Che il progetto di soluzione politica sancisca una ormai raggiunta confluenza di interessi tra stato imperialista e quel ceto politico che, generatosi dentro il processo di rivoluzione sociale di questi anni, si prepara ora a farsi esso stesso stato, dovrebbe chiarire da sé che si tratta di un progetto controrivoluzionario. Creare il deserto politico della mediazione senza fine intorno alla radicalità delle trasformazioni poste alla base della rivoluzione sociale nella metropoli imperialista, stabilizzare la sua impossibilità imponendo in tutto lo spazio/tempo della produzione di vita quale unico punto di vista quello alienante del capitale imperialista è compito dello stato.
L’obiettivo della borghesia imperialista e del suo stato è «risolvere» le contraddizioni portate a maturazione dal processo rivoluzionario negli ultimi vent’anni e liquidare la guerriglia quale unica possibilità di orientamento e prospettiva reale perché rottura senza appello di questo sistema.
Trasformare il processo vitale di questa rottura in morte storiografica, in normazione e governo dei conflitti e quindi in nuovo prodotto per l’alienazione sociale è il compito che si sono assunti in questa fase di consolidamento della penetrazione del sistema imperialista in questo paese tutti quelli che promuovono e dialogano intorno alla «soluzione politica».
Il nostro intervento, che pure ha come obiettivo il contribuire a smascherare fino in fondo la natura controrivoluzionaria di un progetto, di chiarire quali interessi reali ne sono la causa profonda, di valutare le componenti in gioco, di tracciare una netta linea di demarcazione tra comunicazione rivoluzionaria e mediazione senza fine, nasce dalla consapevolezza che è improrogabile per noi, indipendentemente dai progetti controrivoluzionari, l’apertura di un confronto al nostro interno. Un confronto che riesca cioè a strutturare gli elementi di forza conquistati in questi anni dalla guerriglia e li ponga come base di un nuovo salto di maturazione in grado di affermare e orientare la rivoluzione nel centro imperialista.
È evidente che la posta in gioco è il futuro del processo rivoluzionario, parlare al passato ha poco senso ormai. Chi in questi anni si è prodigato negli attacchi alla guerriglia, sostenendo che invece di accelerare o favorire il processo rivoluzionario lo arrestasse, si è sbagliato. La risposta è nel vuoto che si è creato intorno ai movimenti di opposizione che pure hanno tentato di organizzarsi: in assenza di un orientamento strategico nulla si può muovere!
Ora è tempo di concentrare le nostre forze e di camminare il più in fretta possibile, di aprire nuove strade. Sappiamo che è un cammino che non faremo «soli» perché nuovi movimenti, nuove forze, si stanno liberando dall’oscurantismo della cappa imperialista. Scegliamo la strada più difficile, quella della ricerca della verità fuori dai codici, perchè sarà la più semplice per farci capire, per ristabilire un campo di comunicazione dei rivoluzionari.
Occorre però ricollocare dialetticamente la guerriglia nello sviluppo delle condizioni oggettive e soggettive maturate. Un riadeguamento del quadro di riferimento, del nostro sistema concettuale, di impianto e orientamento strategico della guerriglia in questo paese, che non può limitarsi ad un «riaggiornamento» delle condizioni in cui «oggettivamente» si esprime lo scontro di classe, lasciando ad una sorta di automatismo il modellarsi della forma della soggettività rivoluzionaria.
Solo una forte determinazione soggettiva è in grado oggi di costruirsi gli strumenti adeguati di lettura della realtà, oscurata dalla cappa dell’alienazione che sta diventando l’unico momento unificante dei rapporti generati dal capitale. Solo costruendo valori radicalmente opposti è possibile un processo di liberazione sociale.
La rivoluzione sociale: processo di ricomposizione e di liberazione del proletariato internazionale
Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico (MPC) in sistema imperialista globale, la crisi epocale che questo sviluppo genera e riproduce in modo allargato per intensità ed estensione, la contraddizione insanabile insita nel rapporto sociale capitalistico che crea la guerra più «strutturalmente condizionante» quella tra borghesia imperialista e proletariato internazionale, per noi si riassume nella tendenza alla rivoluzione.
È la tendenza alla rivoluzione che noi intendiamo costruire, rafforzare, orientare, accelerare.
E intendiamo affrontare, per quanto ci riguarda, i passaggi centrali della costruzione del processo rivoluzionario qui nel centro imperialista, nel cuore del dominio reale che irradia nell’intero globo terrestre, insieme al rapporto sociale capitalistico, le contraddizioni generate dalla sua crisi interna e la controtendenza a questa crisi che si traducono in nuove forme del dominio estese su tutto il globo.
In questo senso il primo passaggio indispensabile è ricollocare la realtà italiana non più come il «risultato» della divisione generale del mondo dominato dall’imperialismo dopo la II guerra mondiale, ma la «risultante» della scalata della borghesia imperialista di questo paese all’interno delle leggi universalizzanti del capitale imperialista, fino a farla diventare un tutt’uno nel sistema imperialista.
Per sistema imperialista globale intendiamo la struttura dei rapporti di produzione e la divisione del lavoro a livello globale, nonché il governo delle condizioni della loro riproduzione. Tali rapporti comandati e modellati dal capitale multinazionale definiscono il carattere sempre più unitario della formazione economico sociale e sono il risultato, e nello stesso tempo il presupposto, della continuità dello sviluppo capitalistico.
Rappresentano la specificità dello sviluppo del capitale in quelle aree del mondo in cui storicamente si sono condensate le condizioni migliori di concentrazione della produzione e dei capitali e quindi di socializzazione e massimo sviluppo delle forze produttive: le aree metropolitane del centro.
In queste aree è stato quindi storicamente possibile creare le massime condizioni di valorizzazione e quindi di accumulazione del capitale, fino allo sfruttamento di ogni attività umana per velocificare l’intero ciclo di rotazione del capitale, ristrutturando ogni sfera della formazione sociale, intensificando il processo di sottomissione e sussunzione del lavoro al capitale, in altre parole fino all’approfondimento del rapporto di sfruttamento e alienazione. Ma sono anche il livello di massima esplicitazione della crisi profonda che attanaglia il capitale nel suo sviluppo. Ed è in queste aree del mondo che si è condensato lo scontro di classe, come critica al rapporto sociale capitalistico di produzione caratterizzando il processo di liberazione del proletariato come rivoluzione sociale.
Intendiamo dire che un processo di liberazione di energia trasformatrice è alla portata delle condizioni di scontro di classe maturate. Uno scontro che, per le caratteristiche stesse del processo di penetrazione capitalistico, ha investito tutte le regioni e tutte le ragioni della vita sociale.
Un processo rivoluzionario che è quindi, letteralmente, una guerra senza quartiere tra borghesia imperialista e proletariato mondiale, il quale spinge a farsi classe rivoluzionaria mettendo in discussione le ragioni di un dominio in ogni dove, tendendo al rovesciamento del modo di produrre stesso, attualmente segno della completa disumanizzazione della natura e snaturalizzazione dell’uomo.
Questa evidenza da sola non basta. Deve farsi consapevolezza che il procedere della rivoluzione non può costituire il fattore di ulteriore sviluppo delle forze produttive considerate così come si presentano (neutrali), in quanto in esse è inscritto il codice del capitale.
Se di modelli si può parlare, quello della rivoluzione sociale non prevede automatismo tra rovesciamento dei rapporti di produzione e rimodellazione delle forze produttive, bensì costituisce la critica radicale dell’imperativo dello sfruttamento che ha alienato tanto i rapporti sociali quanto la dialettica tra essi e le forze produttive.
La rivoluzione sociale è quindi l’affermazione di un processo di lunga durata che nel suo sviluppo esprime e fa vivere i caratteri della transizione al comunismo senza mediazioni o pause di sorta.
Processi di integrazione e ridefinizione degli stati
Sono le condizioni di sviluppo del sistema imperialista globale, improntate dai rapporti capitalistici generatisi e allargatisi poi dentro le aree metropolitane, a rompere i confini degli Stati Nazione e ad imporre nuove forme dello stato.
Stato la cui sovranità e universalità è stata messa in discussione proprio da quelle forze imperialiste che l’hanno prodotto e sostenuto. È lo sviluppo delle forze produttive ad aver contribuito a far saltare le frontiere nazionali, prima di tutto all’interno delle aree metropolitane (che ora si presentano come poli omogenei per l’intensità del rapporto di capitale e per la qualità di contraddizioni che esprimono Europa, USA, Giappone) e poi in tutte le aree del globo. Le nuove forme dello stato sono emerse in tutta la loro evidenza nella crisi di valorizzazione che ha investito le aree metropolitane negli anni ’60-’70 e che ha imposto (anche a fronte della massificazione dei processi produttivi e dello scontro di classe che vi si era generato), insieme a nuovi rapporti di produzione (informatizzazione, automazione, frammentazione dei processi) un nuovo rapporto tra produzione e riproduzione del capitale.
Ed è in quegli anni di crisi di ristrutturazione che l’evoluzione degli stati in Stati Imperialisti delle Multinazionali agli ordini dei capitali più forti (USA in testa), ha guidato il processo di integrazione delle aree metropolitane in un unico sistema di produzione, governando la ristrutturazione selvaggia che ha investito tutto il modo di produrre dell’Occidente capitalistico innanzitutto e imposto a livello globale nuovi rapporti tra periferia e centro. Lo stato imperialista ha, per così dire, pianificato la rottura dei confini dello stato nazione rimodellandosi nei processi di transnazionalizzazione del capitale multinazionale, cioè nei processi in cui si produce, riproduce e circola il capitale.
Oggi lo stato imperialista, che continua a mantenere la sua funzione principale, cioè quella di garantire le condizioni di riproduzione del capitale o, in altri termini, di «mediare» lo scontro di classe, è interno alla contraddizione principale di questo scontro: borghesia imperialista/proletariato internazionale. Contraddizione che assume assoluta priorità rispetto agli antagonismi interimperialisti.
L’attivazione degli stati imperialisti sul fronte della «guerra al terrorismo internazionale» intesa come guerra alla rivoluzione del proletariato mondiale, rappresenta la strategia integrata degli stati imperialisti in guerra. Inutile ricordare quanto lo stato italiano ne sia protagonista.
Non è tutto. Come abbiamo visto l’aggiungere il termine imperialista allo stato non significa esclusivamente qualificare e definire la sua «politica estera» in campo economico, politico e militare. Significa innanzitutto rimodellare al proprio interno il rapporto tra produzione e riproduzione dei rapporti sociali, si ridefinisce cioè il ruolo della politica e delle istituzioni tradizionali del controllo e della riproduzione sociale che da sempre erano state concepite come «sovrastruttura». Alla militarizzazione più imponente mai concepita e prodotta a difesa di un modo di produzione (NATO, armi nucleari di tutti i tipi, eserciti supertecnologicizzati e corpi speciali antiguerriglia, ecc.), il cui interesse strategico per la continuità del sistema imperialista è centrale, si affianca un apparato politico/coercitivo sofisticatissimo, teso al controllo e governo di ogni forma di autonomia della classe, la cui apparente «leggerezza» e «democraticità» mascherano il mutamento profondo che è in atto nei paesi capitalisti occidentali. Lo stato nella metropoli va oltre il ruolo sovrastrutturale di regolatore dello scontro di classe, strutturandosi nel movimento del capitale, della sua riproduzione. Le sue istituzioni divengono veicoli di strategie articolate e flessibili, in grado di dare «risposte» ad ogni domanda sociale organizzata, e nello stesso tempo si pongono come contenitori del sapere sociale complessivo da trasformare e trasferire in quella che ora è forse una delle condizioni principe del processo di valorizzazione del capitale: il monopolio della scienza, che è scienza «disponibile» per il capitale, per la borghesia imperialista, il cui uso contro l’uomo e la natura, è evidente a tutti.
Stato e scienza, tradizionalmente luoghi neutrali da «occupare» per avviare il processo di transizione ad un nuovo modo di produrre (quello rivoluzionario), divengono strutturali (e quindi non neutrali) al capitale multinazionale nella misura in cui gli sono indispensabili per procedere nel suo processo di sottomissione e sussunzione delle forze produttive.
Solo cogliendo fino in fondo la non neutralità assoluta che ormai permea tutti i rapporti sociali, è possibile comprendere la vera natura dello stato oggi e il fatto che non è possibile azzerare nella «mediazione politica» lo scontro di classe.
Ed è in questo contesto che lo stato imperialista è oggi in grado di neutralizzare quei movimenti rivoluzionari che si fondano e tendono alla presa del «potere», assolutizzando solo alcuni dei suoi aspetti (politiche repressive, asservimento economico, coinvolgimento nelle «politiche» di guerra dell’imperialismo) e non cogliendo l’essenza del rapporto sociale che vuole riprodurre. Di più, nella misura in cui la politica rivoluzionaria, non riuscendo a svelare le reali condizioni dello scontro tra le classi, non riesce nemmeno più a capire qual è il suo referente, la sua estraneità alla classe diviene assoluta e tende a farsi in qualche modo stato essa stessa. Progressivamente assume il punto di vista del capitale: l’imperialismo e per esso lo stato imperialista se ne serve per far tacere il proletariato mondiale e le sue avanguardie.
Un «ceto politico» si fa stato!
Abbiamo ritenuto necessarie queste premesse per collocare questo progetto nelle strategie controrivoluzionarie dell’imperialismo oggi, per riuscire anche a cogliere la dialettica di questo scontro che non è mai determinata, in ultima istanza, dalla volontà unilaterale di una delle parti e, nel caso specifico, dello stato imperialista.
Per progetto di soluzione politica ci riferiamo all’operazione messa in moto dal «ceto politico» che si è generato all’interno delle BR in questi anni e che ha coscientemente guidato la propria estraneazione dal processo rivoluzionario e dalla classe a piccoli passi, coltivandosi uno spazio «privilegiato» in nome di un sapere/potere succhiato e scorporato dalla militanza rivoluzionaria, fino a farsi esso stesso stato.
Parliamo di ceto politico per identificare quel gruppo di ex militanti che, sfruttando il ruolo avuto all’interno di un’organizzazione combattente, si sentono in qualche modo legittimati ad aprire il «negoziato» con lo stato. Una sorta di autolegittimazione che vorrebbe rovesciare contro tutti i prigionieri comunisti, le forze guerrigliere e il movimento rivoluzionario, il ruolo avuto nella storia delle BR, scegliendo sulla testa di tutti la resa di alcuni.
Un’operazione che ha aperto un terreno di mediazione a largo raggio con lo stato, il cui obiettivo dichiarato è: chiudere il ciclo storico che ha generato le lotte e la guerriglia, liberazione dei soggetti che se ne sono fatti carico, dichiarare la fine della «guerra». Un’operazione che nel momento stesso in cui è stata «pensata» è divenuta terreno specifico dello stato imperialista.
Non è difficile cogliere la confluenza di interessi tra lo stato e il farsi stato di un ceto politico. L’approfondimento del dominio da un lato e l’incapacità di assumere, dentro la politica rivoluzionaria, le nuove condizioni dello scontro dall’altro, si traducono in una caduta verticale di identità rivoluzionaria: deporre la critica delle armi, la lotta armata, ai piedi dell’impero del dominio reale; assumere il punto di vista del capitale, nel momento stesso in cui si legittima il suo stato come «mediatore» dello scontro di classe e quindi deporre anche le armi della critica, la lotta di classe.
Non solo, lo stato imperialista diviene l’attore principale, il fattore attivo ed attivizzante di questa operazione. Se ne fa proprio terreno specifico all’interno delle ormai ben consolidate strategie controrivoluzionarie che in Italia, a fronte dell’avanzamento del processo rivoluzionario, hanno trovato strade originali sia negli anni precedenti privilegiando il piano dell’attacco politico-militare (arresti di massa, repressione generalizzata, pentitismo, dissociazione), sia negli anni recenti di consolidamento e ulteriore penetrazione nel tessuto sociale: rifondazione delle strategie del controllo sociale, nel senso di una loro progressiva integrazione, strutturalità alle condizioni di riproduzione del ciclo capitalistico. Strategie che sono penetrate in ogni ambito (integrazione nelle metropoli, scuole, salute, carcere…) al loro apparente «efficientismo», all’alleggerimento fa da contraltare il sempre più evidente segno antiproletario di approfondimento del controllo sociale.
In questo senso il progetto di soluzione politica per sua natura e per la natura delle parti in gioco oltrepassa immediatamente il terreno specifico della negoziazione tra ex rivoluzionari e stato e va in cerca di interlocutori possibili nei movimenti di classe «strangolati» dentro la velocificazione delle trasformazioni in atto nella società italiana. Diviene «produzione ideologica», qualcosa di più di «mediazione politica». È produzione qualificata, visto che a farsene carico è proprio quel ceto politico che ancora gode di spazi di legittimità nel movimento in cerca di una propria identità.
Il problema dello stato non è certo chiudere un ciclo, visto che le profonde ristrutturazioni che ha operato a tutti i livelli hanno già nei fatti chiuso le contraddizioni specifiche degli anni ’70.
Il problema è usare un’esperienza che si è fatta scienza del controllo nel modo più efficace contro il riprodursi dell’opposizione ad ogni livello di espressione della classe. In questo senso lo stato ha immediatamente iscritto un’operazione come questa dentro il suo progetto più complessivo di rifondazione della politica (riforma istituzionale, nuovo codice, ecc.), dando il via libera e riesumando per l’occasione vecchi cadaveri della politica di stato, mass media e staff di esperti, politologi, giuristi, ecc., attivando un dibattito teso al rafforzamento del suo volto «democratico»:
- Riconoscimento dell’autorità dello stato imperialista «mediatore» dello scontro di classe.
- Attacco alla soggettività rivoluzionaria: cancellare cioè la possibilità, l’idea stessa della rottura rivoluzionaria, senza appelli distruggendone l’identità.
- Creare un terreno di assorbimento per quei movimenti che esprimono contenuti politici in cerca di una propria identità rivoluzionaria e dei possibili punti critici di rottura. Identità e contenuti di rottura che vivono già in embrione cercando di impedire così che essi individuino le possibilità reali e il loro terreno di comunicazione rivoluzionaria, offuscando la critica con l’ideologia della sconfitta e con l’unicità del messaggio che esprime in maniera martellante l’impossibilità del cambiamento rivoluzionario.
- Giocare immediatamente a livello internazionale, quindi nella reale dimensione dello scontro, la capacità di governare le contraddizioni anche al livello più alto, quello imposto dalla guerriglia.
- Prevenire l’estendersi di contraddizioni i cui effetti, proprio per la natura dello scontro immediatamente internazionale, vedrebbero il progressivo integrarsi dell’esperienza rivoluzionaria italiana nell’esperienza europea e mondiale – quindi molto meno governabile.
Abbiamo parlato di operazione a «largo raggio» perché in quest’anno abbiamo verificato come intorno alla proposta iniziale si sia attivato il successivo adeguamento, in forme diverse, di più componenti del composito mondo dei prigionieri politici: trattativa/amnistia/rifondazione della sinistra.
Non vogliamo entrare nel merito di un dibattito che non ci appartiene e che riteniamo, nel migliore dei casi (rifondazione della sinistra) fuorviante per il movimento rivoluzionario italiano. Ci preme soprattutto rilevare come lo stato non si accontenti mai di una sola vittoria ma che voglia andare fino in fondo: fare arretrare complessivamente il dibattito rivoluzionario, distogliendo l’attenzione dai problemi reali dello scontro oggi e ricacciandoli indietro di trent’anni… altro che «liberazione degli anni ’70»!
Riteniamo che, se mai sono esistiti in fasi precedenti, oggi più che mai non esistono spazi politici, momenti neutrali nello scontro in cui azzerare il rapporto di guerra che genera tutti i rapporti sociali. Riteniamo che questa operazione nel suo complesso e le articolazioni che vuole esprimere siano di natura profondamente controrivoluzionaria e che vadano svelate in ogni ambito nel dibattito rivoluzionario in cui vengono «infiltrate» idee infami mascherate per «buon senso» o, peggio ancora, «senso della realtà».
Nella tendenza alla rivoluzione costruire i fronti rivoluzionari
Affermare il nostro punto di vista non basta. Con la guerriglia deve affermarsi il punto di vista della rivoluzione qui nel centro imperialista. E’ qui che, affondando le sue radici nella lotta di classe del proletariato metropolitano, sta prendendo forza la consapevolezza che l’unica possibilità di squarciare la realtà alienata della metropoli è quella di rifiutarla nella sua totalità, senza tappe intermedie in cui è possibile stabilizzare le conquiste della classe, ma andando sempre più a fondo; attaccando e smascherando tutti i volti dell’imperialismo che per i proletari della metropoli significa la realtà dell’alienazione in tutte le sue articolazioni.
La nostra esperienza rivoluzionaria e la nostra identità guerrigliera sono parte integrante di questa consapevolezza, ma lo abbiamo anche imparato da tutte quelle esperienze rivoluzionarie del mondo dominato dall’imperialismo che pur essendo riuscite a mettere in discussione uno degli aspetti del dominio, il potere politico-militare, ora continuano a subirne gli aspetti più devastanti, fino ad essere costretti a rivedere il contenuto stesso di liberazione che li aveva animati. Questa è forse la crisi di maturazione più grossa che la rivoluzione a livello globale sta attraversando.
Siamo consapevoli che solo mettendo all’ordine del giorno la necessità/possibilità di trasformazione radicale di tutti i rapporti sociali nel centro dell’imperialismo si possa dare avvio ad un processo dialettico di confluenza delle più diverse pratiche rivoluzionarie, anche dei paesi del sud del mondo, cioé la possibilità di superare le strettoie imposte dall’accerchiamento imperialista e di sconfiggere l’imposizione della parzialità delle trasformazioni sociali o il loro arretramento. Confluire verso un’unica direttrice: liberare energia trasformatrice dell’uomo a livello mondiale premessa di uno scambio tra eguali tra uomini liberi ed integri.
Lo sviluppo in Europa del fronte rivoluzionario ha individuato il terreno possibile di avanzamento per tutti: la consapevolezza cioè che, nella tendenza alla rivoluzione del proletariato mondiale, guerriglia e lotte di liberazione si muovono all’interno di un unico fronte e sono la base di partenza per lo sviluppo di una strategia che abbia come obiettivo ultimo la distruzione del sistema imperialista globale.
Avanzamento per tutti perché:
– orientando strategicamente il processo rivoluzionario nella distruzione dell’imperialismo, individua possibilità reali per la costruzione di un processo unitario in cui ognuno, partendo dalla propria posizione specifica, con la propria identità soggettiva e storica, abbia come prospettiva il cambiamento rivoluzionario, il superamento di questo modo di produzione avviando concretamente la transizione al comunismo. Un grande processo unitario che si muove e si sviluppa nei «poli omogenei» per qualità di contraddizioni che esprimono: sia «oggettivamente» per l’integrazione raggiunta dal capitale nel suo complesso (politico-economico-militare, di eleborazione di strategia di controllo sociale…) nell’area europea occidentale e per l’unitarietà di condizioni di esistenza e di scontro vissute dal proletariato e dai suoi movimenti; sia «soggettivamente» per il salto di qualità e consapevolezza espresso dalle esperienze guerrigliere che hanno assunto e imposto questa dimensione dello scontro.
– Concentrando nel contenuto unificante dell’antimperialismo la critica rivoluzionaria si apre la possibilità di affrontare l’imperialismo nella sua complessità, superando il ruolo che gli si è affidato riduttivamente finora quale « politica generale di tendenza alla guerra» separata dalle contraddizioni reali sulle quali si sviluppa la lotta di classe.
L’imperialismo è lo sviluppo del capitalismo in questa epoca e la lotta antimperialista è critica globale a questo sviluppo.
– Definendo l’imperialismo come salto del dominio reale, come struttura dei rapporti sociali capitalistici che lottano per la loro stessa riproduzione in modo contraddittorio per definizione, perché strutturati sul rapporto di guerra che vive al loro interno, si individua il processo di costruzione di un fronte di classe (coscienza rivoluzionaria della classe per sé) come processo di unità nella lotta, all’interno della metropoli imperialista. Un fronte delle lotte che pur muovendosi con forme, tempi e gradi di consapevolezza diversi hanno una base comune di partenza e un comune punto d’arrivo: rovesciare questa struttura di rapporti sociali, favorendo così lo sviluppo di un campo della comunicazione rivoluzionaria tra le diverse esperienze, legate ed unificate dalla qualità della critica sociale liberando una scienza della trasformazione che ricompone la classe e rimodella il rapporto tra uomo e natura.
– Dando vita ad un processo rivoluzionario che nel momento stesso in cui si anima e si esprime, lega le ragioni sociali del proletariato metropolitano alle condizioni di oppressione e di sfruttamento del proletariato internazionale: un processo in cui la coscienza di classe è coscienza immediatamente internazionalista.
Il quadro delle contraddizioni è oggettivamente maturo anche in Italia per dare vita ad un processo rivoluzionario fondato sulla dimensione immediatamente internazionale dello scontro, ma non ancora si è reso «soggettivamente» esplicito per la guerriglia e i movimenti rivoluzionari italiani.
Consapevolezza critica e unità devono colmare i ritardi
La nostra debolezza non è misurabile negli avanzamenti dello stato, nelle sue vittorie politico-militari che hanno fortemente ridimensionato la guerriglia, non è misurabile nell’indubbia capacità di intervento a più livelli nella complessità sociale che sta dimostrando di saper mettere in campo muovendosi per linee interne alla classe, governando e prevenendo le contraddizioni.
L’indebolimento e il disorientamento vanno ricercati innanzitutto guardando al nostro interno.
Negli anni ’80 sono venute meno tutte le condizioni su cui credevamo fosse ancora possibile costruire la strategia del processo rivoluzionario «in questo paese» (staccare l’anello debole, presa del potere politico, centralità della classe operaia). Nella dimensione assolutizzante della «politica rivoluzionaria» a fronte delle prime battaglie perse, la guerriglia italiana non ha voluto o saputo guardarsi dentro per trovare la forza di rompere i propri orizzonti, i propri confini ideologici e organizzativi. Ha quasi sempre scelto la strada dell’autoconservazione, trascinando nei propri limiti anche quei movimenti che lungo tutto il corso degli anni ’80 hanno tentato di riorganizzarsi a partire dalle nuove condizioni di scontro, caratterizzandosi sia come movimenti di lotta antimperialista che come movimenti di resistenza alla ristrutturazione della metropoli integrata. Inevitabilmente si è approfondita la divaricazione tra avanguardia e classe, evidenziando una crisi di progettualità così profonda da non riuscire più ad individuare il proprio referente di classe, il soggetto della rivoluzione nella metropoli.
Una caduta verticale di identità che anche all’interno dei prigionieri comunisti ha aperto lacerazioni profonde. Anche qui l’assolutizzazione della «politica rivoluzionaria» come coscienza esterna, linea di costruzione del partito, ha prodotto una costante delega dei soggetti imprigionati (ostaggi dello stato) alla soggettività che pensava, agiva, viveva fuori dal carcere, separando ulteriormente la lotta dalla linea politica, indebolendo l’autonomia e la consapevolezza dei militanti prigionieri. Il rifiuto del carcere imperialista, la lotta contro le strategie della differenziazione e della disarticolazione messe in atto in questi anni dallo stato, si è ridotta a resistenza individuale nel migliore dei casi. D’altra parte si è invece assolutizzato il carcere imperialista come terreno specifico di lotta di un settore di classe (il proletariato prigioniero) di cui i prigionieri comunisti costituivano l’avanguardia. Anche in questo caso, a fronte delle strategie di normalizzazione e controllo avviate, la lotta finalizzata e settorializzata è ridotta a resistenza.
Diversi modi di concepire il carcere imperialista che sono determinanti per il permanere del settarismo, della divisione ideologica, dello scontro su concezioni e impianto che rischiano di far perdere il senso, il cuore della militanza rivoluzionaria. Per noi prigionieri comunisti più che mai la parola d’ordine deve essere unità nella lotta e nella chiarezza degli obiettivi, in altre parole dobbiamo guidare la ricomposizione della nostra identità nell’assunzione del livello di scontro che si sta aprendo a tutti i livelli. Obiettivo comune all’intero movimento rivoluzionario.
Costruiamo il fronte di lotta guerriglia /movimento rivoluzionario/prigionieri comunisti. Abbiamo parlato di ritardi che non nascondiamo perché già contengono il segno del superamento.
Anche per noi ha assunto assoluta priorità la contraddizione borghesia imperialista/proletariato internazionale, rimodellando complessivamente la concezione della guerriglia. Una priorità che vive ancora in modo contraddittorio perché esprime la profondità e la radicalità del salto di maturazione in atto, e non solo perché si è trattato di rivoluzionare il nostro impianto, ma perché deve riuscire ad affondare le sue radici dentro un sapere rivoluzionario costruito da contenuti viventi del proletariato in lotta.
Dobbiamo trasformare l’assunzione di questa priorità in progetto rivoluzionario in grado di orientare e rafforzare lo scontro di classe, individuando i passaggi necessari e valorizzando il patrimonio di esperienze che già esistono. Queste le coordinate:
– la guerriglia è una conquista irrinunciabile all’interno delle lotte rivoluzionarie in Italia, non ha bisogno di rilegittimarsi rincorrendo la realtà contraddittoria dei movimenti in questa fase. Ha il compito invece di aprire all’intero movimento rivoluzionario italiano la prospettiva di un processo rivoluzionario interno alla strategia di fronte rivoluzionario.
– Un orientamento strategico che nella realtà dello scontro oggi individua la necessità di costruire un fronte di lotta in cui guerriglia/movimenti rivoluzionari/prigionieri comunisti, trovano i possibili momenti di unità nella critica all’ imperialismo, alle sue articolazioni nella nostra realtà. Momenti che non devono significare l’appiattimento dei contenuti, men che meno delle forme di espressione.
– L’apertura di un confronto serrato all’interno del movimento rivoluzionario italiano con l’obiettivo di rompere l’accerchiamento politico e ideologico cui è sottoposto da anni, espropriato di finalità proprie e contenuti di rottura da un sistema sofisticato di assorbimento. Conquistare cioè il senso rivoluzionario delle lotte che faticosamente sta esprimendo. In altre parole si tratta di rompere il limite di compatibilità che le vorrebbe tutte riconducibili all’interno di un antagonismo «pilotato», controllabile.
Ci sembra che il limite più grosso sia l’incapacità di trovare il filo conduttore che lega la critica rivoluzionaria a tutti gli aspetti dell’alienazione e dello sfruttamento nelle metropoli.
La critica alla scienza, al lavoro, alla produzione nociva, al ruolo dei centri di ricerca, alle università integrate nei processi di valorizzazione capitalistico, al nucleare, allo squilibrio uomo-natura, che pure sono passaggi concreti di presa di coscienza, deve riuscire a fare emergere la complessità anche nella particolarità della lotta ad un aspetto del dominio (settoriale).
Non si tratta solo della forma d’espressione, ma della qualità e della profondità della critica che sorregge la pratica.
Legare dunque in un’unica direttrice la critica: quella all’imperialismo come massima espressione del dominio del capitale in questa fase, nella lunga marcia dello sviluppo della coscienza e della pratica del movimento rivoluzionario italiano.
Sviluppare la coscienza critica antimperialista nel processo rivoluzionario mondiale.
Prigioniere comuniste per la guerriglia metropolitana
Aurora Betti, Ada Negroni, Teresa Romeo, Marina Sarnelli
Voghera, settembre 1987