Le teste d’uovo della controrivoluzione che hanno orchestrato il blitz del 12 febbraio lo hanno chiamato “Operazione Tramonto”. Nel loro sforzo di “intelligence” voleva essere il contrappunto al giornale “Aurora”, organo di propaganda per la Costruzione del Partito Comunista (politico-militare).
Per quanto si impegnino nello studio la loro ignoranza in cose di rivoluzione resta sempre grande. “Aurora” infatti era il nome della nave da guerra dello zar, di cui si erano appropriati i marinai rivoluzionari, che sparò il colpo di cannone contro il palazzo d’inverno il 7 novembre 1917; il segnale per l’insurrezione proletaria che diede impulso alla rivoluzione russa che portò, per la prima volta nella storia, la classe operaia al potere.
Questa è stata una nuova alba per l’umanità mentre i loro vari tramonti sono stati: lo schiavismo, l’oppressione coloniale, i regimi fascisti e nazisti, le guerre imperialiste mondiali. Tra questi l’esempio “migliore”, il punto più alto raggiunto dalla loro “cultura occidentale”, è sicuramente il buio nucleare che scese dopo il tramonto dei piccoli soli artificiali accesi su Hiroshima e Nagasaki dalla “democratica America”. Ma le nostre teste d’uovo e più ancora i loro padroni “post-comunisti”, diessini e rifondaroli, finalmente giunti a scaldare la sedia di qualche presidenza e di quale ministero, questa storia naturalmente la rimuovono presi come sono dal remunerativo compito di servire gli interessi del grande capitale finanziario e monopolistico. Da tempo hanno abbandonato la giovanile idea socialdemocratica di riformare il sistema dell’oppressione e dello sfruttamento e ora si dedicano con zelo puntellare la sempre più fragile legittimità del capitalismo nella sua fase imperialista. Hanno sposato ormai l’idea reazionaria dell’immutabilità della situazione, fermando la storia all’epoca dell’imperialismo, arrivando nella loro perversa ipocrisia a concepirlo e a propagandarlo come “imperialismo dei diritti umani” che conduce le “guerre umanitarie”.
Hanno però ben presente che questa mistificazione è debole e può reggere solo se nessuno dice, con la teoria e con la pratica, che “il re è nudo”, che la storia precede sulla base delle contraddizioni e della lotta tra le classi e finirà solo nella società senza classi.
Questa debolezza la avevano già ben presente i loro precursori socialdemocratici e guerrafondai Scheidemann e Noske che, dopo aver appoggiato “la grande guerra” il 14 gennaio del 1919 tracciarono la linea provvedendo ad assassinare Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Seguendo la stessa strada gli odierni professionisti della sottomissione di classe, integrati da tempo nella politica borghese, si sono ancora una volta scagliati contro la possibilità della via rivoluzionaria. Dall’alto delle loro cariche istituzionali governative, sindacali hanno plaudito all’operazione repressiva che essi stessi hanno patrocinato con l’obiettivo politico di ribadire l’impossibilità della trasformazione rivoluzionaria del sistema capitalistico attraverso la presa del potere da parte della classe operaia e l’instaurazione di una società socialista.
Questo bubbone opportunista, coltivato dai padroni e oggi ben rappresentato nel loro governo, ha perseguito l’obiettivo sparlando di provocatori infiltrati nella classe operaia, ma per quanto si sia impegnato non è riuscito a nascondere la realtà, il ruolo di delegati e avanguardie di lotta riconosciute dai loro compagni agli operai comunisti arrestati.
Nei fatti hanno così riportato in primo piano l’opzione rivoluzionaria e mostrato qual è la vera e unica opposizione al loro sistema. Questa è la loro debolezza. E la manifestazione concreta di ciò è l’onda di solidarietà che sul piano dell’autonomia di classe si è originata nei nostri confronti.
“La lotta contro l’imperialismo se non è indissolubilmente legata alla lotta contro l’opportunismo è una frase vuota e falsa”. (Lenin; L’Imperialismo).
Questi “post-comunisti” traditori ripetono come pappagalli il verbo dei loro padroni; sul dio mercato, sull’internazionalizzazione del capitale che darà pace e progresso ai popoli, con l’intento di nascondere l’esistenza della lotta feroce tra i gruppi monopolisti e il suo reale contenuto, cioè la spartizione del mondo.
La loro parte “radicale” mistifica considerando l’imperialismo solo come politiche aggressive e non come la natura stessa del capitale finanziario, dell’oligarchia dei monopoli e delle multinazionali che governa il mondo. Vendono la menzogna che sarebbero possibili altre politiche che, sempre sulla base del capitale finanziario un “altro mondo sarebbe possibile”. Altri più radicali ancora teorizzano l’ultra imperialismo, il superimperialismo onnipotente del capitale finanziario mondialmente coalizzato, l’impero unico che domina sulla moltitudine coltivando così la subalternità all’onnipotenza e nascondendo le contraddizioni che alimentano la tendenza alla guerra.
Ma la realtà delle cose è sempre più evidente, i fatti come sempre hanno la testa dura. Il mondo è dominato da oligarchie finanziarie e monopoliste che, attraverso reti di relazioni di dipendenza, dirigono tutte le istituzioni economiche e politiche delle società borghesi. Monopoli privati e statali intrecciati tra di loro che sono sorti dall’elevato stadio della concentrazione della produzione raggiunto dal capitalismo più avanzato. Sono nati dalla politica coloniale, hanno perseguito l’accaparramento delle principali fonti di materie prime, si sono espansi con la lotta per l’esportazione di capitali e la conquista delle sfere di influenza. Questo loro sviluppo ha già portato a due guerre mondiali e ora ne sta preparando una terza. Infatti lo sviluppo ineguale che contraddistingue il capitalismo li condanna a scontrarsi per nuove ripartizioni con conseguenza sempre più devastanti. Tutte le alleanze imperialiste nascono da una guerra e ne preparano un’altra.
Cronache della terza guerra mondiale
I gruppi monopolisti lottano di nuovo per spartirsi il mondo non per semplice malvagità, ma perché ne sono costretti; perché lo sviluppo capitalistico e la sua crisi li costringe a questo per continuare a ottenere profitti sempre maggiori. L’obiettivo diretto sono sempre le aree dominate del tricontinente (Asia, Africa, America Latina) da poter sfruttare con i vantaggi esclusivi del monopolio.
I dati attuali di questo scontro sono il contrasto tra le “vecchie” potenze e quelle “emergenti” e la prosecuzione della politica imperialista USA e Occidentale sulle due direttrici consolidatesi negli ultimi decenni: lo sfondamento ad est verso i territori ex sovietici e la ricolonizzazione verso il sud del mondo. Lungo queste due direttrici prende corpo la tendenza a la guerra. “La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, con mezzi militari” (Von Clausewitz).
La fase della nuova rispartizione si è aperta con il crollo dei regimi revisionisti che avevano preso piede nei paesi socialisti interrompendo il processo di costruzione del socialismo. Gli imperialisti USA hanno chiamato questa spartizione costruzione del “nuovo ordine mondiale”. Il contesto è quello della crisi generale di sovrapproduzione e della conseguente stagnazione delle economie delle vecchie potenze USA in testa.
Il nuovo ordine mondiale si articola in nuova area balcanica, nuovo medio oriente, nuova Asia centrale. Tutte aree in cui l’imperialismo USA e il suo sistema di alleanze impone per mezzo di guerre di aggressione, una vera e propria ricolonizzazione con occupazioni militari allestimento di basi strategiche, bombardamenti, stragi e massacri. Vengono principalmente messi sotto tiro quelli stati che tendono a sottrarsi alla condizione semicoloniale perseguendo linee di sviluppo “autocentrato”, libero da vincoli imposti dall’imperialismo dominante. E tra questi in particolare quelli che dispongono di ampie riserve di materie prime strategiche o che “godono” di una buona posizione strategica in funzione del controllo dei flussi o in relazione a contrasti interimperialisti sulle sfere di influenza.
Gli imperialisti USA, con il regime coloniale sionista loro alleato vogliono mettere le mani sull’intero medioriente (Iraq, Iran, Siria, Palestina, Libano) per rafforzare il loro controllo sul mercato mondiale del petrolio e usarlo come coltello puntato alla gola delle economie loro concorrenti strategiche che non sono autosufficienti (UE, Cina, India). Si insediano in Asia centrale (Afganistan, Georgia, Kirghisistan) per costruire una testa di ponte strategica contro Russia e Cina e per mettere le mani sulle enormi risorse petrolifere stimate nella regione. Dentro a questo sviluppo guerrafondaio l’episodio dell’11 settembre è in genere la lotta condotta da Al Qaeda rappresentano il tentativo di una parte della borghesia araba, in particolare Saudita e Egiziana di reagire rivendicando a proprio esclusivo vantaggio lo sfruttamento del proprio proletariato e delle risorse presenti sui propri territori sottraendoli al vincolo semicoloniale imposto dagli USA. Lo dice chiaro e tondo Khaled (prigioniero torturato nelle carceri segrete della CIA) quando definisce la loro lotta indipendentista e paragona Bin Laden a George Washington.
A fare maggiormente le spese della guerra come al solito sono le masse delle nazioni oppresse costrette anche nelle spirali degli odi feroci scatenati ad arte dalle nuove versioni della politica del “divide et impera”, del mettere masse contro masse, unica politica applicata dagli imperialisti per cercare di contenere gli indubbi successi della resistenza popolare armata contro l’occupazione militare. Si perché il resto più che politica è pura mistificazione, la frottola della “guerra umanitaria” condotta dalle “forze di pace” con il compito della “ricostruzione”. Ma la cruda realtà delle condizioni di vita dei popoli sottoposti a questo trattamento dopo diversi anni di “impegno” delle forze imperialiste, come in Afghanistan e in Iraq provvede a smascherare l’ipocrisia e la falsità.
Comunque la propaganda imperialista non demorde e utilizza con la massima spudoratezza tutto; dai “diritti umani”, alla “libertà di culto”, ai diritti delle donne. Una chicca è la dichiarazione del ministro degli esteri D’Alema sui Talebani che, oltre a lapidare le adultere, squartavano i comunisti. Quello che però non dice è che erano stati allevati dagli americani proprio per fare quello sporco lavoro, salvo poi, come i vari Bin Laden o Saddam Hussein, diventare nemici per la semplice ragione che non corrispondevano più a successivi piani predisposti per la nuova spartizione del mondo. Un ottimo esempio di produttività imperialista nel campo della propaganda; per legittimare la loro guerra di aggressione usano il pretesto delle aberrazioni reazionarie degli stessi regimi reazionari che avevano messo in piedi in precedenza.
Che le loro mire però siano più ampie dei singoli conflitti lo svelano episodi trattati fino ad ora sottotono, come lo schieramento di un nuovo sistema antimissile in Polonia, ridicolmente giustificato con la necessità di difendere l’Europa occidentale nientemeno che da missili nucleari iraniani. A parte l’idiozia geografica la dice lunga sulla reale natura di questa iniziativa la reazione russa, che in contrapposizione denuncia i vecchi trattati e minaccia di dotarsi di nuovi e più adeguati armamenti.
C’è poi tutta la ricerca e la sperimentazione di nuove armi da parte americana come: le cluster bomb, i raggi della morte, le bombe al fosforo, quelle a pressione, per finire con i satelliti killer e le “mini” bombe atomiche. Un armamentario di nuova generazione che va ben oltre le “necessità” derivate dall’occupazione militare e dall’oppressione di singoli popoli ribelli e che apre la porta alla prospettiva concreta di conflitti interimperialisti da condurre al di sotto della soglia deterrente dell’olocausto nucleare, della distruzione completa del pianeta. D’altronde anche durante la secondo guerra mondiale fu usato di tutto ma non fu mai usata l’arma chimica per il semplice fatto che avrebbe potuto essere usata in maniera devastante anche dall’avversario (fu usata solo segretamente nei campi di sterminio nazisti).
Le nuove armi vengono sperimentate sul campo dei conflitti già in corso come è accaduto sicuramente a Fallujia o in Libano allo stesso modo di come era successo nella guerra civile spagnola per quelle poi usate nella seconda guerra mondiale. È un processo inevitabile, non tanto per il carattere soggettivamente criminale che contraddistingue la borghesia imperialista ma perché oggettivamente nell’ambito del loro sistema la guerra è l’unico mezzo che gli imperialisti hanno per registrare nuovi rapporti di forza, contendersi e spartirsi le sfere di influenza (colonie e semicolonie) e scaricare su altri il costo della crisi di sovrapproduzione. Ma la storia ha già dimostrato che “o la rivoluzione impedisce la guerra o la guerra scatenerà la rivoluzione” (Mao Tze-Tung). E la resistenza armata dei popoli ne indica fin da ora la concreta possibilità.
Sul fronte interno i nostri professionisti della sottomissione oggi al governo hanno sudato e sbuffato per approvare gli attuali crediti di guerra, il finanziamento delle “missioni di pace”, per poter poi mendicare ai loro padroni USA le briciole del bottino della nuova spartizione. Ormai i democratici, i progressisti, i sinistri radicali, i pacifisti non scendono più solo ai compromessi ma fanno pienamente e direttamente la politica dei padroni, la politica del grande capitale. Dopo che si è persa da tempo qualsiasi illusione sul riformismo è stato rovesciato lo stesso concetto di riforma e quella che era l’utopia della trasformazione graduale in senso egualitario dà invece il nome ad un perverso meccanismo di revisione normativa che facilita l’affermazione degli interessi del capitale finanziario e monopolista. Riforma del mercato del lavoro vuol dire precarizzazione legalizzata e liberalizzazione dello sfruttamento, riforma delle pensioni vuol dire allungamento dell’età lavorativa e quindi aumento dello sfruttamento nell’arco della vita, riforma del TFR vuol dire trasferimento di risorse economiche dei lavoratori a banche, assicurazioni e finanziarie. Ma non solo, anche le altre “riforme” che vanno a colpire i cosiddetti interessi corporativi a vantaggio dei cosiddetti consumatori, come nel caso di tassisti, benzinai, e bottegai in genere altro non sono che restringimenti della fascia delle piccole attività a vantaggio della grande impresa di distribuzione o di servizi. Questo utilizzo della parola “riforma” è la più chiara manifestazione della putrefazione del riformismo. E con essa della fine della rappresentanza politiche istituzionale della classe operaia. D’altronde la base materiale del riformismo si era storicamente determinata con l’ampliamento della fascia concorrenziale, con la promozione di strati di proletariato al “ceto medie”, con l’innalzamento economico delle condizione della classe operaia ottenuto con la lotta sindacale. Tutte cose che oggi sono ampiamente contraddette dall’andamento della crisi generale del sistema e dalle misure ferocemente antiproletarie e antipopolari che la classe dirigente borghese prende per farvi fronte.
Con la morte del riformismo è stata seppellita anche l’illusione di democrazia; i famosi “spazi democratici”, eredità della vittoria della resistenza sul nazi-fascismo, cristallizzati dalla costituzione la cui riscrittura materiale oggi recita che la repubblica è fondata sullo sfruttamento selvaggio del lavoro precario, nero e immigrato e che la “guerra umanitaria” è ammessa come metodo valido per dirimere le “controversie internazionali”.
Che il vuoto formalismo della democrazia imperialista sia la “migliore” dittatura di classe per la borghesia, nella fase dell’imperialismo, i proletari lo hanno imparato da tempo e oggi lo trovano confermato in ogni decisione presa sulla loro pelle dagli apparati politico-burocratico- amministrativi ad esclusivo vantaggio del grande capitale e dei sui apparati militar-industriali come nel caso della “TAV” o di “Dal Molin” imposte “democraticamente” sulla testa delle popolazioni residenti o in quello delle “missione di pace” sulla testa di iracheni, afgani o libanesi contro la maggioranza degli italiani. D’altronde nel quadro atlantico fu addirittura imposto lo status di “sovranità limitata” del nostro paese, sottomesso ancora dopo più di sessanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale, a servitù militari da parte degli USA per non parlare dei “correttivi” della dinamica politico-istituzionale operati a botta di stragi contro il proletariato e le masse popolari, da Portella della Ginestra nel ‘47 a quella tra il ’69 e ‘87 centinaia di morti innocenti di cui sono direttamente responsabili gli apparati clandestini dello stato, diretti dai loro padroni USA, su cui con la complicità dei “sinceri democratici” e delle diverse specie di post-comunisti e sceso un “pietoso” velo di silenzio in onore dell’impunità imperialista.
Lor signori, i padroni non possono certo dare lezione di democrazia.
La via democratica per la trasformazione non è mai esistita nella fase imperialista. A fare ulteriore chiarezza aveva già provveduto anche il colpe in Cile da cui i Berlingueriani hanno tratto la “giusta” lezione che senza il consenso della frazione dominante della borghesia imperialista non si può andare “al potere” con la via parlamentare anche avendo la maggioranza elettorale. Da questo insegnamento molto “democratico” hanno tratto quindi la “coraggiosa” decisione di scendere a compromessi, il compromesso storico, chiudendo così la loro parabola opportunista di svenditori degli interessi di classe.
Noi, forti dell’esperienza storica del Movimento Comunista Internazionale abbiamo tratto altro. In primo luogo la storia della lotta tra le classi, questo non può essere negato o nascosto, in questa lotta o si sta da una parte o si sta dall’altra. E questo è ancor più chiaro oggi quando la crisi generale di sovrapproduzione spinge le formazioni sociali imperialiste alla guerra. Come conseguenza di questa lotta di classe la trasformazione della società non è mai stata un processo graduale. E sempre stato invece un processo caratterizzato delle rotture e dai salti. La classe che ha il potere non lo cede mai democraticamente ma sempre attraverso processi rivoluzionari che distruggono vecchi rapporti politici di dominazione e istaurano un nuovo potere.
Quello che oggi è all’ordine del giorno è il superamento del modo capitalistico di produrre e del suo sistema sociale e la costruzione di una società socialista attraverso la rivoluzione e la dittatura del proletariato. Questa tendenza risiede nelle contraddizioni oggettive sempre più acute dell’economia capitalista e nella coscienza soggettiva della classe operaia della necessità della sua soppressione e superamento attraverso la rivoluzione. Un processo che non è indolore, ma segnato da insurrezioni, guerre civili, guerre di liberazione, guerre popolari prolungate. Questa è la storia e questa è la realtà anche dei nostri giorni. L’emancipazione della classe operaia internazionale, delle masse popolari e delle nazioni oppresse passa necessariamente per la via obbligata della rivoluzione. Prima che un dato soggettivo è fondamentalmente un dato oggettivo. Sempre più la putrefazione dell’imperialismo ci porta al margine della storia: “o comunismo o barbarie” (Marx). Che gli imperialisti facciano il tifo per la barbarie è un dato ormai fin troppo chiaro; lo dicono anche espressamente quando ripetutamente minacciano di riportare all’età della pietra l’economia dei cosiddetti stati canaglia. D’altra parte le zone “bonificate” dai loro “coraggiosi” bombardamenti, lasciate senza luce elettrica e senza acqua potabile, dove il massacro è la regola, ne sono la migliore testimonianza. Come ne sono testimonianza le condizioni bestiale che vigono nelle zone industriali del tricontinente, veri e propri campi di concentramento dove l’unica libertà in vigore è la libertà assoluta di sfruttamento e dove imperversano le squadre della morte del capitale come nel caso di Ciudad Juarez al confine tra Messico e USA con centinaia di giovani operaie delle maquilladores (fabbriche manifatturiere) sequestrate e massacrate negli ultimi anni.
Per la parte nostra, per i comunisti, il compito di indicare e tracciare la via rivoluzionaria , la via della rivoluzione proletaria. In questo non partiamo da zero. Possiamo contare sul patrimonio rappresentato dall’esperienza concreta del Movimento Comunista Internazionale che ha le sue radici storiche nella comune di Parigi e nella rivoluzione d’ottobre e che nel nostro paese, dopo il biennio rosso e la resistenza riprende con la lotta per il potere delle esperienze rivoluzionarie dai primi anni ’70.
Un’esperienza ricca che ci insegna che la vittoria è possibile, lo è già stata storicamente, e che indica la strategia della guerra popolare prolungata come universalmente valida per le classi e i popoli oppressi nella fase imperialista.
Il compito oggi principalmente per noi è la costruzione del partito comunista. Il partito della classe operaia, la sua avanguardia politica organizzata per la lotta per il potere, a questo stadio dello sviluppo e della crisi del modo di produzione capitalistico e delle condizioni generali dello scontro di classe che ne consegue non può essere altro che un partito rivoluzionario caratterizzato dall’unità del politico-militare.
L’emancipazione sociale della classe operaia e la sua autonomia politica da tempo non sono più rappresentate all’interno delle istituzioni della cosiddetta democrazia borghese, non possono più esserlo e lo sanno bene anche tutti i vari post-comunisti, i vecchi e nuovi revisionisti che oggi si guardano bene da utilizzare gli stessi termini di classe operaia e proletariato. Quindi se la classe operaia vorrà avere un suo partito sarà un partito rivoluzionario e nessuna operazione di controrivoluzione preventiva lo potrà impedire.
Costruire il partito comunista della classe operaia! Utilizzare la difesa per organizzare l’attacco!
Costruire il fronte popolare contro la guerra imperialista!
Morte all’imperialismo libertà ai popoli!
Latino Claudio
Militante per la costruzione del partito comunista politico-militare
1 maggio 07