la sua stessa ragion d’essere e compatta la sua struttura burocratico-amministrativa a misura della capacità di cogestire il processo di graduale smantellamento del welfare, di contenimento e riduzione del salario reale e di massima flessibilità della forza lavoro. È su questo terreno che la linea Amato-Ciampi ha riscosso i più notevoli successi consentendo al governo la più totale mano libera sugli altri fronti della politica economica, dall’azione di Bankitalia sui tassi d’interesse, alla riorganizzazione del sistema creditizio, all’inizio effettivo delle dismissioni e delle privatizzazioni. Indipendentemente dal grado di liberismo che i nuovi esecutivi della seconda repubblica intenderanno davvero mettere nei loro programmi operativi, gli accordi del 3 luglio ’93 che perfezionano il funzionamento della dialettica neocorporativa già definita con il patto del 31 luglio dell’anno precedente, restano una solida piattaforma di riferimento anche per una linea governativa che si proponga di ridimensionare ulteriormente il ruolo e il peso del sindacato. La natura di regime ormai assunta da una larga fascia di dirigenti e bonzi sindacali facenti riferimento all’area revisionista troverà di sicuro anche nella seconda repubblica la possibilità di esprimersi nell’impegno di contenimento e repressione delle lotte operaie.
È solo incidendo sui rapporti di forza complessivi che determinano questa situazione che la prospettiva di un rafforzamento politico del campo proletario può tradursi in una uscita della classe dalla difensiva, una tenace e quotidiana resistenza che è destinata ad indebolirsi ulteriormente senza il rilancio della lotta armata e della sua capacità di disarticolare il progetto centrale della borghesia imperialista di transizione alla seconda repubblica e della piena assunzione italiana di un ruolo da media potenza in uno scenario internazionale estremamente fluido e solcato da profonde contraddizioni.
L’attività di direzione dei comunisti sullo sviluppo della prospettiva rivoluzionaria deve quindi tenere sempre presente il piano internazionale dello scontro, assumendosi la responsabilità di agire nell’attuale rapporto classe/stato ad esso collegato. Una responsabilità decisiva e un ruolo dirigente da conquistare e difendere che non possono esprimersi in modo compiuto se non nella dimensione del processo di costruzione del partito comunista combattente. Fuori da ogni velleitarismo o attendismo è questa la discriminante sulla quale si deve confrontare politicamente e verificare concretamente l’unità dei comunisti per il rilancio e l’avanzamento della strategia della lotta armata.
Un confronto pratico che deve indirizzarsi da subito sulla necessità di attestare solidamente la guerriglia su quei livelli di analisi e di programma politico-militari e organizzativi richiesti dalla fase di ricostruzione e indispensabili per far fronte ai nuovi compiti da sostenere in un quadro di riferimento generale difficile e complesso e in dure condizioni di lotta. Un processo di questo tipo non può realisticamente essere concepito come il risultato automatico e lineare di una maturazione spontanea o condotto come il graduale riconnettersi di una pratica ancora inadeguata alla qualità che deve caratterizzare l’iniziativa guerrigliera con l’assunzione teorica dell’impianto strategico della lotta armata. La vitalità delle avanguardie che il movimento rivoluzionario riesce a esprimere non deve condizionare le sue potenzialità di crescita alla “medietà” dei livelli di coscienza già acquisiti. Sono le rotture soggettive, è il ruolo sempre crescente della soggettività rivoluzionaria ad individuare e intraprendere un percorso che si fa carico di responsabilità ineludibili nel misurarsi con tutti i passaggi di questa fase.
La fase di ricostruzione non si sviluppa in vetro, al riparo dai colpi che si subiscono nel corso dello scontro, ma nel suo stesso procedere riesce già a far vivere le proprie finalità – nel senso di agire da partito combattente per costruire il partito combattente, nel porsi sempre come suo nucleo strategico – grazie alla consapevolezza che nella conduzione di un processo rivoluzionario di lunga durata le battute d’arresto, gli arretramenti e le sconfitte invece che distruggere la guerriglia la rafforzano e ne rilanciano l’impianto organico.
Per questo fare tesoro del ricchissimo patrimonio di esperienza politica, militare, logistica e organizzativa delle Brigate Rosse non significa ricorrere meccanicamente ad un arco di soluzioni già date, ma impegnarsi per ristabilire i termini complessivi che consentano nuove offensive tenendo ben presente che anche la fase di ricostruzione è un processo orientato dalle linee fondamentali che presiedono la strategia della lotta armata.
Un impianto organico che scaturisce dal portato teorico e dai risultati politici conseguiti in più di vent’anni di pratica combattente, verificato nel vivo dello scontro e sottoposto al vaglio critico della realtà dei rapporti di forza e che rappresenta il più alto contributo all’elaborazione della scienza comunista della rivoluzione proletaria in questo contesto storico.
– La rivoluzione nella metropoli nel quadro degli interessi del proletariato mondiale, il rapporto strategico con i processi rivoluzionari e di liberazione alla periferia del sistema, l’internazionalismo e l’antimperialismo come condizioni stesse dell’affermazione della rivoluzione e ambito generale in cui collocare i diversi percorsi rivoluzionari.
– In questa prospettiva il conseguimento dell’obiettivo della conquista del potere politico, della distruzione dello stato borghese e dell’instaurazione della dittatura proletaria per il superamento storico della società divisa in classi e per la costruzione della società comunista.
– La lotta armata come strategia generale del proletariato metropolitano, il carattere di lunga durata della guerra di classe per la conquista del potere politico. L’attacco al cuore dello stato come attacco che in ogni congiuntura individua e colpisce il progetto dominante della borghesia imperialista nella contraddizione che oppone la classe allo stato.
– L’unità del politico e del militare come matrice fondante dell’agire della guerriglia. La clandestinità e la compartimentazione come principi strategici che presiedono la sua impostazione offensiva e ne garantiscono la tenuta nell’andamento discontinuo dello scontro.
– Centralità, selezione, calibramento dell’attacco come criteri guida nella scelta dell’obiettivo dell’iniziativa rivoluzionaria della guerriglia e a partire dall’attacco centrale al cuore dello stato e ai progetti imperialisti, l’organizzazione e la disposizione delle forze rivoluzionarie proletarie sul terreno della lotta armata, la formazione della direzione rivoluzionaria come processo di formazione, nello scontro, del partito comunista combattente.
– Centralizzazione delle direttrici dell’attacco/decentralizzazione delle responsabilità a tutte le istanze organizzate per pesare con il massimo di incisività nello scontro e concentrare lo sforzo politico militare sugli obiettivi perseguiti.
Ogni vittoria e ogni sconfitta delle forze rivoluzionarie nel centro e nella periferia del mondo dominato dall’imperialismo sono nostre vittorie e nostre sconfitte, indipendentemente dalla distanza geografica, dalle particolari condizioni di classe, dalle differenti caratteristiche di origine e consolidamento dei vari percorsi rivoluzionari e di liberazione nelle peculiari contraddizioni economiche e sociali che li alimentano.
“La guerriglia è la forma dell’internazionalismo proletario nelle metropoli. È il soggetto della politica proletaria a livello internazionale” (risoluzione della direzione strategica 1979), quindi si pone fin dall’inizio come parte e funzione della guerra di classe internazionale e sviluppa la lotta per il potere negli stati del centro imperialista, dove una vittoria rivoluzionaria assumerebbe una portata decisiva per l’apertura di sbocchi rivoluzionari alla periferia e dunque per l’insieme del processo rivoluzionario mondiale. Questa concezione dell’internazionalismo che spazza via ogni logica “solidaristica” e supera definitivamente ogni visione dell’antimperialismo come una sorta di “politica estera” della “propria” rivoluzione è una conquista irreversibile acquisita dall’esperienza più che ventennale delle Brigate Rosse.
L’attacco alla struttura militare Usa, l’attacco alla Nato, si inserisce nel rilancio della politica di sviluppo del Fronte Combattente Antimperialista e articola nella pratica il significato che attribuiamo alla costruzione nel vivo del combattimento di concreti e propositivi punti di incontro dell’interesse strategico del proletariato metropolitano e dei popoli soggetti al dominio e all’aggressione imperialista.
È in questo senso che da tempo la nostra organizzazione ha riconosciuto l’individuazione di un’area geo-politica dove realizzare i passaggi politico-militari e organizzativi necessari al consolidamento della dimensione strategica del fronte e allo sviluppo della sua capacità di attacco. L’area Europea mediterraneo mediorientale che si polarizza sostanzialmente su due regioni, gli stati europei e il mondo arabo, separati anche se organicamente funzionali secondo la dinamica sviluppo/sottosviluppo, è da considerarsi un’area unitaria in quanto reciprocamente complementare nell’articolarsi del rapporto centro/periferia. È un’area estremamente variegata la cui interdipendenza è il risultato di un lungo processo storico che ha sedimentato sulle coordinate della sua continuità geografica una fitta rete di interconnessioni economiche, politiche, militari che evidenziano il legame fra le strutture del sistema imperialista e il carattere delle lotte di classe e dei percorsi rivoluzionari e antimperialisti che vi si dispiegano. È proprio per questo che è necessario e possibile concretizzare soggettivamente nella linea del fronte e nell’insieme di quest’area la convergenza che già esiste tendenzialmente tra i diversi processi rivoluzionari nei paesi dipendenti e nelle metropoli, realizzando così una saldatura di portata strategica per l’avanzata del processo rivoluzionario internazionale.
In quest’ambito assume un’importanza eccezionale la rivoluzione palestinese, al centro dello snodo che collega le potenze imperialiste ai paesi del mondo arabo-islamico. Un mondo che, pur frantumato dalle dinamiche reali dell’approfondimento dei rapporti fra le borghesie arabe e l’imperialismo dovuto all’incalzare della crisi e al mutamento degli equilibri internazionali dopo l’89, vive come forte punto di riferimento nella coscienza delle masse arabe sfruttate e rappresenta ancora un vettore di stimolo e di coagulo per le lotte nella regione. La contraddizione era la presenza dell’entità sionista e la rivendicazione di una nazione palestinese è centrale e determinante per la pacificazione imperialista, e in primo luogo americana, dell’intero medio oriente.
Ed è proprio la soluzione politica di questa contraddizione a stare al centro dei piani imperialisti per questa regione, piani che puntano a far accettare nel cuore stesso della nazione araba la presenza di Israele, di uno stato creato ex novo dall’imperialismo per farne una testa di ponte per i suoi interessi nell’area. Attraverso la realizzazione progressiva di rapporti bilaterali fra Israele e i paesi arabi confinanti, l’imperialismo e il sionismo perseguono l’obiettivo della disgregazione del fronte arabo, già minato dalle politiche filoimperialiste dei regimi arabi reazionari e la cui fragilità è apparsa in tutta la sua evidenza nello schieramento a fianco degli americani nella guerra di aggressione contro l’Irak. In questo modo il nemico vuole porre le basi per fare di Israele non più solo un gendarme dell’imperialismo, ma una potenza regionale pienamente riconosciuta e destinata ad esercitare tutto il peso economico derivante dal suo sviluppo tecnologico e dai suoi rapporti con l’occidente.
Per arrivare a questo gli imperialisti hanno ben chiaro che il loro nemico principale da abbattere è la rivoluzione palestinese, perché è essa, attraverso la lotta armata delle sue organizzazioni combattenti e la partecipazione delle masse all’Intifada, a tenere aperto un conflitto che si riflette all’interno di ogni paese arabo alimentando fra le masse il nazionalismo arabo con la sua carica antimperialista, un nazionalismo storicamente rivoluzionario per il contesto economico, sociale e strategico in cui è sorto e si è sviluppato.
Il cuore del progetto di pacificazione imperialista e di dominio della regione è sempre rappresentato da quegli accordi di Camp David che aprirono la prima breccia effettiva nel corpo della nazione araba con il coinvolgimento dell’Egitto, uno dei suoi paesi più rappresentativi non solo per il suo peso complessivo ma anche per ciò che aveva significato il panarabismo nell’epoca di Nasser per il riscatto dell’intera regione dalla subordinazione all’occidente.
La nostra organizzazione aveva già riconosciuto l’importanza strategica di Camp David e ne aveva colpito uno dei garanti esecutivi, il direttore generale della Forza Multinazionale di osservazione nel Sinai Leamon Hunt, a Roma il 15 febbraio 1984. Fu quello un passo concreto di una politica di fronte che solo più tardi avrebbe avuto una più compiuta definizione, ma che condusse già allora ad una unità antimperialista oggettiva di fatto, fra le BR per la costruzione del PCC e le organizzazioni combattenti della regione mediorientale che attaccavano in quella fase quello stesso progetto.
Oggi il progetto di Camp David informa ancora da parte israeliana le politiche tese a frantumare il fronte arabo e palestinese, perseguendo processi di pace bilaterali e separati con l’Olp e gli stati arabi confinanti. E anche il “piano di autonomia” già previsto dagli accordi del ’79 trova ora una concretizzazione nella formula del piano Gaza-Gerico, “Gaza and Jericho first” frutto dell’accordo raggiunto fra la direzione capitolazionista dell’Olp e il governo Rabin, sotto la tutela americana.
Questo accordo segna una tappa fondamentale nello sviluppo della strategia imperialista nella regione e il suo esito misurerà l’andamento dei rapporti di forza tra rivoluzione e imperialismo in tutta l’area, e non solo. Attraverso esso i settori di borghesia palestinese più legati al capitale internazionale puntano a creare un ambito in cui sviluppare una propria economia. Non necessariamente uno stato, quindi, essendo sufficiente per questo scopo un qualsiasi ambito territoriale riconosciuto giuridicamente che attragga capitali e ottenga condizioni di favore nel flusso commerciale con l’estero. In un tale quadro tutti i punti qualificanti del programma originario dell’Olp vengono accantonati e la lotta nazionale palestinese viene dirottata verso gli obiettivi di un pugno di capitalisti, proprietari terrieri e intellettuali filo occidentali legati all’imperialismo e sui quali la direzione dell’Olp punta per crearsi una base di consenso, una politica che significa però aprire una contraddizione in seno al popolo palestinese fino ad oggi unito nell’Intifada.
Questo progetto è attaccato da tutte le forze rivoluzionarie che esprimono gli interessi genuinamente popolari delle masse e le difficoltà in cui si dibatte sono sotto gli occhi di tutti. L’opposizione delle organizzazioni palestinesi che non hanno mai rinunciato alla lotta armata e sei anni di Intifada hanno determinato una situazione in cui la direzione capitolazionista dell’Olp è costretta a prendere decisioni in sintonia con le richieste israeliane e americane e sempre più in contrasto con gli interessi nazionali, smascherandosi così di fronte alle masse in Palestina e nella diaspora e creando essa stessa i presupposti per l’intensificarsi dell’opposizione delle classi sfruttate palestinesi, di tutti coloro che saranno inevitabilmente esclusi dai ristretti benefici economici apportati dal “piano di autonomia”.
Su un altro fronte, ma nell’ambito della stessa contraddizione creata dalla presenza dell’entità sionista in questa regione, il fronte di resistenza nazionale libanese, nel quale si sono integrate le forze palestinesi in Libano e le organizzazioni combattenti islamiche, prosegue l’offensiva contro le truppe israeliane e la milizia-fantoccio dell’ALS di Lahad e contribuisce a indebolire la coesione interna e la sicurezza dell’entità sionista, attraverso una pressione continua sulle forze di occupazione, ostacolando così la pacificazione imperialista della regione oltre che la ricostruzione in Libano di un regime filoimperialista sovvenzionato dai sauditi e dai capitali occidentali.
La lotta dei compagni palestinesi e libanesi è quindi assolutamente centrale nel rapporto di guerra tra rivoluzione e imperialismo nel cuore di un’area strategicamente vitale per la ridefinizione dei nuovi equilibri internazionali.
Allargando la prospettiva di riferimento generale, il dispiegarsi di diverse iniziative antimperialiste e rivoluzionarie nel mondo arabo e islamico, in Turchia e nella regione curda va visto come strategicamente convergente con lo sviluppo di processi rivoluzionari e di liberazione in molte altre regioni della periferia, in Africa, Asia e America Latina. A questo proposito l’avanzare della guerra popolare in Perù e nelle Filippine dimostra in modo estremamente significativo come la direzione comunista delle lotte di liberazione sia la migliore garanzia dell’approfondimento del loro carattere antimperialista e rivoluzionario.
È necessaria quindi la massima determinazione per favorire il più vasto schieramento combattente di forze rivoluzionarie contro il nemico comune. Le Brigate Rosse fanno vivere concretamente questa necessità nel contributo alla costruzione e allo sviluppo del fronte combattente antimperialista, il passaggio politico-militare più avanzato per collocare l’antimperialismo al livello di scontro adeguato ad attaccare e disarticolare le politiche centrali che indirizzano le strategie imperialiste nella nostra area geopolitica. La costruzione del FCA è un impegno programmatico che le BR assumono fino in fondo, nelle nuove condizioni e nella consapevolezza della dimensione strategica del Fronte maturata nel vivo della lotta.
GUERRA ALLA GUERRA!
GUERRA ALLA NATO!
COSTRUIRE E CONSOLIDARE IL FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA!
ATTACCARE E DISARTICOLARE LA FASE DI TRANSIZIONE ALLA SECONDA REPUBBLICA!
ORGANIZZARE I TERMINI POLITICO-MILITARI DELLA FASE DI RICOSTRUZIONE PER IL RILANCIO DELLA LOTTA ARMATA!
ONORE AI COMPAGNI CADUTI COMBATTENDO PER IL COMUNISMO!
Corte di Assise di Udine, 6 giugno 1994
I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione
del Partito Comunista Combattente
Francesco Aiosa, Ario Pizzarelli
Dichiarazione di Paolo Dorigo
Come militante comunista riconosco l’incisività dei contenuti politici di fondo e condivido l’attualità e la correttezza dell’analisi che ha condotto le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente ad attaccare la base di Aviano, uno dei principali centri operativi della struttura imperialista Usa e Nato nella nostra area geopolitica. Colpire la Nato attaccando Aviano è stato un passaggio quanto mai chiaro di cosa significhi costruire, in riferimento alla dimensione strategica del consolidamento del fronte combattente antimperialista, un concreto e vitale punto di convergenza degli interessi del proletariato metropolitano e dei popoli soggetti al bestiale dominio dell’imperialismo. L’azione di Aviano conferma la validità della linea strategica delle BR per il PCC anche in questa difficile e impegnativa fase di ricostruzione delle forze rivoluzionarie per il rilancio della lotta armata.
Mi riconosco completamente, quindi, nella gestione politica che le BR hanno dato a questo processo e di fronte a qualsiasi tribunale dello stato ribadisco che il mio comportamento si riferisce all’ambito degli interessi della guerriglia a cui rispondo, come militante comunista, della mia condotta politica e pratica.
Corte di Assise di Udine, 6 giugno 1994
Paolo Dorigo
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