Un’ipoteca sulla ripresa rivoluzionaria. Carcere di Voghera, alcune compagne

Ci sembra opportuno e per certi versi doveroso, come comunisti, esprimere il nostro punto di vista sulle attuali dinamiche politiche che stanno attraversando i prigionieri in Italia, quantomeno per cercare di svelare il progetto di soluzione politica che da alcuni di essi viene riproposto al movimento rivoluzionario.

A nostro avviso non si tratta unicamente dell’ennesima defezione prodottasi nelle fila dei prigionieri comunisti, seguendo una dinamica già nota e quindi immediatamente configurabile, quanto di un progetto politico ben più ambizioso, diretto da ex-rivoluzionari «prestigiosi», che, a nome del loro presunto riconoscimento e a partire da difficoltà reali incontrate dal processo rivoluzionario in questi anni, sono tutti intenti a dare colore politico e senso strategico al loro opportunismo.

Da parte dello stato questo progetto poggia sulla necessità di rilegittimare la propria immagine e di rifondarsi su basi più solide e su coordinate «democratiche»; in ultima analisi, sulla necessità di assestare una vittoria strategica sulla prospettiva rivoluzionaria in Italia. E il coinvolgimento e l’attivizzazione di ex-rivoluzionari in questo progetto, conduce direttamente ad una condizione i cui effetti possono essere capitalizzati all’interno di una prospettiva di pacificazione del fronte interno, di largo respiro per la borghesia. È d’altronde facilmente comprensibile in termini politici come la possibilità per lo stato di affermarsi come «stato democratico» debba necessariamente passare attraverso la rilettura e la risoluzione del «fenomeno» degli anni ’70 e, di conseguenza, misurarsi sul riconoscimento politico di una fase di scontro per il potere in Italia e delle Brigate Rosse come avanguardia rappresentativa di quello scontro. Riconoscimento, sia chiaro, che per uno stato imperialista è possibile esclusivamente se serve a ratificare una sconfitta e, conseguentemente, a riconoscere l’inattualità e l’improponibilità della trasformazione rivoluzionaria della società, per riaffermare l’ambito istituzionale borghese come l’unico in grado di dare soluzione alle contraddizioni sociali.

Sono proprio le particolari condizioni di questa fase, caratterizzata da rapporti di forza a favore della borghesia e da un complesso processo di trasformazione dello stato italiano a stato imperialista a pieno titolo, a rendere necessario e possibile questo passaggio e a far sì che il tentativo di pacificazione del fronte interno, giocato intorno all’annientamento politico dell’avanguardia rivoluzionaria in galera, acquisti immediatamente valenza strategica. Innanzitutto, perché il riassorbimento delle avanguardie rivoluzionarie, privando la classe della sua prospettiva, sancisce l’egemonia borghese, stabilizzando i rapporti di forza già assestati a favore della borghesia. E, non ultimo, perché questa immagine di stabilità sociale rafforza il carattere di concreta affidabilità in chiave internazionale dell’Italia, determinante per il ruolo ad essa affidato, e che intende rivestire, all’interno del sistema imperialista.

Questo progetto della borghesia imperialista italiana non si discosta, oltretutto, dall’approccio che il sistema imperialista nel suo complesso riserva all’affrontamento dei conflitti che minacciano la sua egemonia. A partire, infatti, dal livello di sviluppo e crisi imperialista e dalla portata strategica degli interessi in gioco in campo internazionale, si determina oltre ad un’aggressività crescente, l’affermazione necessaria e parallela di risoluzione politica dei conflitti. Ma è perseguendo il suo intento egemonico, nonché la penetrazione economica e politica su scala globale, che l’imperialismo ricerca la sua stabilità. Stabilità che, al contrario, si regge su precari equilibri, soprattutto dettati dalle contraddizioni prodotte dal dominio imperialista nel mondo e dove la tendenza alla guerra imperialista si manifesta oggettivamente nel processo di sviluppo dell’imperialismo.

La guerra imperialista è appunto manifestazione e, nello stesso tempo, controtendenza principale alla crisi imperialista che, al di là delle scelte politiche che ne determinano le forme e l’attuazione, si sta man mano imponendo nelle relazioni internazionali, come tendenza dominante. Non è trascurabile in questo contesto il peso economico raggiunto dall’industria bellica come vero e proprio volano dell’economia mondiale. Un processo che per le stesse leggi economiche che guidano la produzione della merce-arma, non potrà non portare che ad ulteriori squilibri dell’economia capitalista e, conseguentemente, ad un’escalation dell’aggressività dell’imperialismo in tutto il mondo.

È proprio intorno a questa tendenza dominante, infatti, che ruotano e trovano congiunturalmente una convergenza oggettiva anche politiche dettate da interessi strutturalmente diversi, che tuttavia si stanno adoperando nella definizione politica e diplomatica dei conflitti in corso.

Da parte imperialista questa politica non riflette altro, quindi, che la necessità di distruggere preventivamente e annientare alla radice il potenziale sviluppo di forme rivoluzionarie che ne mettono in discussione la stabilità, attraverso la reale possibilità e capacità di legare alla causa rivoluzionaria ed antimperialista le forme di antagonismo generate dalle contraddizioni del sistema sociale dominante. E la borghesia imperialista italiana non si sottrae a questo indirizzo: anzi ha dimostrato a più riprese la determinazione ad assumere una piena responsabilità sia nel riassorbimento delle tensioni politiche, che per una presa di posizione oltranzista in funzione controrivoluzionaria, ponendo a completa disposizione la sua acquisizione di conoscenza in questo campo.

Non di meno, l’attuale proposta di soluzione politica per i prigionieri, come elemento che contribuisca in senso strategico ad un’affannosa quanto improbabile pacificazione sociale, trova terreno favorevole nella particolare situazione dei rapporti tra le classi in Italia. Una situazione che si è determinata in seguito alla sconfitta della classe e delle sue avanguardie e in seguito al processo di ristrutturazione produttiva e al complesso salto di riadeguamento dello stato e del personale politico imperialista che hanno trasformato le caratteristiche dello scontro sociale. Rafforzamento dello stato e ristrutturazione sociale cui non ha corrisposto, proprio per le difficoltà e per la complessità dei problemi posti da questa diversa condizione, un processo di riadeguamento da parte dell’avanguardia rivoluzionaria, diretto a dare prospettiva strategica al processo rivoluzionario.

L’iniziativa di consistenti settori di prigionieri politici si sta pertanto inserendo in modo strumentale in questo contesto di debolezza dell’attività rivoluzionaria e di sensibile scarto nei rapporti di forza tra le classi, con un’attivizzazione crescente rivolta al buon esito della soluzione politica. Si tratta, quindi, di un avallo opportunista di ex-rivoluzionari al progetto di pacificazione portato avanti dallo stato, che in questo modo ne amplia e rafforza la portata e che, in ultima analisi, è teso ad endemizzare l’intervento proletario e rivoluzionario, attraverso la decapitazione della sua direzione strategica espressa dalla lotta armata per il comunismo. In sostanza, l’obiettivo sarebbe quello di conseguire una pace sociale mortifera che, tuttavia, e nonostante i successi riportati dall’offensiva borghese in questi anni, non è stata raggiunta e che rappresenterebbe la condizione migliore per il radicamento delle politiche borghesi di governo dei conflitti sociali e per la massima agibilità delle politiche imperialiste guerrafondaie in campo internazionale.

Il tentativo di affossamento della rottura rivoluzionaria in Italia fa leva sul concetto politico -strumentalmente agitato – di discontinuità fra passato, presente e futuro e sulla chiusura di un ciclo di lotte con l’esperienza storica degli anni ’70, imbalsamata e superata dalla «moderna onnipotenza e tolleranza» imperialista ed improponibile oggi se non come coazione a ripetere, del tutto priva di prospettive. Evidentemente, invece, si sta tentando di porre una pesante ipoteca sul processo rivoluzionario in Italia, con l’obiettivo di delegittimare una possibile ripresa dell’intervento rivoluzionario su basi più mature e adeguate all’attuale livello di scontro. Un tentativo che se si realizzasse comporterebbe più o meno conseguentemente la possibilità per lo stato di capitalizzare e reimmettere – in funzione controrivoluzionaria – nelle dinamiche sociali il patrimonio storico rivoluzionario e dei «personaggi» che vi hanno partecipato. Anche su questa scommessa si misura la capacità dello stato di svolgere il proprio ruolo su basi «moderne» ed «efficienti», conseguenti ad una sua rimodellazione.

Una politica, d’altronde, che nella storia italiana non è sconosciuta e che è stata attuata a più riprese in occasione dei passaggi politici cruciali del dominio borghese e che ha permesso di avvalersi dell’apporto della sinistra, riformista, revisionista o ex-rivoluzionaria, per superare le fasi politicamente critiche.

È infatti di fronte ad un’offensiva rivoluzionaria di enorme portata, profondamente radicata nelle contraddizioni di classe, che lo stato italiano si è trovato ad affrontare una svolta di carattere storico che gli ha imposto un riadeguamento complessivo delle forme di dominio e della mediazione politica. Era andato profondamente in crisi un modello sociale: da una parte l’incalzare del processo di ristrutturazione produttivo a livello internazionale, spinto dalla crisi generale del modo di produzione capitalistico e che avrebbe trasformato radicalmente le condizioni della produzione, con l’introduzione generalizzata dell’automazione e dell’informatica; dall’altra, l’avanzamento sul fronte interno dei rapporti di forza del campo proletario intorno al progetto della lotta armata. Una situazione che andava completamente ribaltata se non si voleva finire nel novero dei paesi dipendenti.

Il passaggio dell’Italia al ruolo di media potenza imperialista esigeva, quindi, innanzitutto la sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria ed in secondo luogo la capacità di governo delle contraddizioni sociali di una formazione economico-sociale ristrutturata. È rispetto a questa necessità vitale che si è resa possibile l’assunzione, anche da parte di quelle forze politiche che avevano egemonizzato la gestione del potere politico ed economico fino ad allora, di una visione politica «moderna» ed «efficiente» e di una strategia di governo dei conflitti improntata a criteri «riformisti». E a questo scopo si è rivelata fondamentale la cooptazione, o la cogestione in mille forme, all’interno del sistema di governo della borghesia, delle forze storicamente riformiste e revisioniste, che, dulcis in fundo, ha dato il via ad una ridicola misurazione competitiva sul grado «riformista» di ogni partito. Intorno alla stessa soluzione politica si assiste ad una corsa scomposta delle forze borghesi, con il proposito di conquistarsi il primato e di affermarsi come forza politica «intelligente», in grado di fornire risposte sociali adeguate alla complessità della fase e, simultaneamente, a respiro strategico.

Va comunque detto che proprio la complessità di questo processo di riadeguamento e il suo dispiegamento in una situazione politica in cui ancora resistono in forma residuale elementi del precedente sistema di governo sociale, accentuano i caratteri di passaggio e di transizione di questa fase, senza assolutamente sottovalutarne la portata strategica, e in gran parte irreversibile, che assume a partire dalla sua base strutturale.

Nello stesso tempo è chiaro che alla gestione dei conflitti in senso «riformista» doveva corrispondere un progressivo rafforzamento dello stato, che se da una parte ha applicato una strategia ferocemente antiproletaria, attaccando la classe nelle sue condizioni di vita e nelle sue conquiste politiche e, in fin dei conti, nella qualità della vita, dall’altra, ha posto le basi per la definizione in senso autoritario della società. Una ridefinizione che ha interessato in particolar modo i paesi dell’occidente capitalistico, all’interno di una tendenza all’integrazione e al coordinamento delle politiche imperialiste, pur rispettando la specificità di ogni formazione economico-sociale.

Si tratta di una situazione alquanto problematica e complessa nella quale l’autoritarismo dello stato si affianca alla mediazione politica, e al ricorso a tutti gli strumenti che contribuiscono a rafforzare la figura dello stato, dalla ridefinizione in campo istituzionale, all’utilizzo spregiudicato dei mezzi di informazione, fino al loro uso scientifico e oculato, finalizzato alla creazione indotta del consenso e che dovrebbe puntare alla sua pianificazione preventiva, attraverso martellanti campagne di disinformazione tendenti ad influenzare la coscienza di massa. Si assiste ancora all’uso spettacolarizzato della nuova immagine efficientista agile e svecchiata dagli squilibri strutturali del sistema politico italiano, che tuttavia non riesce a raccogliere se non forme passive di consenso, non essendosi affatto realizzata l’identificazione nello stato, in senso socialdemocratico, da parte proletaria.

La stessa politica estera italiana viene avvolta e contrabbandata da un’immagine propagandistica di autonomia, umanità e spirito mediatorio, tutta funzionale alla creazione di consenso attorno al ruolo imperialista dell’Italia. Al contrario, dietro la mistificazione di una «politica di cooperazione e aiuto allo sviluppo» e intorno a quello che è stato comunque un indirizzo comune a tutta la politica estera dell’Italia da Mattei in avanti, si nasconde l’attuale obiettivo dell’imperialismo italiano. Se per quarant’anni gli squilibri del sistema politico e il debole profilo dell’Italia avevano maggiormente messo in luce gli aspetti mediatori della sua politica, con il suo salto a paese forte del sistema imperialista «finalmente» si rende possibile il pieno usufrutto di questo aspetto politico in un disegno di sfruttamento neocolonialista dei paesi della periferia con tutte le potenzialità di rapina che ne derivano.

Quest’ultimo elemento, nel salto operato dalla borghesia imperialista italiana, per quanto contraddittorio, contribuirà sensibilmente alla ridefinizione del panorama degli equilibri sociali interni. Se però da una parte questo processo inevitabilmente tenderà ad incrementare il solco tra i paesi della periferia del sistema imperialista e quelli del centro altamente industrializzato, dall’altra il proletariato delle metropoli dovrà misurarsi con contraddizioni vecchie e nuove che il sistema di dominio imperialista non cessa di produrre.

La ristrutturazione produttiva, che in questi anni ha informato le relazioni sociali, ha prodotto modificazioni radicali nell’assetto socio-economico, da una parte ribadendo ed accentuando la polarizzazione fra le classi e razionalizzando condizioni di sfruttamento sempre più pesanti per la forza-lavoro e, dall’altra, ampliando il campo della marginalità sociale attraverso una massiccia espulsione di f-l e un restringimento drastico della base occupazionale. Si è prodotta una ridefinizione profonda delle condizioni della produzione, automatizzando e segmentando il processo produttivo e la composizione stessa di classe, aumentando l’espropriazione e l’alienazione della f-l nel processo produttivo, ma ribaltando la centralità del profitto in una società fortemente industrializzata. Parallelamente a queste trasformazioni strutturali e proprio come manifestazione sociale di esse, la qualità complessiva della vita nelle metropoli ha subito una progressiva degenerazione, sia nelle condizioni materiali che nelle prospettive umane e sociali, sottoposte oltretutto ad un martellamento continuo dell’ideologia borghese dominante. Dall’altra parte, la tendenza alla guerra imperialista pur assumendo forme e tempi che apparentemente sembrano riassorbire le tensioni antagoniste che essa produce, tuttavia è in grado di condizionare direttamente lo sviluppo sociale, stabilendo da subito un innalzamento del livello delle contraddizioni sociali.

Di fronte all’imbarbarimento del sistema di relazioni sociali nelle metropoli imperialiste, che genera tendenze disgregative e implosive dell’antagonismo tutte riassorbibili e compatibilizzabili dall’apparato di dominio imperialista, l’alternativa rivoluzionaria si riafferma come l’unica possibilità in grado di dare reale prospettiva alla distruzione della società capitalistica. E’ ancora una volta la strategia della lotta armata, l’unica reale alternativa ai rapporti sociali capitalistici, l’unica prospettiva realmente in grado di disarticolare il progetto imperialista, di far avanzare il processo rivoluzionario nelle metropoli senza poter essere riassorbita nei meccanismi politici borghesi.

In Italia la guerriglia metropolitana, come forma storicamente determinata della strategia della lotta armata, si è affermata in un contesto caratterizzato da contraddizioni politiche, interne ed internazionali, favorevoli – per quanto non oggettivamente rivoluzionarie. È proprio questo elemento ad evidenziare e a legittimare l’originalità della guerriglia nelle metropoli imperialiste, in quanto unità dialettica del politico e militare, unica capace di dare impulso allo sviluppo rivoluzionario nel centro imperialista, rompendo con le politiche revisioniste che da sempre hanno privato il proletariato della prospettiva rivoluzionaria.

È questa scelta originale e strategica che ha permesso all’avanguardia combattente di sviluppare la sua attività in dialettica con le dinamiche più significative dell’antagonismo, collocandosi sempre al livello più alto dello scontro di classe, anche in condizioni di debolezza. Il significato di questa capacità di rottura radicale rappresenta l’elemento fondamentale di continuità del nostro processo rivoluzionario a partire dal quale è oggi possibile e necessario ridefinire i compiti della guerriglia ridando slancio alla sua progettualità su basi adeguate alle nuove condizioni dello scontro nella metropoli.

Solo lo sviluppo della guerriglia può trasformare la barbarie imperialista in un processo cosciente di guerra di classe di lunga durata in grado di ribaltare i rapporti di forza generali sul terreno internazionale dello scontro. È questo infatti il terreno che delinea le dimensioni e gli orientamenti della contrapposizione tra proletariato internazionale e borghesia imperialista, all’interno del più generale conflitto imperialismo/antimperialismo.

La configurazione stessa di questo conflitto, se da una parte tende a spostare le sue manifestazioni più acute verso la periferia del sistema – e sulla pelle del suo proletariato -, dall’altra implica direttamente conseguenze e contraddizioni nel centro imperialista; perché è qui, nel cuore del sistema, che si genera e riproduce l’apparato di dominio della borghesia imperialista, ed è qua che l’imperialismo impone le sue scelte ed obiettivi alla società in nome della stabilità e sicurezza, nella difesa ad oltranza dei valori occidentali.

In questo senso l’individuazione da parte delle forze della guerriglia della costruzione del Fronte Antimperialista Combattente nella sua configurazione strategica, rappresenta un passo in avanti e una conquista storica per le prospettive del proletariato rivoluzionario ed antimperialista. È proprio ed esclusivamente la capacità di riattualizzare i caratteri originali della rottura della guerriglia, salvaguardandone tutta la visione strategica, che renderà possibile il superamento delle inevitabili stasi e difficoltà che attraversano ogni processo rivoluzionario.

Operare diversamente, lungi dal dimostrare una capacità di riadeguamento da parte dell’avanguardia alle mutate condizioni dello scontro, apre oggettivamente spazi al radicamento di tendenze neo-revisioniste. L’abbandono della visione strategica della lotta armata, la trasformazione di quest’ultima in strumento da far pesare occasionalmente sulle politiche della borghesia, la scissione della dialettica fra politico e militare costitutiva della guerriglia o la prevalenza dell’attività politica a partire dal basso, oltre a snaturare e disperdere il senso dell’esperienza rivoluzionaria in Italia, finirebbe con l’ipotecare pesantemente una ripresa rivoluzionaria, indirizzando su un terreno riassorbibile nei meccanismi della politica borghese, potenziali energie antagoniste a questo sistema di relazioni sociali.

 

Alcune compagne

 

Carcere di Voghera, settembre 1987

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