Come militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente affermiamo che solo l’organizzazione ha legittimità storica e politica di prendere la parola sul carattere odierno dello scontro di classe sia politico che rivoluzionario, in quanto le BR, di questo scontro sono parte attiva e direzione rivoluzionaria.
Affermiamo inoltre sulla base dell’esperienza acquisita in 18 anni di prassi rivoluzionaria e, soprattutto, degli insegnamenti di questi anni di ritirata strategica, la necessità e praticabilità del terreno della guerra di classe, nonché l’attualità della questione del potere. Che non si tratta di autoproclamazione sono i fatti a dimostrarlo proprio a partire dai controversi anni ’80, gli anni della sconfitta tattica e della controrivoluzione, gli anni che hanno segnato il profondo mutamento delle condizioni dello scontro di classe, ma, lontano dal significare l’esaurimento delle condizioni del processo rivoluzionario, ne hanno contraddistinto il suo approfondimento.
All’interno di questo contesto la capacità delle BR di resistere e vivere politicamente come forza rivoluzionaria non dipende da “intrinseche irriducibilità” dei militanti né, come le interessate veline della controguerriglia propagandano, da fenomeno residuale, anche perché tali ragioni sono ininfluenti ai fini della tenuta rivoluzionaria. La determinazione e la coerenza delle BR nel ricostruire i termini politici e militari del complesso andamento della guerra di classe risiedono, in primo luogo, nelle ragioni storiche e politiche che presiedono e definiscono la lotta armata come avanzamento ed adeguamento della politica rivoluzionaria alle forme di dominio della borghesia imperialista; in secondo luogo, nel radicamento della proposta strategica della lotta armata nel tessuto proletario e nella conoscenza delle peculiarità assunte nello specifico contesto italiano.
Sono quindi gli anni della controrivoluzione ad essere decisivi per il corso stesso del processo rivoluzionario poiché hanno “costretto” le BR a misurarsi con le leggi dello scontro, ad uscire dalla giovinezza politica che aveva caratterizzato l’approssimazione nell’applicazione pratica dei principi della guerra di classe e l’ideologismo nell’impostazione politica; insufficienze ed errori che si sono riflessi in una schematizzazione nella conduzione dello scontro e nella definizione delle fasi rivoluzionarie.
Se la Ritirata Strategica ha consentito di ripiegare da posizioni inadeguate, il processo di riadeguamento ha vissuto un andamento non lineare a causa dell’impatto con la controffensiva. Ciò ha messo a nudo i limiti detti sopra i quali, tra l’altro, hanno caratterizzato la “generazione” di militanti formatasi nella fase precedente: questi hanno subito la sconfitta incapaci di comprendere le contraddizioni principali e secondarie che la dinamica controrivoluzionaria produceva nello scontro; contraddizioni che hanno attraversato in maniera differente le BR, il movimento rivoluzionario, il movimento di classe, poiché differente è la funzione ed il peso che ciascuno ricopre nello scontro.
Le BR
L’attività della guerriglia esplicita nell’attacco allo stato il rapporto di guerra che vige nello scontro di classe. Questa dimensione (rapporto di guerra) è il fulcro da cui si dipartono le dinamiche che caratterizzano lo scontro rivoluzionario per un verso o per l’altro; ovvero si manifestano le leggi della guerra che, nel caso della guerra di classe diretta dalla guerriglia, assumono connotazioni politiche peculiari poiché sono obbligate a riferirsi al livello definito della mediazione politica classe/stato; ad esempio basta pensare alla funzione di rottura/lacerazione che l’esecuzione di via Fracchia e le torture hanno avuto sui rapporti di forza stabiliti dal piano rivoluzionario nel campo proletario. Strappi operati a livello d’avanguardia perché, non potendo essere massificati né prolungati oltre una certa soglia, devono agire in termini di selezione per poi dispiegare gli effetti politici sulla classe. All’interno di queste considerazioni la scelta della Ritirata Strategica ha assunto una valenza politica determinante poiché la Ritirata Strategica, legge dinamica della guerriglia, ha la funzione di consentire il ripiegamento, senza cadere nell’avventurismo e nel dissanguamento delle forze stante l’impossibilità, per la guerriglia, di misurarsi alla pari con il nemico di classe. Ma nell’impatto con la controffensiva è stata in parte persa di vista la funzione della Ritirata Strategica non riuscendo realmente a capire il livello di scontro che si era prodotto e quindi a collocare correttamente un rovescio tattico, riducendo la Ritirata Strategica ad atto difensivo. Una contraddizione che ha portato a subire l’iniziativa dello stato e al logoramento delle forze; una dinamica che ha prodotto la logica difensivistica incapace di misurarsi con ciò che è necessario al livello di scontro impantanandosi nel possibile, riferito alle condizioni materiali del momento. Dentro questa dinamica possono comprendersi le iniziali spinte liquidatorie incarnatesi poi nelle posizioni dell’“Unione”, vero e proprio difensivismo che ha preteso di sottrarsi al livello raggiunto dallo scontro.
Il movimento rivoluzionario
Il movimento rivoluzionario, per sua natura soggetto ad oscillare tra offensiva rivoluzionaria e controffensiva dello stato, nel contesto della controrivoluzione per gran parte ha assunto posizioni difensivistiche, che quando non sono scivolate nell’opportunismo e nel liquidazionismo si sono avvitate in posizioni immateriali di eterna “rifondazione della sinistra di classe” o in riproposizioni antistoriche di alleanze interne “progressiste”, come se l’esperienza storica del ’48 non avesse insegnato nulla.
È d’altra parte una costante storica che in periodi di controrivoluzione emergano in gran numero defezioni, riflussi e pornografia politica varia, né devono “impressionare” le proporzioni assunte dalla non tenuta di tanti militanti rivoluzionari, poiché ciò va relazionato alla adesione di massa alla lotta armata; tenendo conto anche della composizione variegata di questa adesione comprendente non solo forti componenti operaie di base, ma anche strati di piccola borghesia o di recente proletarizzazione, quindi con tutto il loro portato materiale ed ideologico.
Questa caratteristica di sviluppo di massa prodotta dalla corretta impostazione data dalle BR alla fase della propaganda armata non ha costituito in sé un limite, ovvero non è nel fiorire di nuclei che va ricercato l’errore, ma nello sbocco politico dato alla disposizione di massa sulla lotta armata mortificata nella questione dei programmi immediati e del comunismo dietro l’angolo. La giusta intuizione che lo scontro di classe rivoluzionario nei centri imperialisti non può che assumere carattere di guerra di classe di lunga durata veniva meno insieme alla necessità imposta dalle leggi dello scontro di assestare le forze in campo al livello necessario di disposizione/organizzazione richiesta dalla fase rivoluzionaria per rilanciarle all’adeguato sviluppo dello scontro che già si profilava nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione. Queste le ragioni di massima della “selezione” che l’approfondimento dello scontro ha determinato, senza nulla concedere a chi di questa non tenuta fa un alibi per il proprio opportunismo, mentre la borghesia ha ben capito il portato politico e strategico dello scontro rivoluzionario che si è affermato nella realtà del paese e su questo dato ha basato i termini della controrivoluzione.
Solo la comprensione, attraverso la verifica pratica, del carattere dello scontro rivoluzionario e della natura delle sue contraddizioni ha permesso alle BR di intraprendere il processo di riadeguamento complessivo misurandosi con i mutamenti avvenuti, mantenendo nel contempo la fermezza sulle discriminanti di fondo (unità del politico e del militare, clandestinità, ecc.) del proprio impianto strategico.
Se l’andamento discontinuo dello scontro è un dato generale, questo è reso maggiormente problematico nella realtà degli stati a capitalismo maturo stante i caratteri della “mediazione politica” esistente fra le classi, ovvero del modo con cui si governa il conflitto di classe, riassumibile nell’uso degli strumenti e degli organismi della “democrazia rappresentativa”, al cui interno è racchiusa l’essenza della controrivoluzione preventiva storicamente prodottasi nel rapporto di scontro fra le classi. Questo dato politico generale influenza fortemente lo sviluppo della guerra di classe e lo stesso modo con cui vive politicamente la guerriglia, e nello stesso tempo questo dato è a sua volta rideterminato dalla attività della guerriglia, in quanto la sua prassi interviene sui rapporti di forza generali. Ecco perché le tappe sostanziali dello scontro politico e sociale nel nostro paese, lo sviluppo stesso dei caratteri dell’autonomia di classe sono tali per l’attività della guerriglia, ed è per questa dinamica che la controrivoluzione degli anni ’80, oltre a scompaginare il tessuto di lotte proletarie, le sue istanze autonome, ha portato necessariamente con sé il corollario di restauro/ripristino delle precedenti condizioni favorevoli alla borghesia imperialista, generando il clima ed il terreno favorevole alle forzature nei rapporti politici fra le classi. Infatti parliamo di controrivoluzione non perché gli anni ’80 hanno conosciuto e conoscano un progressivo intaccamento delle “garanzie costituzionali”, ma soprattutto perché, attraverso atti e normative repressive generalizzate, lo stato ha imposto un clima politico ed ha modificato i caratteri stessi della mediazione politica, gli istituti e le forze preposte istituzionalmente a tale funzione; da qui il ridimensionamento (reale) e la crisi, senza soluzione di continuità, che attraversa le forze di opposizione istituzionali PCI e CGIL. Per questo, i patti neo-corporativi, l’accentramento di poteri nell’esecutivo e il più generale processo di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello stato, nascono dalle condizioni create dalla controrivoluzione e sono al tempo stesso elementi del suo assestamento.
In sintesi, affermare che in Italia si è sviluppata una controrivoluzione significa collocare correttamente il rapporto esistente tra processo rivoluzionario diretto dalla guerriglia e la controrivoluzione dello stato, ovvero la controrivoluzione degli anni ’80 come portato ed approfondimento del processo rivoluzionario nonché delle condizioni generali dei rapporti politici fra le classi (per le proporzioni, modi e tempi con cui si è attuata). La controrivoluzione degli anni ’80 va perciò distinta dal piano di controrivoluzione preventiva, poiché questo piano è una costante nel rapporto classe/stato in tutti gli stati a capitalismo maturo senza che necessariamente sia presente qualche processo rivoluzionario. Al tempo stesso però i riflessi sui rapporti di forza determinati dalla dinamica controrivoluzionaria, proprio per le conseguenze sui rapporti politici generali fra le classi, rideterminano il carattere della controrivoluzione preventiva avendone incorporato il costo di assestamento. Questa la condizione politica nel paese che modificherà e approfondirà maggiormente, in ultima istanza, il modo di governare il conflitto di classe, la sua mediazione politica. Per questo affermiamo che la natura del “progetto demitiano” è antiproletaria e antirivoluzionaria, non un’involuzione reazionaria, ma un processo teso ad allinearsi ai modelli europei di “democrazia matura”; questo il senso che va dato alla rifunzionalizzazione degli apparati statali borghesi, poiché funzionali allo sviluppo attuale dell’imperialismo, dei suoi livelli di concentrazione monopolistica e di sviluppo integrato fra gli stati della catena e nel contempo funzionali ai livelli dello scontro politico e sociale e alla maturazione del piano rivoluzionario; c’è unità, cioè, tra l’approfondirsi della crisi del modo di produzione capitalistico, in questa fase dell’imperialismo, e le risposte della borghesia imperialista sul piano interno ed internazionale.
È indubbiamente il progetto demitiano il perno su cui si sono coagulati i passaggi dell’attuale maggioranza di governo che sostanzialmente comporta la funzionalità di un esecutivo forte e stabile le cui scelte devono applicarsi in tempo reale alle necessità della frazione dominante di borghesia imperialista. Per questo le modifiche dei regolamenti parlamentari sono necessarie affinché “armonizzino” gli accordi di maggioranza all’approvazione delle due camere; in sintesi queste ultime tendono a ratificare le decisioni dell’esecutivo marginalizzando gli effetti del ruolo finora svolto dalle opposizioni istituzionali; queste dovranno conformarsi in una dialettica puramente formale che, in questa fase, è quella dei grandi accordi… “sulla costituente”: quindi un approccio costruttivo garante del rinnovamento delle istituzioni borghesi. Un quadro che prelude, attraverso il passaggio della legge elettorale, all’alternanza quale modello cui funzionalizzare l’opposizione istituzionale, svincolando l’esecutivo dalle spinte antagonistiche che si producono nel paese, nel massimo della democrazia formale al di fuori e contro il contesto di classe nel paese. Beninteso un “modello” di alternanza che non tende affatto al superamento della cosiddetta “anomalia della democrazia italiana” (preclusione al PCI), bensì prelude ad una serie di “staffette” al fine di consolidare il regime instaurato nel paese, con buona pace di Occhetto e del suo “riformismo forte”, il quale comunque ne sarà il garante democratico. Il dato politico che emerge nel campo proletario va relazionato a come è stato attraversato dalla controrivoluzione. Dopo un primo periodo di difesa delle condizioni politiche e materiali precedenti, approcciato con modi e strumenti inadeguati sul piano aperto dai patti neo-corporativi (democrazia consiliare), è maturata, pur dentro all’arretramento subito, una costante resistenza alle conseguenze delle condizioni politico/generali che si possono dividere su due livelli.
Da un lato l’ampia resistenza, anche con forme di lotta violente, alle ristrutturazioni, ai licenziamenti, lotte che proprio nella resistenza trovano il loro limite potendo essere inglobate dalla demagogia sindacale. Dall’altro lato emergono, dal quotidiano confronto nei luoghi di lavoro con i nuovi termini delle relazioni industriali, lotte che tendono a rompere le gabbie e i filtri di queste relazioni, per esprimere istanze di lotte autonome, le quali trovano la forza di sfondamento (alle gabbie delle relazioni industriali) solo dentro una forte e compatta organizzazione della lotta stessa. Stante il dato generale assumono, giocoforza, una connotazione politica, anche perché devono misurarsi immediatamente con l’intervento e le scelte dell’esecutivo nella contrattazione. Queste lotte, per quanto frammentate possano apparire, sono il nuovo che emerge e rappresentano la continuità con il filone dell’autonomia di classe storicamente determinatasi in Italia; ciò, d’altra parte, non significa la possibilità che si verifichino automaticamente, almeno nel medio periodo, grossi cicli di lotta, dato il peggioramento delle condizioni politiche e materiali per la classe, poiché anche le forme, i tempi e i modi dell’opposizione dell’autonomia di classe sono influenzati più in generale dal carattere e dal livello della mediazione politica tra classe e stato. E’ questo perciò il dato su cui l’avanguardia armata del proletariato interviene per ribaltare i rapporti di forza a favore della classe, “liberando“ così, anche se momentaneamente, energia proletaria, una forza politica che deve trovare il suo corrispettivo sul piano rivoluzionario nella costruzione di organizzazione di classe sul terreno della lotta armata, calibrata nelle forme e nei modi, alla fase di scontro e ai rapporti di forza generali.
La necessità di sterilizzare il tessuto di lotta operaio e proletario dalla dinamica riproducente autonomia di classe, è il terreno su cui è maturato il primo approccio alla revisione del diritto di sciopero e su cui si sta sviluppando la proposta di revisione della rappresentatività sindacale proprio per costruire barriere all’aggregazione operaia e nuovi filtri istituzionali alle istanze di lotta più mature. È la Fiat che apre ancora una volta il contenzioso con le elezioni “riformate” del consiglio di fabbrica e gli accordi separati, un fatto che rende palese l’approfondimento, nella funzione sindacale, della dinamica corporativa in relazione contraddittoria con il dover usufruire della reale forza della rappresentatività. È all’interno di questo contesto politico, e a partire da un’indagine nel vivo delle fabbriche e dei posti di lavoro, che si possono esaminare le ristrutturazioni produttive e non certo attraverso i dati apologetici forniti dalla borghesia e dagli specialisti sindacali che, nella migliore delle ipotesi, riflettono la crisi del sindacato la quale non ha certo origini strutturali. In termini generali si può affermare che la “nuova” realtà della fabbrica non è il regno della robotica e dei tecnici asettici che la gestiscono, anche perché ciò contraddirebbe la legge stessa del capitale e del suo necessario sviluppo ineguale. La realtà determinata dalle ristrutturazioni è prodotta dal complementarsi di due fattori: da un lato, una certa introduzione di nuove tecnologie, dall’altro lato la flessibilità e la produttività venutasi a determinare con la rottura della rigidità operaia e con la riforma sostanziale del mercato del lavoro. Due piani di cui l’ultimo è funzionalizzato al primo e che caratterizzano i termini della nuova organizzazione del lavoro. Quello che va ribadito è che la sostituzione del macchinario è stata ed è relativa alla sua convenienza sul costo del lavoro, ma sempre nella proporzione fisiologica di mantenere la parte di lavoro vivo necessario. La realtà è quella di un’organizzazione del lavoro in cui convivono segmenti vecchi e nuovi (catena, isole, reparti semiautomatizzati, ecc.) dove la condizione operaia è la piena dequalificazione delle mansioni, in cui tutti devono fare tutto, ovvero chiunque può essere spostato da una mansione all’altra, da un reparto all’altro (e con la mobilità interaziendale, anche di sede) nei tempi e nei modi stabiliti dalle esigenze di mercato. La sola costante è il massacrante aumento dei ritmi di lavoro, la presenza opprimente della gerarchia di fabbrica e sindacale, della sbirraglia addetta alla sorveglianza. Per quanto riguarda il turnover è principalmente dato dai contratti di formazione lavoro tristemente noti per la loro filosofia concorrenziale. Per le piccole e medie fabbriche la realtà è ancora più cruda, poiché da sempre vige la concorrenza allo stato puro, non a caso sono spesso terreno di sperimentazione della tenuta di “nuovi” tipi di contratto, dati i rapporti di forza esistenti. La filosofia della nuova organizzazione del lavoro non è relegata solo all’industria ma, poiché è il frutto delle relazioni industriali centralizzate, riguarda tutti i lavoratori, compresi quelli dei servizi. Su questa realtà si basa il secondo “miracolo economico” italiano, ovvero il boom dei profitti, dato il contesto recessivo dell’economia; un contesto in cui vengono smantellati interi comparti produttivi (es. siderurgico) i quali gonfiano le cifre dei disoccupati, la cui quota cronica è già ampiamente ritoccata rispetto alla parte fluttuante. Una realtà quindi di vecchie e nuove povertà che solo i parametri antropologici di De Rita possono definire “economia sommersa”. In sintesi, lo spaccato della realtà è quello di un paese niente affatto pacificato, di un aspro scontro politico e sociale che esprime una vasta resistenza operaia e proletaria ai costi della crisi e ai progetti borghesi di “modernizzazione” dello stato. Per queste ragioni la realizzazione delle svolte profonde che in questa fase aprono ad un periodo che non è errato definire di “seconda repubblica”, sono gravide di pressioni atte a lacerare gli equilibri nello scontro di classe: in questo senso si inserisce il crescendo di manovre provocatorie, direttamente elaborate nei covi del ministero degli Interni, allo scopo di agitare revanscismi stragisti contro il campo proletario. Che non si tratti di rigurgiti reazionari lo dimostra il fatto che, questa riaggiornata riedizione della strategia della tensione, è relazionata alla funzione svolta dalla guerriglia nel contesto dello scontro di classe e della sua evoluzione rivoluzionaria (in quest’ottica l’autobomba di Milano, la resuscitazione di bande fasciste e i diversi oscuri episodi che vi stanno intorno).
Prendere atto della realtà significa non cadere nello schematismo: peggioramento delle condizioni di vita uguale antagonismo contro lo stato; oppure ricondurre le dinamiche dello scontro al succedersi meccanico di flussi e riflussi come se lo sviluppo della società capitalistica fosse fermo al periodo di formazione monopolistica relativa allo stato-nazione; un filtro, questo, che non permetterebbe di leggere correttamente lo stato dei rapporti politici fra le classi, né le prospettive dello svolgimento del conflitto sia sul piano politico-generale, che rivoluzionario. In sintesi lo scontro politico tra le classi e soprattutto il piano rivoluzionario avanzano nella misura in cui si rompono gli steccati e i filtri stabiliti dalle relazioni classe/stato, la sua mediazione politica. Un dato che si riferisce sempre alla contraddizione dominante in antagonismo fra classe e stato e che può esistere e affermarsi dentro ad equilibri politici generali che si formano nel paese tra classe e stato, solo secondariamente questi equilibri si riferiscono all’ambito interborghese. Anzi possiamo dire che gli equilibri interborghesi si formano di riflesso e accanto agli equilibri di forza e politici fra classe e stato. Per queste ragioni l’iniziativa della guerriglia è tesa a rompere questo piano e a costruire le condizioni materiali per un equilibrio politico e di forza favorevole al campo proletario che può partire solo intervenendo (con l’attacco) al punto più alto dello scontro. Questo poi si ripercuote come effetto su tutto l’arco dei rapporti fra le classi fino al piano capitale/lavoro.
È necessario considerare il dato politico sviluppatosi e sedimentatosi storicamente nel rapporto fra le classi, il quale ha definito un patrimonio, un terreno, su cui si riproduce la sostanza ed il grado odierno dello scontro e del suo stretto legame con la proposta rivoluzionaria: un filo organico che nemmeno questi anni di controrivoluzione sono riusciti a spezzare e che lega le BR al tessuto proletario perché da questo tessuto sono originate, in questo si riproducono e di questo sono l’avanguardia armata. Un’avanguardia che ha potuto e saputo definire il terreno dell’alternativa proletaria alla crisi della borghesia imperialista nella praticabilità della proposta strategica della lotta armata alla classe.
La corretta impostazione del metodo del materialismo dialettico nell’analisi, insieme all’esperienza che fa acquisire la verifica pratica, ha permesso il superamento di un certo ideologismo analitico inadeguato a collocare la natura dei fatti storici e il loro piano di contraddittorietà.
La rimessa al centro dell’attacco allo stato ha significato anche analizzare concretamente la funzione degli stati in questo stadio di sviluppo dell’imperialismo, a partire dalla giusta definizione leninista che lo stato è l’organo della dittatura borghese e contemporaneamente manifestazione dell’antagonismo inconciliabile fra le classi; per questo la sua evoluzione è il riflesso, sul piano della sovrastruttura, delle diverse fasi dello sviluppo capitalistico.
È nel contesto della crisi degli anni ’30 che la funzione degli stati fa un salto di qualità, ciò avviene per la necessità di intervenire, con politiche economiche di sostegno, sugli effetti disastrosi della “grande depressione”. L’intervento dello stato fu generale e concorse a creare l’ambito favorevole alla formazione monopolistica a base nazionale. Ma è nel rapporto con il proletariato che lo stato intervenne in termini complessivi, sia regolamentando la compravendita della forza-lavoro che contenendo il conflitto di classe, ovvero sviluppando il termine controrivoluzionario. Questo livello di intervento fu nel suo complesso simile in tutto il mondo capitalistico, dall’America roosveltiana ai regimi nazisti dell’Europa. Il successivo salto di qualità avviene nel contesto della fine dell’ultimo conflitto, all’interno dei mutamenti che prefigureranno l’attuale fase dell’imperialismo, dal piano storico/politico a quello economico/sociale. L’insieme di questi mutamenti influiranno sulle forme di dominio della borghesia nel trapasso, non certo indolore, dallo stato autarchico (ad esempio, il fascismo) allo stato parlamentare moderno, riflesso sovrastrutturale del formarsi di frazioni di borghesia imperialista e del proletariato metropolitano. Il dato principale che qui interessa sottolineare è in che cosa le democrazie rappresentative uscite dal dopoguerra si caratterizzano. Dal punto di vista economico, si affina la loro funzione di supporto ai cicli economici, relativa sempre e solo alla sfera della circolazione, ma che ha, come nel caso delle politiche di bilancio, un’importanza fondamentale nel favorire l’andamento del ciclo, soprattutto per la possibilità di intervenire, data la conoscenza acquisita, in funzione controtendenziale sui prevedibili effetti negativi della crisi. Un dato che non elimina certo le cause della crisi ma che, stante il piano internazionalizzato ed integrato dell’economia capitalistica, sposta e approfondisce le contraddizioni. Contemporaneamente lo stato assume la funzione di capitalista reale che solo nel rapporto con il singolo capitalista è concorrenziale, ma nel complesso è funzionale all’andamento del ciclo economico. Ma è nel rapporto con la classe subalterna che la funzione politica degli stati viene esaltata. Esso non agisce più come semplice repressore del conflitto, bensì esplica questo rapporto attraverso l’uso ed il perfezionamento della democrazia rappresentativa, la sola a legittimare, per la borghesia, le istanze della classe. In altri termini, le espressioni di conflittualità e di antagonismo devono essere compatibilizzate e convogliate all’interno degli alvei istituzionalmente preposti: dal piano capitale/lavoro al piano politico/generale, sindacati, partiti, organismi politici vari sono delegati a rappresentare la classe nella piena funzionalità della democrazia rappresentativa allo scopo di istituzionalizzare il conflitto di classe. Un dato non schematizzabile nell’altalena mediazione/annientamento, ma che trova di volta in volta, e in relazione ai rapporti di forza e al peso politico della classe, il ruolo e la funzione adeguata a mantenere l’antagonismo all’interno di questo reticolo per non farlo collimare con il piano rivoluzionario. È sostanzialmente questa l’anima che ha assunto la controrivoluzione preventiva dopo le rotture operate dalla controrivoluzione imperialista nell’ultimo conflitto. In sintesi lo stato è la sede dei rapporti politici fra le classi, quindi per i comunisti il suo abbattimento è una questione imprescindibile. All’interno di questo principio le BR fanno dell’asse classe/stato il principale elemento programmatico su cui costruiscono i termini dell’organizzazione di classe sulla lotta armata. Non si tratta come nel passato di disarticolare, mettendoli sullo stesso piano, tutti i centri della macchina statale (periferici e centrali) anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello stato visto in una separatezza fra i suoi apparati (politici, burocratici, militari), a sua volta derivata da una visione semplificata e un po’ manualistica delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe ricondotte a due sole fasi principali: quella dell’accumulo di capitale rivoluzionario e il suo dispiegamento nella guerra civile. L’esperienza acquisita dalle BR ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie nell’andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente la funzione dello stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni l’attacco allo stato, al suo cuore congiunturale, va inteso nel giusto criterio, affermatosi nella pratica, come capacità di riferirsi alla centralità, selezione e calibramento dell’attacco. Centralità: si può affermare che, date le condizioni politiche dello scontro, il suo approfondimento, la capacità dell’attacco di disarticolare (inteso in termini relativi e non assoluti) risiede, in primo luogo, nella capacità, tutta politica, di individuare all’interno della contraddizione dominante che oppone le classi, il progetto politico centrale della borghesia imperialista. Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che nel progetto politico assume una funzione di equilibrio delle forze che tale progetto sostengono. Calibramento: sta nella capacità di calibrare l’attacco in relazione al grado di approfondimento dello scontro (ad esempio anche in caso di arretramenti il livello d’intervento non può ricominciare da capo), allo stato di aggregazione/assestamento delle forze proletarie e rivoluzionarie, allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese che nell’equilibrio internazionale tra imperialismo/antimperialismo. Questi i criteri centrali che guidano l’attacco e le scelte dell’obiettivo e che permettono alla guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo del vantaggio politico e materiale. In ultima analisi possiamo affermare che questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro, poiché solo la fase di guerra civile dispiegata consente di attaccare contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.
È sempre a partire dal dato strutturale che possono essere analizzati e collocati sul loro piano reale i mutamenti avvenuti e quelli che stanno avvenendo sul piano delle politiche della borghesia imperialista. Ciò significa partire dal dato della crisi del modo di produzione capitalistico, che analizzata con metodo materialista, presenta il duplice aspetto di essere sia momento di debolezza che momento necessario al capitale per il suo ulteriore sviluppo. In altri termini la crisi capitalistica ha in sé gli elementi potenziali per il suo superamento, superamento che non avviene mai in termini “pacifici”. Un movimento contraddittorio che mette in moto controtendenze, soprattutto se il carattere della crisi è generale, siano esse spontanee (ad esempio la riduzione della capacità produttiva) che invece determinate da politiche economiche. L’approfondirsi della crisi produce oggettivamente la tendenza alla guerra quale portato dell’accumularsi critico di tutte le contraddizioni capitalistiche e si esplica nella necessità di distruggere la sovrapproduzione di capitali e merci di lavoro, di ridefinizione dei mercati capitalistici e degli equilibri precedenti. Questo è il carattere generale della tendenza alla guerra. Un piano tendenziale che, come marxisti, possiamo analizzare nei suoi passaggi concreti e che si materializza, come dato soggettivo, solo quando le altre controtendenze esauriscono la loro efficacia, approfondendo e accumulando le contraddizioni capitalistiche. Al tempo stesso la crisi, acutizzando le contraddizioni fra le classi e tra sviluppo e sottosviluppo, fa emergere il necessario risvolto proletario ad essa, genera la sua possibile risoluzione nella rivoluzione proletaria e nel socialismo.
L’analisi della crisi all’interno dell’arco storico che va dalla fine della grande guerra alla situazione attuale, permette di affermare che l’andamento della crisi riproduce, in una similitudine di movimento, i suoi caratteri generali. Passaggi salienti che si ripresentano nella situazione odierna, velocizzati e più interconnessi fra loro e inseriti in un quadro storico-politico derivato dai mutamenti di sostanza sanciti dall’ultimo conflitto, quali il bipolarismo e l’internazionalizzazione, l’interdipendenza dell’economia capitalistica, la quale ha dato luogo al livello di integrazione politico-militare del blocco occidentale a dominanza USA.
L’affacciarsi della crisi generale (di valorizzazione) verso la fine degli anni ’60 ha avuto le sue risposte controtendenziali agli effetti della crisi (alta inflazione, stagnazione, ecc.) da un lato in un processo spontaneo di restrizione della base produttiva, dall’altro in quel complesso d’interventi di politica economica volti a ridare fiato alle spinte selettive della concorrenza, meglio conosciute come neo-liberismo, comprensive delle misure tese ad abbassare tutti i costi di produzione a partire dalla forza-lavoro. Accanto a questo movimento controtendenziale si è affermato, sul piano della produzione, un processo di introduzione di nuove tecnologie allargatosi a tutti i settori produttivi (la microelettronica e la computeristica nei mezzi di lavoro). Un dato questo relativo allo sviluppo dell’imperialismo e che ha ridisegnato i termini della concorrenza e del necessario movimento di concentrazione dei capitali: da qui i processi di fusione/accentramento dei grossi colossi monopolistici (transnazionali e con più settori produttivi, ecc.) intorno alle nuove tecnologie in cui è sempre presente la quota di capitale USA. Se gli interventi neo-liberisti hanno favorito l’ambito per la ricostituzione dei margini di profitto (portandoli però sull’orlo di un’inflazione da profitti), hanno anche contribuito, insieme al cambio tecnologico nella produzione, all’eccessivo restringimento della base produttiva fino a veri e propri processi di destrutturazione economica nei paesi più sviluppati economicamente (vedi USA e Gran Bretagna), sintomo dello stabilizzarsi della recessione e dell’indebolimento della struttura economica. In altri termini, laddove questo processo ha significato la chiusura di interi comparti produttivi o di produzioni ridotte al punto che è economicamente oneroso riattivarle, è una concausa al fatto che il plusvalore sociale prodotto è troppo ridotto per valorizzare l’intero capitale sociale. All’interno di ciò vanno letti gli attuali orientamenti di politica economica sia sul piano della concentrazione internazionale (accordi sui tassi d’interesse e sulla circolazione di merci), sia sul piano delle politiche nazionali (rilancio parziale della domanda di beni di consumo relativa alle produzioni di bassa e media tecnologia), in altre parole misure tese a controbilanciare gli effetti negativi del neo-liberismo. Un contesto che favorisce le tendenze protezionistiche in contrasto con la tendenza dominante della libera circolazione di capitali, elemento della futura configurazione dell’ulteriore sviluppo dell’internazionalizzazione della produzione e dei capitali. Ma il principale piano controtendenziale che si afferma nel contesto della recessione generalizzata, in presenza di mercati capitalistici saturi, è, ad un certo stadio della crisi, quello del ricorso allo speciale stimolo del riarmo. Storicamente questo intervento generale di politica economica si è presentato nel periodo fra le due guerre dettato dalla necessità di immobilizzare i capitali finanziari investendoli nelle tecnologie avanzate di quel periodo; ma il ricorso al riarmo come speciale stimolo dell’economia, proprio perché necessario e possibile in determinate circostanze economiche e storiche di crisi generale, per non tradursi nella bancarotta dello stato che vi ha fatto ricorso, si configura come lo stadio economico più vicino allo sbocco bellico. Sono gli USA, stante il maggiore sviluppo e velocità della dinamica capitalistica, che hanno imboccato la scelta del riarmo come volano dell’economia. E’ dalla presidenza Reagan che, con la politica degli alti tassi d’interesse, vengono inglobate grandi masse di capitali per finanziare la ricerca sulle tecnologie avanzate connesse al militare, una scelta di politica economica che ha condizionato l’economia statunitense e penalizzato settori tradizionali come l’agricoltura e le produzioni di media tecnologia.
Data la stretta interrelazione economica dei paesi della catena, ogni movimento economico di rilievo si ripercuote e condiziona le scelte nei paesi della catena, soprattutto se derivati dal polo economicamente dominante. Per questo le scelte degli USA tendono a configurarsi come il piano controtendenziale della catena imperialista. Il riarmo in Europa occidentale non è ancora una politica economica affermata a causa delle differenze di sviluppo, il diverso grado di profondità della crisi e di conseguenza per l’esistenza di margini diversi di manovra. Ciò nonostante le spinte al riarmo marciano in modo consistente e, stante il livello finanziario necessario, è un terreno che comporta un piano concertato fra i paesi europei i cui fondi e modi di applicazione sono centralizzati nella NATO. Un processo che favorisce ancor più l’internazionalizzazione dei capitali sulle tecnologie avanzate. Il riarmo avvenuto prima del secondo conflitto mondiale ebbe l’effetto temporaneo di rilanciare la produzione nei settori pesanti dell’industria e di riassorbire una parte di disoccupati in eccesso. In questa fase, stante la concomitanza dei livelli di interventi economici, tenendo conto che provocano un rigonfiamento artificioso dell’economia, e poiché il riarmo trova applicazione con tecnologie che riducono al minimo l’assorbimento di manodopera, la sua efficacia temporanea è relativa al solo immobilizzo delle ingenti quote di capitale finanziario eccedenti. Queste trovano impiego appunto nella ricerca sulle nuove tecnologie da applicare al campo militare. La ricerca dei computer di quinta generazione (calcolatori super veloci), dei laser, ecc., non è relativa solo ai satelliti e allo “scudo spaziale”, ma trova applicazione pratica e immediata nel riarmo convenzionale negli “scenari di guerra da attivare in tempo reale” (vedi strategia Rogers della NATO, cosiddetta di difesa anticipata). In questo senso lo smantellamento del vecchio arsenale missilistico post-guerra fredda ha poco a che vedere con le demagogiche propagande imperialiste sul disarmo, anzi questa scelta si inquadra in un’ulteriore pressione sull’Europa al fine di un maggiore sforzo finanziario verso il riarmo. Infatti lo smantellamento può essere attuato in presenza del massiccio e reale riarmo sul convenzionale e dei processi d’integrazione degli eserciti europei che, a diversi livelli, si stanno sviluppando sia in termini bilaterali che multilaterali; non si tratta certo di un terzaforzismo europeista, ma della responsabilizzazione dei partners atlantici alla “difesa” integrata della catena imperialista.
L’evoluzione della crisi economica, il suo acutizzarsi, è il fattore di fondo che in ultima analisi sottointende ed influenza le scelte politiche del blocco imperialista; non un rapporto meccanico, ma il maturarsi sui diversi piani delle contraddizioni e del loro obbligato interrelazionarsi: dal piano dominante est/ovest, al piano nord/sud, al piano principale proletariato/borghesia. L’insieme di questi fattori formano un quadro politico contraddittorio, ma, nella misura in cui tendono a polarizzarsi gli interessi e i campi contrapposti, si profilano le linee principali di questa fase politica internazionale. Una fase che comporta il maggior grado di compattamento e di responsabilizzazione dei vari paesi della catena imperialista, ovvero, il delinearsi della strategia imperialista non è l’affermarsi lineare degli interessi del polo dominante, ma il prodotto di successive forzature e del collimare del reciproco interesse generale della catena imperialista.
Il dato principale di questa fase è costituito dal ruolo centrale dell’Europa occidentale all’interno dello schieramento imperialista, un ruolo che esalta le “capacità politiche” del vecchio continente e che si basa sulla maturazione dei processi di coesione politica e militare dell’Europa occidentale quale perno su cui si definiscono le linee di tendenza delle politiche imperialiste. Un processo, quello della coesione politica, che va avanti non senza contraddizioni perché comporta l’adeguamento attivo agli interessi generali della catena e che esprime, da una parte, anche il grado di avanzamento della contraddizione est/ovest. In sintesi, stante il tipo e grado di contraddizioni che a diverso livello attraversano tutti i paesi della catena imperialista, ogni paese è tenuto, in relazione alla funzione e al peso che riveste, ad adeguare i suoi interventi all’interesse dominante.
L’avanzare dei processi di coesione politica e militare dell’Europa occidentale dà la misura della svolta di questa fase politica e del suo legame con il maturarsi della crisi economica. La scadenza della liberalizzazione del mercato europeo e il suo riflesso sul piano politico e normativo è solo l’apice di un processo teso a creare l’ambito idoneo per favorire la formazione di monopoli intereuropei. Un processo in cui le sedi comunitarie hanno assunto un peso politico rilevante nel ricondurre gli interessi specifici al piano di coesione generale, dall’inserimento dei paesi europei della fascia sud (sempre in funzione complementare e subordinata al peso dei paesi più forti), all’elaborazione dei più disparati piani “Marshall” comunitari per ammortizzare le contraddizioni del sottosviluppo dei paesi della fascia mediterranea e del Medio Oriente, paesi che costituiscono la sua naturale zona d’influenza e che oggi rivestono una importanza strategica. Il piano dominante della coesione politica europea è costituito dall’insieme degli interventi politico/diplomatici differenziati su più piani. La “diplomazia europea” ha un ruolo determinante nel rapporto tra i due blocchi, poiché l’Europa occidentale è fisicamente il suo confine “intoccabile”, la sua funzione perciò è tesa a “mediare” la contrapposizione fra i blocchi calibrandola e funzionalizzandola alle diverse esigenze esistenti tra gli USA e l’Europa occidentale. Un piano che riflette, in termini politici, sia le ineliminabili contraddizioni interimperialiste che l’attuale posizione di stallo negli equilibri generali tra i blocchi; non per questo può essere degno di rilievo lo spazio “economico” che il mercato sovietico offre ai capitali europei dato che rientra nel normale processo di penetrazione economica e non interferisce con le ragioni della tendenza alla guerra. Ma è l’area di crisi mediorientale-mediterranea l’ambito principale su cui verte l’attività politico/diplomatica dell’Europa occidentale. In questa fase essa ha la funzione di ricucire/sancire gli strappi militari praticati dagli USA nella fase precedente; che questi strappi avessero anche lo scopo di spingere gli alleati ad assumere posizioni compatte, lo dimostra la diversità di atteggiamento dei paesi europei tra il bombardamento della Libia e l’intervento nel Golfo Persico; un lasso di tempo in cui l’Europa occidentale, coadiuvando gli USA, ha operato le “pressioni“ necessarie tra i paesi arabi per un loro schieramento apertamente filo occidentale anche nell’intento di tenere sotto controllo il “fattore islamico” in quanto collante politico delle masse arabe. Ma la funzione più delicata svolta dai diversi piani della diplomazia europea è senza dubbio rivolta a “normalizzare” la situazione mediorientale, ovvero la questione posta dalla mai sopita resistenza del popolo palestinese e libanese. In sintesi, iniziative volte a supportare la sostanza del piano Schultz riferito (in sintesi) all’autonomia amministrativa dei “territori occupati”. Un piano che, nella sostanza, ribadisce la funzione di sentinella degli interessi occidentali nell’area, svolta da Israele, pur cercando di fargli assumere quel riconoscimento politico e diplomatico più funzionale al processo di “normalizzazione”. È certamente riduttivo, per quanto principale, ricondurre il ruolo d’Israele alla sola funzione di gendarme imperialista, dato che ha sviluppato un regime d’apartheid che gli consente di sfruttare anche economicamente i territori occupati, inoltre il suo ruolo fa d’Israele un esportatore più che di pompelmi, di metodi di controguerriglia (consiglieri militari in Sud Africa e in America Latina). Un complesso di interventi tesi, in ultima istanza, a rideterminare posizioni di vantaggio e di forza per l’imperialismo all’interno degli equilibri est/ovest.
L’Europa occidentale stringe anche, sul piano della “sicurezza” interna, vincoli politici per contrastare l’attività antimperialista del Fronte e delle altre forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo, riflesso soggettivo delle contraddizioni di classe che, seppure a diversi livelli, attraversano il cuore dell’Europa occidentale. L’attività della guerriglia, sia essa classista o “nazionalista”, caratterizza in sintesi i diversi livelli di scontro rivoluzionario esistenti nei paesi europei tra cui si possono individuare, per il grado di sviluppo delle contraddizioni tra le classi, i potenziali “anelli deboli” nei paesi europei della fascia sud. Ne sono un esempio le pressioni CEE sulla Grecia al fine di contenere/reprimere l’attività rivoluzionaria della “17 novembre” in cambio delle agevolazioni nel mercato comune. Oppure, su un altro piano, i diversi progetti di “soluzione politica” per la guerriglia che, seppure con sfumature diverse, sono stati adottati da Italia, Germania e Spagna. Insomma misure coordinate sul piano politico che influiscono sulla connotazione del rapporto imperialismo/antimperialismo, rivoluzione/controrivoluzione nell’Europa occidentale, di cui le forze rivoluzionarie e soprattutto il Fronte combattente antimperialista devono tenere adeguatamente conto, poiché segnano l’approfondimento delle condizioni in cui si svolge il processo rivoluzionario.
La definizione più precisa, in questa fase, della strategia imperialista riflette in ultima istanza la dinamica generale tesa a preparare le condizioni negli equilibri delle forze, sia politiche che militari, per impattare il blocco sovietico e ridefinire a favore dell’imperialismo gli accordi sanciti a Yalta. Le modifiche del quadro storico/politico avvenute nella seconda guerra mondiale non consentono il ripetersi delle condizioni per un conflitto interimperialista. Pur permanendo le contraddizioni prodotte dalla concorrenza intermonopolistica, queste non si riflettono sul piano politico in termini antagonistici all’interno del blocco imperialista. Il blocco sovietico è, per l’imperialismo, un ambito sufficientemente sviluppato dal punto di vista industriale e delle infrastrutture quindi recettivo e complementare al livello di sviluppo tecnologico e produttivo dell’imperialismo. Per l’imperialismo ridisegnare le aree di influenza significa anche recuperare il controllo sui paesi terzi che, attraverso processi di liberazione nazionale, si sono sottratti al suo dominio e che si caratterizzano, sul piano dell’evoluzione storica, come paesi di nuova democrazia, i quali all’interno dell’assetto del bipolarismo si collocano, oggettivamente, nello schieramento del blocco orientale. Per questo affermiamo che la contraddizione est/ovest è la contraddizione dominante nel mondo, che attraversa ed influenza i conflitti internazionali, compresi quelli che si producono nella direttrice nord/sud. Tale contraddizione si esprime in tutte le aree di crisi presenti nel mondo, come palesemente chiariscono le trattative sui “conflitti regionali” tra USA e URSS (dal centro America, al Sud Africa, all’area orientale, ecc.), ma si rende critica soprattutto nell’area geopolitica mediterranea, mediorientale, per vari ordini di motivi: sia perché è un’area strategica in quanto confine non definito dagli accordi di Yalta, sia per i transiti e le rotte che la attraversano, sia come area politicamente instabile percorsa da forti tensioni tendenti a “sganciarsi” dal dominio imperialista. È questa, cioè, l’area geografica destinata ad essere il possibile detonatore dello scontro bellico, perché è l’area in cui oltre ad esprimersi il piano dello scontro est/ovest si focalizzano le contraddizioni tra sviluppo e sottosviluppo con la loro forte connotazione antimperialista e rivoluzionaria. Nel contempo i paesi soggetti all’imperialismo costituiscono il retroterra logistico da cui partire per modificare gli equilibri generali nei confronti del blocco avverso; accanto a questo piano va inquadrata l’attività controrivoluzionaria dell’imperialismo, specificatamente USA, contro i movimenti di liberazione e la guerriglia del terzo mondo, nonché i tentativi d’aggressione palese e mascherata nei confronti delle nuove democrazie. Un piano di scontro che fa di questi conflitti la parte più consistente dell’antimperialismo.
Un quadro storico dunque che comporta l’assunzione, sul terreno rivoluzionario, dell’antimperialismo come dovere prioritario di ogni forza rivoluzionaria conseguente, a maggior ragione per le guerriglie dell’Europa occidentale poiché operano all’interno del cuore dell’imperialismo, sapendone però collocare il piano e la portata rispetto all’antimperialismo praticato dalle forze rivoluzionarie nella periferia. Per la guerriglia del centro imperialista si tratta di attualizzare l’internazionalismo proletario in una strategia politica adeguata alle condizioni dello scontro nella metropoli imperialista. Deve essere però chiaro che ciò non può e non deve significare la semplificazione del quadro di scontro nel solo piano internazionale sottomettendo il piano classe/stato al piano antimperialismo/imperialismo. In altri termini l’internazionalizzazione nella formazione monopolistica, lo sviluppo integrato fra gli stati e l’interdipendenza economica che ne deriva, muovono verso un processo tendenziale di formazione omogenea sia dei caratteri della frazione dominante di borghesia imperialista che del proletariato metropolitano; un processo appunto tendenziale che non dissolve la funzione degli stati, anzi, li esalta all’interno degli organismi sovranazionali, né fa dell’Europa occidentale un territorio politicamente omogeneo. Perché lo specifico percorso rivoluzionario necessariamente si sviluppa all’interno di ogni singolo stato ed è caratterizzato dalle peculiarità storiche e politiche del contesto nazionale della lotta di classe. Non tenere conto di ciò equivarrebbe ad appiattire due livelli differenti che, sebbene reciprocamente influenzantisi, devono essere collocati sul loro distinto piano.
L’antimperialismo per le BR vive in unità programmatica con l’attacco al cuore dello stato costituendo entrambi i perni su cui si ricostruiscono i termini della guerra di classe di lunga durata. L’antimperialismo per le BR si materializza nel contributo alla costruzione/consolidamento del Fronte combattente antimperialista, quale termine adeguato ad impattare le politiche centrali dell’imperialismo. Si è reso, cioè, evidente che, stante l’attuale grado di integrazione della catena imperialista e i conseguenti livelli di coesione politico/militare, è necessario indebolire e ridimensionare l’imperialismo in quest’area geopolitica per realizzare il processo rivoluzionario, sia che si tratti di rivoluzione socialista, sia che si tratti di liberazione nazionale. In questo senso, cioè, il consolidamento della politica di Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria. Per le BR la tematica dell’antimperialismo deve imperniarsi intorno allo sviluppo di politiche d’alleanza con tutte le forze rivoluzionarie che combattono l’imperialismo in quest’area geopolitica (europea, mediorientale, mediterranea) al fine di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell’imperialismo. Più precisamente, si tratta di lavorare a concretizzare, in successivi momenti di unità, l’attacco all’imperialismo all’interno del criterio politico che l’attività di Fronte non deve essere impedita dalle peculiarità d’analisi e di concezione politica delle diverse forze rivoluzionarie che vi lavorano, né tanto meno, discriminare l’attività del Fronte come unica attività rivoluzionaria, ma essa deve stringere l’unità realizzabile nell’attacco pratico. Per questo affermiamo, insieme alla RAF, che non si tratta di fondere ciascuna organizzazione in una unica organizzazione, ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l’imperialismo. Il contributo della RAF e delle BR al Fronte dimostra come le differenze storiche e di percorso non possono e non devono costituire un ostacolo al praticare una effettiva politica di alleanza, un contributo questo che costituisce al tempo stesso un salto in avanti nella costruzione del Fronte, perché si inserisce nella necessità di superare il primo periodo sostanzialmente di propaganda della necessità del Fronte stesso, misurandosi, invece, con la definizione più precisa della sua proposta politica, uscendo così dalle secche del genericismo.
L’approdo al testo comune RAF-BR e soprattutto l’attività che lo sostanzia sancisce questo salto di qualità e determina il primo passaggio dell’offensiva comune contro le politiche di coesione dell’Europa occidentale all’interno dell’interesse generale della catena imperialista, concretizzatosi con l’attacco ad Hans Tietmeyer, sottosegretario alle Finanze e uomo chiave delle decisioni politiche e degli indirizzi economici concertati; un’offensiva destinata a toccare i punti chiave delle politiche di coesione che si esprimono sul piano economico/politico/diplomatico controrivoluzionario.
La chiarezza degli obiettivi, il realismo politico nell’impostazione della politica di Fronte ne determinano la valenza che va oltre l’unità immediata raggiunta, perché apre la prospettiva politica dello sviluppo del Fronte sull’attacco all’imperialismo, non solo tra le forze rivoluzionarie europee, ma con tutte le forze rivoluzionarie che combattono nell’area, avviando concretamente l’unità che già esiste oggettivamente tra le lotte nel centro imperialista e i movimenti di liberazione nella periferia.
La Ritirata Strategica ha consentito alle BR di approfondire alcuni termini dell’andamento della guerra di classe. In primo luogo ha verificato le implicazioni che vivono operando nell’unità del politico e del militare. Questo principio, caratterizzante la guerriglia, consiste principalmente nel fatto che la conduzione dello scontro rivoluzionario avviene globalmente, senza separazione cioè tra i diversi piani, stante l’impossibilità di accumulare forza politica da riversare in un secondo tempo sul piano militare, data l’impossibilità di mantenere zone liberate. La guerriglia quindi attacca militarmente lo stato nei suoi aspetti politici centrali, il vantaggio momentaneo che ne consegue, per non essere disperso, deve tradursi in organizzazione di classe sul terreno della lotta armata adeguatamente calibrata alla fase di scontro. Questo chiarisce, ancora una volta, la validità dell’impostazione che, al loro esordio, le BR hanno dato alla questione della lotta armata, ovvero di una strategia che dall’inizio alla fine caratterizza il processo rivoluzionario come proposta a tutta la classe. In altri termini, la strategia della lotta armata è il solo modo in cui si rende praticabile il processo rivoluzionario e si materializza lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata contro lo stato. In questo processo l’avanguardia armata dirige e organizza tutte le avanguardie, i settori, gli spezzoni di autonomia di classe che si dialettizzano e si dispongono nella lotta armata. In questo percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe, della sua più precisa definizione e progettualità, le BR si costruiscono come Partito. Questo concetto chiarisce il portato dell’unità del politico e del militare nel processo rivoluzionario e secondariamente anche cosa intendono le BR per “linea di massa“, questa altro non è che il termine di costruzione/organizzazione degli spezzoni più maturi dell’autonomia di classe sul terreno della lotta armata, ovvero il lavoro di massa è parte integrante della linea politica nonché intrinsecamente aderente al suo asse strategico e persegue sempre e solamente la costruzione degli organismi armati e clandestini della classe, nelle forme e nei modi calibrati alle diverse fasi rivoluzionarie, nonché ai caratteri dello scontro, per essere idonei a sostenere lo scontro prolungato contro lo stato. Per queste ragioni possiamo dire che l’unità del politico e del militare agisce come una matrice su tutto l’arco del processo rivoluzionario a partire dai termini di costruzione/fabbricazione del Partito, ovvero, del funzionamento stesso dell’Organizzazione che, pur essendo il nucleo fondante il Partito, è una forza rivoluzionaria che esplica il suo agire come un “esercito rivoluzionario”. La pratica ha dimostrato che la guerriglia deve necessariamente funzionare con il modulo politico/organizzativo definitosi storicamente come il più adeguato, ovvero la strutturazione delle forze rivoluzionarie deve rispondere ad un criterio che permetta la praticabilità del “modulo guerrigliero” all’interno dei principi strategici di clandestinità e compartimentazione, in quanto principi che permettono di esplicare il carattere offensivo della guerriglia e limitare le perdite (comunque e sempre alte nella guerriglia). Le BR hanno verificato la validità del proprio modulo politico/organizzativo e di come, venendone meno, si rifletta in negativo sulla capacità di condurre le forze al livello politico necessario. Il modulo politico/organizzativo delle BR risponde alla necessità di strutturare i diversi livelli in istanze inferiori e istanze superiori (vedi D.S. n.°2) regolate dal centralismo democratico. L’unità di base costituita dalla cellula è la struttura fondamentale dell’organizzazione: al suo interno si riproduce sia il funzionamento del modulo che il patrimonio politico dell’organizzazione; questo permette la riproduzione complessiva. La strutturazione delle forze, in ultima istanza, permette di far vivere la capacità dei singoli nel collettivo. I criteri generali, qui descritti, che permettono il funzionamento del modulo politico/organizzativo sono validi sempre, cambia invece la disposizione delle strutture e più in generale delle forze in campo, poiché quest’ultima riflette i mutamenti di linea politica che subentrano con il mutare delle fasi di scontro. All’interno del principio dell’unità del politico e del militare, la Ritirata Strategica non è risolvibile semplicemente nella ricollocazione di un corpo di tesi, ma investe non solo l’adeguamento dell’impianto organizzativo, ma soprattutto il modo con cui si costruiscono i termini politico/militari della guerra di classe; quindi la Ritirata Strategica assume un carattere di fase generale influendo sulla disposizione tattica delle forze in campo. La disposizione tattica, pur assumendo all’interno delle peculiarità politiche dello scontro, carattere dinamico, è condizionata sia dal piano strategico di disposizione generale delle forze nella lotta armata, sia dalle finalità della fase rivoluzionaria di scontro.
Si tratta di analizzare i fattori che definiscono l’attuale fase di ricostruzione tenendo conto che essa prende forma e consistenza all’interno della Ritirata Strategica. Per modi, sostanza e tempi politici a cui deve essere finalizzata l’attività rivoluzionaria complessiva, si può e si deve parlare della ricostruzione come fase rivoluzionaria e non come semplice momento congiunturale. Questa, sebbene sia influenzata dal senso generale che ha la Ritirata Strategica, costituisce al tempo stesso la base, le fondamenta, su cui investire la condizione attuale dei rapporti di forza. Ovvero la fase di ricostruzione, che già vive nell’attività rivoluzionaria, muove per creare le condizioni politiche e materiali atte a modificare e spostare in avanti il piano rivoluzionario, e di conseguenza le posizioni del campo proletario. In sintesi una fase rivoluzionaria che condiziona fortemente l’atteggiamento tattico relativo a come organizzare/disporre le forze in campo, stante la fase di scontro politico fra le classi a fronte del contesto prodotto dalla controrivoluzione e dall’approfondimento del piano rivoluzionario che ne deriva. Sono tre i fattori a cui vanno riferiti i caratteri della ricostruzione:
- a) contesto della controrivoluzione, suo riflesso nella mediazione politica;
- b) evoluzione dello stato, necessità e progetti borghesi;
- c) stato del campo proletario, condizioni politiche e materiali del movimento di classe e rivoluzionario.
- a) Il riflesso degli effetti della controrivoluzione sul carattere della mediazione politica fra le classi all’interno del contesto politico/generale che la genera, mette in risalto come questo rapporto politico sia connotato da un maggior intervento diretto dell’esecutivo nelle principali questioni che riguardano il governo del conflitto di classe, a partire dalle vertenze “calde” (accordi pilota) gli interventi costituzionali (diritto di sciopero e libertà sindacali). Un dato che chiarifica la natura politica dello scontro di classe e il suo grado di approfondimento. Evidenzia, inoltre, come in questo quadro siano mutate le funzioni delle opposizioni istituzionali, siano esse politiche che sindacali, nella relazione esistente tra neocorporativismo e accentramento dei poteri nell’esecutivo, un fatto che, seppure contraddittoriamente, le porta a ruotare, nella sostanza, intorno alle scelte dell’esecutivo; a farsi carico di spinte localiste e demagogiche come nell’uso spregiudicato dei referendum sia nella contrattazione, col fine di contenere le istanze di lotta, sia sul piano politico/generale in senso filogovernativo. In sintesi, il carattere della mediazione, il modo con cui si esprime il rapporto politico è dunque riferimento obbligato nel definire il tipo di intervento rivoluzionario adeguato a inciderlo e che giocoforza va riferito alla contraddizione dominante che matura nel rapporto politico generale fra le classi.
- b) Le peculiarità dello stato in Italia, date sia da come si è formato storicamente (la Resistenza) che dall’esistenza del terreno rivoluzionario, hanno condizionato, per molti versi, la stessa formazione delle forze politiche che rappresentano l’interesse della frazione dominante di borghesia imperialista; ma l’elemento di sostanza della sua evoluzione sta proprio nei processi attuali di riformulazione dei poteri, perché evidenzia una rinnovata capacità, da parte delle forze politiche, di ridefinire un progetto complessivo, non solo riferito alle esigenze della borghesia imperialista nostrana, ma, e conseguentemente, all’altezza delle posizioni che l’Italia ha e deve assumere nel contesto imperialista soprattutto nello specifico europeo. Una capacità a tutt’oggi riconquistata dalla Democrazia Cristiana che si qualifica come forza politica complessa e matura, anello maggiormente in grado di imprimere le svolte necessarie agli interessi della borghesia imperialista. Questo sintetico quadro fa comprendere che l’attacco allo stato, l’incisività necessaria a disarticolarne i progetti, non può eludere dall’evoluzione generale dello sviluppo del Paese nel contesto della catena, di conseguenza dal tipo di progetti politici che vengono definiti e di come questi si collocano, di volta in volta, in termini dominanti in relazione ai rapporti di forza e agli equilibri politici fra le classi. Ciò comporta la ferma assunzione, nel definire l’attacco, dei criteri di centralità e selezione, la cui valenza vi è esaltata proprio dal quadro di scontro, e che danno all’attacco la necessaria portata per incidere al punto più alto di esso.
- c) Lo stato del campo proletario riflette il modo con cui si materializza la controrivoluzione, avendo essa attraversato orizzontalmente l’intero corpo di classe a partire dalle espressioni più avanzate dell’autonomia di classe che si sono dialettizzate con la guerriglia. Una dinamica che ha scompaginato il tessuto di lotte proletarie, ridimensionato, in ultima istanza, il peso politico della classe, un dato che paradossalmente ha influito sul ridimensionamento delle sue rappresentanze istituzionali. Quello che va tenuto presente è il quadro determinato dalla dialettica rivoluzione/controrivoluzione nel nostro paese; un processo che si ripercuote nel modo con cui lo stato si relaziona al campo proletario; in altri termini, lo stato ha ben presente che se non può eliminare la componente rivoluzionaria, deve obbligatoriamente contrastarne gli effetti e la valenza della sua proposta politica: in questo senso ha definito un apparato antiguerriglia con un raggio d’intervento politico complessivo, ovvero finalizzato a tenere sotto pressione le componenti proletarie e rivoluzionarie che esprimono antagonismo contro lo stato, un aspetto, questo, che si compenetra con la mediazione politica facendo di quest’ultima un reticolo di atti politici e materiali che contrastano l’ambito stesso di formazione delle avanguardie nel tentativo di impedire all’autonomia di classe di esprimersi. In sintesi, misurarsi con le condizioni politiche del rapporto classe/stato per pesare sugli equilibri dello scontro stesso, mette in luce i termini della necessaria dialettica guerriglia/autonomia di classe a partire dalla direttrice dell’attacco allo stato all’interno dei criteri sopraddetti. Una dialettica che a livello dell’organizzazione di classe nella lotta armata, tenendo conto della materialità, concretezza e carattere dello scontro, deve agire sul binario ricostruzione/formazione; ovvero ricostruzione nell’ambito operaio e proletario delle condizioni politiche e materiali danneggiate e disperse dalla controrivoluzione: formazione delle forze che si dispongono in modo da renderle adeguatamente organizzate a sostenere il livello di scontro contro lo stato. Un termine di lavoro che attraversa orizzontalmente e verticalmente le forze in campo (seppure con le dovute differenze), a partire in primo luogo dalla formazione dei rivoluzionari (forze rivoluzionarie) i quali devono esprimere la direzione adeguata a questo piano di disposizione. In ultima analisi questo duplice intervento recupera il patrimonio di 18 anni di attività rivoluzionaria delle BR per rilanciarlo nella maturità e progettualità attuali.
Riassumendo, la fase di ricostruzione è un passaggio delicato e complesso ed investe il tipo di riadeguamento intrapreso dalle BR nel senso più generale, cioè riferito alla capacità, non solo di riqualificare l’impianto e il tipo di caratterizzazione del quadro militante, ma questo in relazione alla necessità di determinare una direzione/organizzazione delle forze in grado di muovere sul duplice binario di ricostruzione/formazione, al fine di disporle adeguatamente nello scontro. Quindi la disposizione tattica rispetto alla fase rivoluzionaria di ricostruzione ruota intorno al salto di qualità operato dalla centralizzazione, nell’attività generale dell’organizzazione, delle forze in campo. Questo ha significato misurarsi con l’approfondimento dello scontro, la necessità della centralizzazione sul piano di disposizione delle forze nell’attività generale dell’organizzazione per meglio renderle funzionali all’attacco, disponendole come un sol cuneo intorno all’attacco in modo da incidere ed assestarsi adeguatamente nello scontro. La centralizzazione delle forze nell’attività generale dell’organizzazione è un avanzamento nel processo di costruzione del Partito, della sua funzione di direzione/organizzazione dello scontro; questo implica che le istanze di compagni rivoluzionari, la stessa costruzione di reti proletarie, siano centralizzate nell’attività generale dell’organizzazione, poiché la semplice disposizione spontanea delle forze sul terreno della lotta armata non è sufficiente a farsi carico dei termini dello scontro. La disposizione di queste forze nell’attività dell’organizzazione implica il necessario calibramento delle funzioni e dei ruoli rispetto al quadro di coscienza espresso, ma ugualmente funzionalizzate al piano di lavoro generale. Quello che si è verificato è la necessità di formare le forze che si dispongono, all’interno del criterio organizzato del lavoro rivoluzionario a partire dai compagni rivoluzionari, date le caratteristiche del processo rivoluzionario. Se la Ritirata Strategica è una fase a carattere generale, al suo interno già vive la fase di ricostruzione delle forze proletarie e rivoluzionarie e degli strumenti politico/organizzativi per attrezzare il campo proletario nello scontro prolungato contro lo stato. Un elemento di programma, questo, che vive dialetticamente connesso alle linee di attacco sia al progetto di riformulazione dei poteri dello stato che ai progetti centrali dell’imperialismo costituiti dalle politiche di coesione dell’Europa occidentale.
Su questi termini programmatici le BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente lavorano a concretizzare la parola d’ordine dell’unità dei comunisti.
– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario demitiano di “riforma” dello stato.
– Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
– Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli palestinese e libanese.
– Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione/consolidamento del Fronte combattente antimperialista. Per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’ area geopolitica.
– Onore ai rivoluzionari antimperialisti caduti.
I militanti delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Maria Cappello, Fabio Ravalli
Firenze, 25 novembre 1988