La crisi è diventata il terreno su cui la borghesia sviluppa la sua vera e propria guerra di classe: l’estorsione di crescente sfruttamento ne è l’asse portante, repressione e militarizzazione ne sono le armi.
Degli effetti sul piano economico-sociale abbiamo già trattato in nostri precedenti contributi, cui rimandiamo.
Qui affrontiamo la questione repressiva e carceraria, stimolati dal dibattito e da alcune iniziative in questo senso.
L’ulteriore restringimento dei margini di mediazione porta alla definizione di nuove politiche di contenimento dei conflitti e conseguenti strategie repressive. La riscrittura del “diritto del lavoro” sotto dettatura padronale registra (e approfondisce ulteriormente) i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Attacco che è ormai frontale alla classe operaia, proprio per la sua centralità nel sistema capitalistico di produzione. Neutralizzare, paralizzare la classe operaia, diventa essenziale per intensificare sempre più l’estrazione di profitti. Essa è sempre un pericolo potenziale, latente, nonostante la vigile custodia delle centrali sindacali; perciò, in questi anni, si è giunti a privare i lavoratori delle pur minime condizioni legali per l’autorappresentazione ed organizzazione.
Il passaggio dalla concertazione ad accordi che ingabbiano e inibiscono il conflitto sui luoghi di lavoro, rappresenta una svolta pesante. Così come già succede in alcuni campi di lotta sociale, le tensioni dovrebbero essere incanalate in ambiti istituzionali, e pacificate. Mentre conflitti e pratiche di carattere antagonista, o peggio sovversivo, vengono criminalizzate. Una strategia di repressione, sempre più preventiva, colpisce sia le espressioni avanzate di autonomia, dentro le lotte, sia le organizzazioni che si dispongono in modo conseguente sul terreno dello scontro. Attraversiamo una fase difficile. Le difficoltà del “fronte di classe” sono evidenti nella frammentazione delle forze organizzate e nell’inadeguatezza globale dei livelli politici e organizzativi. Così, le resistenze, talvolta coraggiose e determinate, si ritrovano in difficoltà di fronte ad attacchi repressivi pesanti, ma anche articolati e selettivi, che mirano alla intimidazione, disgregazione e abbandono della lotta.
Nuove leggi vengono varate in tempo reale all’azione repressiva in corso, come l’attuale istituzione del reato di “violazione di sito d’interesse strategico nazionale”.
È chiaro che, in tale situazione chi non arretra viene a confrontarsi con un livello di scontro difficile da sostenere senza un’adeguata strategia. La stessa continuità di una lotta è legata, è condizionata dalla sua capacità di reagire alla repressione. Così come “nessuno deve restare indietro”, e “tutti insieme si parte, tutti insieme si ritorna!”, allo stesso modo è fondamentale il sostegno a chi viene colpito, perché anche in ciò si misurano la capacità di tenuta e le ragioni della lotta. Chi non sa difendersi non potrà nemmeno attaccare!
Ma come si articola, oggi, la lotta contro la repressione? C’è il primo aspetto, appena citato, politico e umano al tempo stesso, per cui non vanno mai lasciati soli i compagni colpiti. C’è pure un aspetto economico, che può pesare sulla sopravvivenza della lotta e dei militanti stessi: le multe, le spese legali e processuali, il sostegno ai prigionieri, le casse di resistenza contro i licenziamenti per rappresaglia. Infine l’aspetto politico fondamentale: continuare a sviluppare la lotta con rinnovata determinazione. Cioè, solo rispondendo con nuovi salti di qualità, approfondendo lo scontro, quindi non solo sul piano della lotta specifica ma maturando, via via, condizioni e termini per disporsi sul piano di lotta strategica, solo in questo modo si può evitare di avvitarsi nella difesa antirepressiva.
Come conseguenza dell’accentuarsi della repressione, si è andato sviluppando il dibattito e l’iniziativa anche sul fronte carcerario. In particolare, la legislazione che reprime l’immigrazione clandestina e la detenzione di piccole quantità di droga, e con l’aggravarsi della crisi e delle sue devastazioni sociali, si sono riempite le carceri eppure le strutture di detenzione temporanea. Le proteste e rivolte nei CIE hanno creato una rete di sostegno solidale. Gli arresti contro i movimenti e il NO TAV soprattutto, hanno dato impulso alla lotta anticarceraria. Carcere che resta lo strumento di massima neutralizzazione e deterrenza nei confronti dei soggetti sociali in rottura con il sistema.
Lo sviluppo di questo dibattito e dell’iniziativa è spesso contraddittorio. Per esempio ci sono aspetti nel modo di presentare la lotta al 41bis che finiscono per distorcerne la reale dimensione, e con conseguenze sul tipo di mobilitazione da costruire.
Ci riferiamo in particolare al dibattito attorno alla manifestazione del 25 maggio a Parma, il volantone (8 pagine) di “Uniti contro la repressione e altri”.
Il 41bis viene presentato, nella successione delle varie legislazioni e svolte repressive degli ultimi decenni, in evidente continuità con il grande “disegno controrivoluzionario”. Per esempio in continuità con l’articolo 90.
Mentre, fatto salvo il ricordare sbrigativamente che esso fu avviato e applicato in grande scala contro le organizzazioni di stampo mafioso, si rimuove proprio questa che fino ad oggi, è la sua vera essenza. Cioè, bisogna pur dire e affrontare la stridente contraddizione per cui su quasi 700 detenuti sottoposti al 41bis solo 3 sono militanti rivoluzionari mentre la gran parte degli altri sono addirittura lo strato superiore dirigente di una realtà illegale che fa parte dell’ordine capitalistico e con forti propensioni reazionarie. E solo una parte minoritaria fra loro è “manovalanza” suscettibile eventualmente a un richiamo di classe.
Come la mettiamo? Come concepire un intervento sapendo che la maggioranza degli interessati sono refrattari alla logica di conflitto collettivo (e, all’esterno ne sono pure nemici)? Come gestire questa contraddizione rispetto alla base sociale che sollecitiamo contro carcere e repressione? Non ci sembra proprio un buon servizio quello di occultare questa realtà, dietro un’altra oggi molto marginale e cioè la funzione controrivoluzionaria.
Anche su questo vanno rilevate differenze ben precise.
La quarantina, circa, di militanti rivoluzionari oggi incarcerati sono quasi tutti in regime AS-2, decisamente meno pesante; mentre una parte minoritaria, e soprattutto i nuovi arrestati nei movimenti di lotta sociale e di piazza, finiscono nel circuito normale. In realtà peggiore, causa il sovraffollamento. Ma dovendo scontare carcerazioni mediamente brevi, salvo le aberranti eccezioni delle condanne per il G8 di Genova e dei grandi scontri di Roma 2010/11.
Quindi la risposta repressiva è ben differenziata e calibrata sul livello di organizzazione rivoluzionaria effettiva e di pericolosità degli attacchi e pratiche realizzate (o meno). Anche questo è spesso sottaciuto o distorto.
E l’odierna composizione della prigionia politica rivela, purtroppo, la pochezza del movimento rivoluzionario di classe; la gran parte dei prigionieri/e essendo ancora parte dell’ondata anni ’80. Ciò che dovrebbe dar da riflettere evitando per altro quelle posture movimentiste fatte di indistinti amalgama di fronte alla repressione e di dubbie “prospettive rivoluzionarie” (accomunando percorsi conseguenti a opportunismi persistenti).
Colpisce così il legame-continuità artificioso stabilito tra l’art. 90 e il 41bis e il modo di spiegare il primo.
Cioè si fa una amalgama fra il ciclo di lotte carcerarie degli anni ’70, le sue espressioni organizzate (fino ai NAP), e il ciclo di lotte rivoluzionarie. Certo vi fu forte contiguità e dialettica fra quelle realtà, ma esse restavano anche diverse e distinte. Tant’è che l’applicazione dell’art. 90 fu esplicitamente indirizzata contro le OCC (BR e PL in particolare) nel vivo della fase di più acuto scontro; fu un atto di guerra da parte dello Stato, e altrettanto lo furono le risposte delle organizzazioni.
La rivolta di Trani, nell’80, e già prima dell’art. 90, quella dell’Asinara nel ’78 furono vere e proprie azioni dei militanti prigionieri in rapporto alle offensive politico-militari esterne (con obiettivi di programma in rapporto allo scontro generale, oltre che carcerari). Infatti, allora, vi era un rifiuto secco di un certo stile antirepressivo vittimista e paralegalista. Si rifiutava persino la denuncia delle torture subite per non dover ricorrere alla magistratura.
Infine con il dilagare della dissociazione dall’82 e la pesante sconfitta conseguitane lo Stato sospese l’art. 90 nell’84. Ormai aveva raggiunto l’essenziale del risultato.
Fu un caso da manuale controrivoluzionario: una data strategia e mezzi repressivi (fra cui la tortura) vennero impiegati e successivamente sospesi, in base ai risultati politico militari. Questa fu la dinamica, non un generico “movimento”, dei compagni “compagne” tutto compreso.
Così questo errore di amalgama, confuso si ripresenta anche evocando altre situazioni internazionali, passate e presenti; e sempre calcando la misura nel descrivere livelli repressivi. Si equiparano così come RAF/Germania e movimenti di liberazione armati in USA, con Turchia e Kurdistan. Quando è proprio evidente un’enorme differenza, qualitativa e quantitativa. E, anche in questo rapporto, differenza dovuta alla presenza-continuità di Organiz./Partiti rivoluzionari, oppure alla loro assenza (dopo una breve stagione storica come in USA e Germania appunto). In Turchia e Kurdistan i prigionieri politici sono diverse migliaia, e da decenni, ma questo perché esiste una lotta rivoluzionaria armata, sia di classe che di liberazione nazionale; e se la repressione è terribile, a livello di questo scontro, non è che li stanno a torturare tutto il tempo in carcere (così si capisce nel descrittivo delle carceri speciali di “tipo F”).
Nello stesso descrittivo dell’art. 90 si esagera, innanzitutto l’aspetto d’isolamento (“il totale isolamento comunicativo fra prigionieri” non è mai esistito); così come gli si associano pure “i braccetti della morte” (che furono invece una situazione ridottissima, per 50/60 detenuti, molto particolari, fra cui solo un paio di rivoluzionari); né esistettero mai tribunali speciali. Già all’epoca si rivelò come negativa la tendenza a esagerare… l’effetto era autoterrorizzante!
Così come è ben diversa, la storia del periodo dell’art. 90 da quella apertasi con l’applicazione massiva del 41 bis.
C’è la storia sociale di questi decenni, di mezzo, che hanno visto purtroppo, con la grande rivincita capitalista mondiale, anche il dilagare della sua branca di borghesia nera (che si può comprendere bene anche come uno degli effetti dell’epoca di finanziarizzazione e putrefazione imperialistica). E questo, ovviamente, si è riflesso dentro le aree sociali che vivono di extralegalità, e dentro le carceri. Certo si può sempre sperare (e lavorare affinché) si aprano le contraddizioni fra la massa di manovali e le organizzazioni mafiose. Sappiamo bene che, ancora più con la crisi in molte regioni e aree sociali la filiazione diventa spesso l’unica soluzione economica. E per la conoscenza che abbiamo di questi ambienti in carcere, sappiamo che parte di loro potranno essere influenzati dal riemergere di un movimento rivoluzionario. Ma per il momento, ne siamo lontani: il loro tessuto economico sociale (per di più ribadito dalla separazione delle sezioni AS1 e 3) li tiene sottomessi agli interessi economici di appartenenza e non certo al campo politico proletario.
E anche questa problematica rinvia al problema di fondo e cioè al fatto che la lotta contro carcere e repressione non può che essere secondaria e subalterna alla ricostruzione delle forze rivoluzionarie. Senza le quali non c’è veramente possibilità di incidere su tali realtà, non c’è soluzione al problema. Problemi assai complessi di cui anche noi non riusciamo a vedere degli approcci immediati e articolati, fintanto che si arrivi alla suddetta soluzione di carattere strategico.
E con la consapevolezza che la lotta al carcere e alla repressione è contraddittoria rispetto all’approfondimento della lotta rivoluzionaria. Perché se questa avanza (pur nelle sue forme attuali più diffuse, quelle dell’area anarcoinsurrezionalista), la risposta dello Stato sarà sempre (ed è già) maggior repressione. Cosa si fa, allora? Ci si ferma? O peggio, si arretra? Per poter ottenere l’attenuazione di condanne e rigidità carcerarie? Non sono domande astruse, provocatorie… basti pensare alla tragica storia di pentitismo e dissociazione degli anni ’80.
Guardiamo bene proprio il caso NO-TAV – con tutta la valenza “antagonista” assunta, e di portata generale – le ultime misure sono drastiche: militarizzazione aggravata con conseguenti minacce penali, e fino a quella (per ora solo agitata) di imputazione terroristico-eversiva. Ci si trova appunto stretti in quel bivio: compiere un altro salto in avanti, politico-organizzativo, assumendone anche le conseguenze, o arretrare. Perciò apprezziamo molto la generale tenuta militante in sede processuale e, particolarmente, l’atto di revoca degli avvocati di alcuni/e compagni/e. Ciò che crea simpatiche consonanze con la nostra dimensione di prigionieri rivoluzionari e dei nostri processi politici. In questi atti e nei processi di rottura in generale, c’è la fondamentale affermazione della contrapposizione di interessi e logiche (di classe) che perciò nega e fa saltare la presunta neutralità e pretesa di “giustizia” dell’istituzione giudiziaria. Riporta il conflitto e il soggetto politico-sociale pienamente anche in quella sede permettendo, paradossalmente, una risonanza sociale nazionale. La risonanza che sempre i processi politici, combattuti apertamente hanno avuto nella storia. Tant’è che ciò viene a pesare eccome, nel rapporto di forza generale-proprio perché quella lotta, quel movimento acquisisce riconoscimento e schieramento favorevole ampio-talvolta limitando pure la carica repressiva.
In memoria di Jacques Verges, morto in questi giorni ricordiamo come il “suo” processo di rottura salvò dalla ghigliottina decine di militanti algerini.
Sicuramente argina la tendenza più ovvia e diffusa, al difensivismo innocentista e legalista, che è proprio il terreno su cui la repressione cerca di farci arretrare. È curioso rilevare che sia i compagni NO-TAV che hanno fatto la revoca avvocati, che noi, abbiamo dovuto raccogliere le stesse critiche, e motivate proprio da questo tipo di tendenza. Tendenza con cui noi avemmo a battagliare parecchio durante le nostre vicende processuali, E nonostante le nostre ripetute riaffermazioni di linea – fra cui il documento “La miglior solidarietà con i rivoluzionari prigionieri sta nel continuare la lotta rivoluzionaria”, fatto nel 2010 come CCPA – dovemmo constatare la pervicacia di queste attitudini che, purtroppo, costituiscono una vera e propria tendenza trasversale all’interno dei movimenti e degli stessi circoli anti-repressivi.
Questa tendenza, nella sopravvalutazione del ruolo difensivo, ha creduto persino di assicurare il legame e l’internità dei rivoluzionari prigionieri al movimento, non capendo che questa internità passa innanzitutto per la forza storicamente espressa dalla progettualità e dai percorsi politico-militari. È la sua esistenza stessa, di questa forza, seppur discontinua, a crearsi lo spazio politico rivoluzionario interno alla classe. È questo il vero spazio politico che esiste grazie a quella forza e di cui beneficiano i movimenti stessi.
Questa non comprensione significa rovesciare l’ordine degli elementi e, talvolta, finire in specialismi anti-repressivi che sono dei surrogati e deviazioni dalla vera attività rivoluzionaria.
Parallelamente vediamo crescere una mobilitazione “di movimento” contro l’epidemia repressiva. Molti vi si muovono con le migliori intenzioni, ma non si può non vedere la piega che tale mobilitazione rischia di prendere: la piattaforma per l’“Amnistia sociale”, promossa da vari settori anche para-istituzionali. Certo, la realtà di diciassettemila denunce accumulate in questi anni (e destinate a crescere) richiede attenzione. Ed è comprensibile, in parte che sul piano dei movimenti di massa questa realtà venga affrontata in modo più elastico; però vi è anche commistione con espressioni antagoniste (come certi scontri di piazza ed altri episodi di resistenza organizzata), da cui ci si può aspettare maggiore coerenza. Per esempio, si può rilevare l’atteggiamento molto degno tenuto dai compagni/e definitivamente incarcerati per le giornate del G8 di Genova. Tanto più apprezzabile poiché da parte di coloro che ne stanno subendo le conseguenze più pesanti; e di contro alla lagnosa passerella delle “vittime della democrazia sospesa”, organizzata dalla sinistra istituzionale “di movimento”.
La contraddizione più stridente sta proprio nel fatto che l’amnistia, per quello che è e per come viene presentata, è sempre un atto di pacificazione; un atto volto a “sanare” gli effetti penali-repressivi di una situazione di conflitto, sociale e politico, ma pretendendone anche la sua soluzione. O, più realisticamente, la sua composizione entro i recinti istituzionali. Ciò cui, appunto, tendono alcune forze promotrici, ma soprattutto la logica interna di quel tipo di rivendicazione.
Rivendicazione puntualmente ricorrente e diffusa fra i carcerati. E che riviene anche nei dibattiti che si stanno sviluppando fra alcuni loro gruppi che hanno condotto iniziative nei mesi scorsi (come riportato in particolare dai bollettini di OLGA). Gruppi che, ci sembra, esprimono consapevolezza sulle attuali condizioni e possibilità di iniziativa, vedendone questi limiti. Riflettendo sul modo di organizzare il conflitto reale, e reale aggregazione, superando quelle virtuali e occasionali basate su aspettative verso le istituzioni.
Certo la realtà è difficile, ma non si può far altro che affrontarla senza mistificarla con forzature interpretative e soluzioni artificiose. Cerchiamo di capire i passaggi e le pratiche con cui riavviare delle dinamiche che, seppur modeste vadano nel giusto senso: contare sulle proprie forze sviluppandole nel senso dell’autonomia di classe, di antagonismo autentico al sistema. Affrontare la repressione come parte della guerra di classe, oggi condotta soprattutto da loro dall’alto e che noi come “forza proletaria” dobbiamo imparare a sviluppare nella direzione rivoluzionaria.
Carcere di Siano
Alfredo Davanzo
Vincenzo Sisi