Siamo compagni della guerriglia, prigionieri nel «Blocco B» del carcere speciale di Novara.
Prendiamo la parola in quanto parte attiva del movimento rivoluzionario, intorno ad alcune questioni oggi decisive nel suo dibattito.
Già da alcuni mesi il movimento si trova di fronte ad un’operazione politica centrata sulla parola d’ordine «liberiamo gli anni ’70». A farsene portavoce sono alcuni prigionieri che hanno militato nelle Brigate Rosse. Attorno ad essi si è messo in moto il solito collaudato meccanismo: incontri con esponenti politici democristiani, socialisti, radicali, lettere aperte, interviste, tabelline di sconto pena preparate dai centri giuridici dei partiti, la mobilitazione del ceto politico da anni parassita sul movimento, promozione di assemblee, preparazione di fumose campagne per la cosiddetta «battaglia per la libertà»…
Ma qual è il senso di tutto ciò? E soprattutto quali gli obiettivi e quale la regia?
Cosa si intende per «liberazione degli anni ’70» è detto a chiare lettere: «si tratta di chiudere un ciclo, di esplicitare che la guerra è finita».
L’obiettivo dichiarato attorno a cui Curcio e Moretti hanno aggregato una discreta area di prigionieri è quello di sfruttare la disponibilità di stato e partiti a prendere in considerazione i destini di tutti quei prigionieri che si distaccano dalla militanza rivoluzionaria e si fanno portatori di un messaggio pacificatorio.
Curcio, Moretti e soci si sono convinti che lo stato starebbe rifondando i suoi dispositivi e le sue politiche di controllo sociale in senso «riformista» e che questo aprirebbe le porte ad una trattativa. La soluzione politica sarebbe realizzabile perché funzionale al rafforzamento di questa rifondazione del controllo sociale oggi in Italia.
È chiaro che Curcio, Moretti e tutti i loro soci, dal primo all’ultimo, sanno benissimo che sul tavolo di questa trattativa loro possono far valere solo la presunzione di riuscire a veicolare e ad imporre questo terreno all’interno del dibattito rivoluzionario: tra i prigionieri, nel movimento antagonista e nelle stesse forze guerrigliere.
Un’operazione che produrrebbe inevitabilmente un ennesimo stravolgimento del tessuto di solidarietà e di comunicazione, delle discriminanti di classe, dei contenuti di lotta che costituiscono l’esistere concreto del movimento rivoluzionario.
Lo sanno benissimo, e sono disposti a tutto ciò pur di guadagnarsi uno spiraglio di scarcerazione e uno spazio nello scenario politico borghese.
Per questo la loro iniziativa è una scelta di collaborazione, per quanto in guanti bianchi, con lo stato.
Che la regia che muove tutta questa operazione non sia loro, ma saldamente in mano allo stato, è fuori da ogni dubbio.
È lo stato infatti che non solo possiede le chiavi che sono l’ambìto premio dei nuovi soluzionisti, ma che, inoltre, avendoli agganciati al suo carro, può determinare ogni piega del contesto entro cui questa gente si muove.
E per stato intendiamo esattamente quel personale, quelle istituzioni e quelle politiche che concretizzano l’«interesse generale» del sistema sociale capitalistico.
Le posizioni di Curcio e Moretti erano chiare da tempo, erano da anni fuori da ogni dibattito. I loro traffici e i loro contatti con personaggi delle cricche democristiane duravano da tempo. Ma solo quando lo stato ha deciso di fare di questi loschi e un po’ miserabili maneggi una vera e propria operazione controrivoluzionaria, la loro «battaglia di libertà» ha preso slancio politico.
Da anni all’interno delle strategie di annientamento delle forze rivoluzionarie è divenuta stabile la ricerca e la pressione per condurre singole persone e interi gruppi di prigionieri a farsi «interlocutori dello stato» in una varietà di posizioni, dalla delazione alla disponibilità a propagandare il punto di vista e gli interessi della «pacificazione imperialista».
Una strategia di questo tipo può espandere i suoi effetti unicamente sfruttando le contraddizioni e i limiti presenti nel movimento rivoluzionario per inserirvisi e renderli laceranti.
In questo senso la natura generale della cosiddetta «battaglia di libertà» va ricercata nel quadro di quelle operazioni di infiltrazione ideologica funzionali all’attacco per linee interne al movimento rivoluzionario.
L’attacco per linee interne non nasce oggi. È una dinamica permanente che cerca di volta in volta una traduzione congiunturale rispetto agli specifici caratteri dello scontro. È componente stabile delle strategie controrivoluzionarie.
È nell’attuazione di queste dinamiche che lo stato ha determinato e imposto il terreno e i termini politici di questa operazione. Ne ha costruito le condizioni manovrando la composizione dei prigionieri nelle carceri, l’organizzazione di incontri e interviste, l’attivazione dei media, promuovendo l’integrazione delle iniziative e degli «interessi particolari» delle varie frazioni borghesi.
Ma prima di proseguire nell’analisi dell’iniziativa controrivoluzionaria in questa fase dello scontro di classe in Italia, è importante fare un sintetico riferimento ad un contesto più ampio in cui essa trova origine.
L’intero sistema imperialista è attraversato da processi di ristrutturazione globale: sul terreno economico per la rideterminazione di una nuova divisione tecnica e sociale del lavoro, sul terreno politico per la rifondazione del sistema degli stati imperialisti, sul terreno delle strategie e pratiche di guerra per l’imposizione di un «nuovo ordine imperialista».
Processi generati dal tentativo di uscire dalla crisi di valorizzazione del capitale con l’approfondimento ed estensione del rapporto di sfruttamento capitalistico. Si ridisegna così su scala sovranazionale – e anche in Italia – il quadro dello scontro di classe, producendo nuove e più profonde contraddizioni.
Attorno a questi nuovi processi infatti si sono sviluppati significativi movimenti di lotta dai caratteri internazionalisti e antimperialisti che stanno toccando ogni angolo del pianeta – dal Centroamerica al Sud-Est Asiatico, dal Medio Oriente all’Africa Australe… all’Europa Occidentale.
In particolare nell’area mediterranea e nel polo europeo si è sviluppata l’esperienza delle campagne antimperialiste della guerriglia e dei movimenti di lotta in Europa Ovest e della guerriglia e dei movimenti di liberazione del proletariato rivoluzionario e delle componenti nazionali arabe.
La realtà italiana è attraversata direttamente dalle nuove dinamiche e contraddizioni del sistema imperialista. Sono i processi di stretta integrazione del capitale e dello stato italiano nel sistema imperialista, i nuovi ruoli che essi svolgono all’interno dell’area europea e mediterranea che impongono nuovi livelli di controllo e gestione delle contraddizioni di classe.
In questo contesto diventa fondamentale per lo stato sviluppare un’azione preventiva tesa a spezzare ed impedire il processo di rifondazione del movimento rivoluzionario in Italia attorno a questa nuova dimensione internazionale ed antimperialista dello scontro.
È così che nasce una rinnovata iniziativa di controrivoluzione preventiva che si è dispiegata in particolare quest’anno articolandosi, come è caratteristica ormai stabile di questo tipo di operazione, su due piani: uno di repressione e annientamento diretto, l’altro di infiltrazione ideologica finalizzata alla reintegrazione dei contenuti e delle esperienze più avanzate del movimento rivoluzionario.
L’aspetto repressivo si è sviluppato in più direttrici: contro le organizzazioni guerrigliere, contro il movimento, contro i prigionieri.
L’iniziativa antiguerriglia ha segnato un salto di qualità nel nuovo livello di integrazione e coordinamento sovranazionale fra gli stati imperialisti contro il «terrorismo internazionale» in cui l’Italia ha assunto un ruolo di capofila. Le principali operazioni sono state attuate così – per la prima volta – da unità operative e di intelligence congiunte tra Italia e Francia senza problemi di confini e di legislazioni differenti.
Intanto da mesi carabinieri, UCIGOS e magistratura sono impegnati a colpire ogni area e centro di comunicazione di movimento che non accetti la «pacificazione di stato». Il carattere politicamente mirato e contemporaneamente il suo raggio d’azione nazionale segnano un nuovo livello stabile delle strategie di controllo e «desertificazione» del movimento.
Contro i prigionieri, infine, un nuovo livello di pressione e di controllo si è aperto e sviluppato in crescendo nell’arco di un anno attraverso la legge Gozzini, la reimposizione della censura generalizzata, il taglio e la selezione dei colloqui e dei rapporti con l’esterno, con la integrazione delle misure e del trattamento all’interno delle direttive del Comitato Interministeriale per la Sicurezza.
L’altra faccia di questa iniziativa a largo raggio è costituita da quella vera e propria operazione di infiltrazione ideologica che è la cosiddetta «liberazione degli anni ’70».
Prima di entrare nel merito del contenuto specifico di questa «battaglia di libertà» è utile completare il quadro dei riferimenti guardando sinteticamente alle esperienze di soluzione politica della guerriglia attuate da altri stati imperialisti.
È un terreno di connessione che ci mette in grado di analizzare compiutamente la collocazione di questa ennesima iniziativa soluzionista nella complessità delle pratiche controinsurrezionali degli stati imperialisti.
È bene ricordare che le prime esperienze significative nell’affiancare alla pura repressione dispositivi di soluzione politica in funzione preventiva furono attuate negli USA nella prima metà degli anni ’70 contro le organizzazioni rivoluzionarie e guerrigliere delle Black Panthers e dei Weatherman.
In RFT a più riprese l’iniziativa antiguerriglia negli anni ’70 si è incentrata anche sull’utilizzo di singole figure di ex guerriglieri tipo Mahler, Baumann o Klein che si prestavano a lanciare messaggi di rifiuto della lotta armata. Nell’84 invece attorno a Schneider e Wackernagel ci fu il tentativo più grosso di costruire un’area di prigionieri disponibili ad una trattativa con lo stato mascherata da amnistia.
In Spagna la trattativa per la resa e deposizione delle armi di un’ala dell’ETA politico-militare in cambio di una amnistia è durata all’incirca dall’80 all’84 e portò alla distruzione e dispersione politica delle aree investite da questa iniziativa.
Dovunque insomma il terreno della trattativa per la soluzione politica costruita e giustificata nel ricatto sui prigionieri si è rivelato per quello che è: controrivoluzione preventiva per la distruzione e dispersione del patrimonio e delle aggregazioni rivoluzionarie. Dovunque le componenti rivoluzionarie più consapevoli hanno lottato contro di essa.
a torniamo ai contenuti e alle caratteristiche specifiche di questa «battaglia di libertà». Per coglierli nella loro pienezza bisognerà necessariamente distinguere i diversi ambiti in cui essi si riflettono: verso la guerriglia, verso il movimento rivoluzionario e verso lo scontro sociale in generale.
Questo progetto nasce dopo l’esaurimento delle operazioni di dissociazione avviate dal ’79 in poi (gruppo «7 Aprile», Prima Linea, Franceschiniani).
Rispetto ad esse stabilisce un nesso di continuità e di superamento.
Come i dissociati anche i neo-soluzionisti blaterano di «esaurimento delle ragioni sociali» che hanno permesso la nascita e lo sviluppo della guerriglia in Italia.
A differenza di Negri, Bignami e Franceschini, Curcio e soci si affannano a dire che rifiutano il terreno formale dell’abiura per attestarsi su quello della difesa della loro storia ormai conclusa.
Ancora, i neo-soluzionisti a differenza dei dissociati non vogliono rimanere intrappolati nella dimensione di risocializzazione carceraria come terreno principale di lealizzazione.
Il loro tentativo è quello di agganciare segmenti di movimento proletario e di guerriglia alla politica soluzionista. Ed è su questo terreno che sono da subito chiamati a dimostrare la loro affidabilità.
Pretendendo di parlare direttamente al movimento rivoluzionario e all’area della guerriglia devono necessariamente darsi contenuti e linguaggi meno rozzi del «rifiuto della politica» che caratterizzava l’altra infornata di porci collaboratori.
Rispetto alla guerriglia questo progetto, facendo leva sul ricatto delle condizioni dei prigionieri e sulle contraddizioni e limiti esistenti, deve riuscire a veicolare i punti di vista del disfattismo e della resa. Curcio, Moretti e l’accozzaglia che li circonda e li protegge vogliono porsi come depositari esclusivi dell’esperienza storica delle Brigate Rosse per rappresentarne la resa.
Una rappresentazione sintetizzata nel messaggio «prendere atto che la Lotta Armata è stata una manifestazione reale delle contraddizioni di classe in questo paese, accettare un criterio di responsabilizzazione collettiva e infine ammettere che quello scontro è finito», e che dovrebbe trovare legittimazione nell’agitare la parola d’ordine «libertà per i prigionieri degli anni ’70».
La valenza politica di «delegittimazione» delle aree di guerriglia esistenti è perfettamente sintetizzata dal Manifesto, il portavoce privilegiato di tutte le campagne di dissociazione e soluzione politica, che così commentava i vari interventi che hanno fatto eco a quello di Curcio e Moretti: «depongono e fanno deporre le armi, delegittimano senza urli e condanne ma con un giudizio politico impietoso i residui frammenti esterni».
È evidente pure come nel contesto attuale dello scontro rivoluzionario in Europa Occidentale la rappresentazione della resa delle Brigate Rosse pretenda di proiettare il suo messaggio delegittimante verso le attuali esperienze guerrigliere di quest’area; non a caso è continuo il riferimento dei neo-soluzionisti alle «mutate condizioni internazionali».
Riguardo al movimento di lotta e comunicazione antagonista che sta lentamente crescendo in questi ultimi anni, essi premono affinché l’attenzione si concentri sul contenuto mistificante della loro iniziativa. Agitano la «bandiera degli anni ’70» svuotando quella esperienza del contenuto strategico che può rafforzare la lotta rivoluzionaria oggi. Così in realtà essi propongono solo un terreno alienante di introiezione perpetua di errori e sconfitte ostacolando il consolidamento e l’avanzamento del confronto attorno alle questioni fondamentali che seguono le nuove determinazioni dello scontro rivoluzionario. In ciò danno spazio a quel ceto politico che della endemizzazione delle pratiche di movimento e della loro gestione come rappresentanza ufficiale ha fatto la sua strategia ed il suo ruolo parassitario, e che oggi, non a caso, ha immediatamente assunto e fatto proprio questo dibattito.
Infine è chiaro anche come, verso lo scontro sociale in generale, questa ennesima soluzione politica si presti a farsi gestire dai più svariati operatori politici e culturali come esempio lampante della validità di quei contenuti di «lealismo», di «trattamento differenziato», di «individualizzazione», di «premi-punizioni» che sono il cuore delle strategie di controllo e dello stesso codice capitalistico nelle fabbriche, nei quartieri, nelle carceri delle metropoli.
Come abbiamo visto, l’obiettivo di questa operazione è il presente, non il passato. È il ciclo rivoluzionario che si sta aprendo, non quello che si dice si sia chiuso.
Questa operazione è una trappola tesa ad un movimento rivoluzionario che si sta rifondando, in una fase in cui cerca di superare limiti e contraddizioni del passato e inizia a maturare, anche se con difficoltà, una nuova consapevolezza e una nuova pratica.
Per questa ragione, con questa operazione e i suoi protagonisti non è possibile alcuna complicità, nessuna ambiguità, nessuna tolleranza, l’unico terreno concepibile è quello della lotta.
Affrontare questa questione per noi è tutt’altro che dialettizzarsi con essa, non esistono spazi per una sua «riconversione di sinistra». In questa ottica si può solo rimanere imbottigliati in una subalternità suicida.
Lotta significa in primo luogo contribuire a chiarire nel movimento rivoluzionario il senso, gli obiettivi e la natura di classe di questo attacco ed il ruolo dei suoi protagonisti. Per espellere quindi questa operazione ed i soggetti che se ne fanno portatori da ogni ambito del movimento rivoluzionario.
In secondo luogo significa contribuire a rafforzare quegli elementi di nuova acquisizione che in questo ultimo periodo sono emersi sia a causa dell’impatto delle nuove determinazioni dello scontro rivoluzionario sia per il riferimento che hanno costituito l’iniziativa e le proposte della guerriglia e dei movimenti più significativi espressisi in Europa.
In questi ultimi anni hanno cominciato a condensarsi nell’area della guerriglia elementi di riflessione e di dibattito intorno alla messa in discussione dei limiti di impianto della pratica passata per una ridefinizione della strategia guerrigliera nelle nuove condizioni dello scontro rivoluzionario.
In questo periodo è anche sensibilmente cresciuta la mobilitazione e le iniziative di lotta antagonista attorno alle contraddizioni strategiche che caratterizzano questa fase dello scontro: i processi di guerra, il ruolo giocato dall’innovazione tecnologica e dalla produzione di ricerca scientifica nei processi di ristrutturazione ed intensificazione dello sfruttamento, il complesso militare-industriale, il nucleare, ecc.
E, ancora, è vissuta nella più recente esperienza del movimento rivoluzionario una tensione sempre più forte a ricercare supporti, nuovi livelli di comunicazione, terreni di lotta comune a livello internazionale: a collocare cioè la propria lotta all’interno del quadro di scontro dell’intera area europea e mediterranea.
Dai primi momenti di pratica offensiva e di mobilitazione nelle nuove condizioni dello scontro che hanno avuto significativo sviluppo dall’inizio di quest’anno, in particolare attorno al «Vertice dei 7», in diversi poli metropolitani, si avverte sempre più la possibilità di dare una nuova dimensione progettuale rivoluzionaria a queste iniziative.
Rafforzare gli elementi nuovi emergenti nel processo rivoluzionario significa da qui in poi sviluppare confronto e dibattito unitario intorno a questi nodi così da costruire una più organica consapevolezza collettiva adeguata a sostenere l’ulteriore avanzamento del concreto processo e pratica rivoluzionaria che abbiamo di fronte.
Un dibattito ed una pratica di lotta in primo luogo intorno alla necessità di superare un’analisi dell’imperialismo come «politica generale», separata dal concreto quadro di contraddizioni su cui si sviluppa la lotta di classe.
La critica all’imperialismo deve essere la critica al capitalismo di quest’epoca: i processi di integrazione su scala internazionale di tutte le determinazioni fondamentali della produzione capitalistica, i processi di concentrazione capitalistica su scala planetaria, il ruolo investito dalla innovazione tecnologica e dalla informatizzazione nei processi produttivi, la sussunzione totale della produzione scientifica alle ragioni del capitale, l’aver funzionalizzato alle proprie leggi e alle proprie esigenze ogni ambito e struttura sociale… Tutto ciò esprime una nuova dimensione qualitativa dell’imperialismo moderno ed esige quindi un adeguamento della critica rivoluzionaria ad esso.
Ne deriva che le dinamiche della crisi e i processi di ristrutturazione della produzione capitalistica, le loro strategie di regolazione, le determinazioni politiche e i processi di guerra, i rapporti di forza e i terreni su cui si condensano acquistano una dimensione di carattere globale.
Il quadro delle contraddizioni di classe è fortemente segnato da questa dimensione internazionale: in parte sono già direttamente espressione di questa dinamica sovranazionale o ne sono comunque fortemente influenzate.
Ciò significa che una prospettiva rivoluzionaria deve riuscire a comprendere e definire termini e contenuto di un percorso di emancipazione dal dominio-sfruttamento capitalistico di ogni attività umana; deve misurarsi concretamente come orizzonte strategico e come direzione e carattere internazionale della lotta. Deve cioè riuscire a concretizzare una strategia capace di porsi come referente di classe, come obiettivi di lotta, come prospettiva a queste condizioni dello scontro.
Alla comprensione del quadro e caratteri dell’imperialismo con cui siamo costretti a misurarci si dovrà affiancare nel dibattito rivoluzionario e nella prassi una comprensione dei passaggi che abbiamo di fronte come premessa di concreto avanzamento dell’iniziativa rivoluzionaria.
Passaggi che potremmo sintetizzare con una «parola d’ordine» nata all’interno e nel vivo della ricca esperienza del movimento rivoluzionario tedesco di questi ultimi anni e che vogliamo raccogliere: lottare uniti!
Pensiamo che «lottare uniti» in questa fase delicata del movimento rivoluzionario italiano voglia dire misurarsi su alcuni nodi che ci permettono di fare un salto in avanti.
– Il primo è quello di riuscire ad individuare i terreni di lotta attorno ai quali concentrare come consapevolezza collettiva la mobilitazione e l’iniziativa rivoluzionaria in un processo organico che superi i livelli di frammentarietà. E questi terreni non possono che essere quegli obiettivi di lotta che condensano i rapporti di forza su scala internazionale e globale che scaturiscono dalle dinamiche di integrazione capitalistica: la guerra imperialista, la ristrutturazione dei processi produttivi e dell’insieme della formazione sociale, il ruolo dell’informatizzazione e dell’innovazione tecnologica in entrambi.
– In secondo luogo nel costruire le nostre lotte e le nostre iniziative nel quadro dei movimenti di lotta, della guerriglia europea e della lotta antimperialista nell’area mediterranea. Si tratta di ricostruire l’iniziativa rivoluzionaria e il movimento stesso all’interno del confronto, della comunicazione e del coordinamento resi possibili dalla qualità omogenea presente nei processi rivoluzionari nel polo europeo, nell’area mediterranea e nel quadro complessivo dello scontro mondiale.
– E ancora, questa nuova qualità dello scontro pone immediatamente ogni processo di lotta, ogni sua determinazione di fronte alla contraddizione globale prodotta dal dominio imperialista ed è costretta a prenderne consapevolezza, se non vuole essere distrutta come identità antagonista dai meccanismi di integrazione e annientamento che tale rapporto produce. Questa è la base che permette di costruire e sviluppare una nuova dialettica tra i diversi livelli di espressione dell’iniziativa rivoluzionaria (guerriglia, lotta antagonista e mobilitazione di massa) in un processo unitario che non appiattisca i diversi gradi di consapevolezza e progettualità, ma li riconnetta in un quadro unitario di lotta.
– All’interno di questo quadro infine l’esperienza italiana potrà portare avanti quel processo di riqualificazione della prospettiva e dell’iniziativa rivoluzionaria e, al suo interno, della guerriglia come progetto strategico; individuando sempre più anche i processi pratici di rifondazione sulla base delle nuove condizioni dello scontro rivoluzionario oggi.
Ci sembra siano questi alcuni attuali passaggi di un dibattito possibile nel movimento italiano oggi, per una ripresa rivoluzionaria che segni un avanzamento nella lotta, nella coscienza e nell’organizzazione. Per contribuire attivamente alla definizione di una strategia rivoluzionaria internazionale, per essere frazione dello scontro mondiale.
Questo è il senso, questo vuol dire secondo noi imparare a lottare uniti oggi.
Questo è anche il senso in cui si muovono le esperienze rivoluzionarie più significative in Europa occidentale, e la proposta di costruzione del fronte rivoluzionario come unità del processo rivoluzionario in questa area, come unità – nel differente spessore che esprimono – della guerriglia, del movimento e dei prigionieri, come unità sui terreni strategici della lotta rivoluzionaria.
Noi, come prigionieri della guerriglia, come parte viva del movimento rivoluzionario, intendiamo dare il nostro contributo all’avanzamento del processo rivoluzionario e al confronto unitario che si sta sviluppando e si svilupperà nei prossimi mesi tra le forze rivoluzionarie per costruire assieme il nostro futuro.
Concretamente per noi significa:
– affrontare il terreno di lotta del carcere imperialista che in questa fase si sviluppa attorno alla lotta alla legge Gozzini, perno della strategia di differenziazione attuata contro i prigionieri.
– Lottare contro l’operazione controrivoluzionaria della «soluzione politica della lotta armata».
– Contribuire alla costruzione di questo dibattito unitario tra tutti i rivoluzionari e all’approfondimento dei temi strategici che esso ha di fronte.
Questi tre terreni si saldano in un unico contenuto costituendo il senso attorno a cui è possibile oggi sviluppare la militanza e identità rivoluzionaria dei prigionieri fuori da ogni logica riduttiva e settaria.
In questo nostro contributo si esprime già una precisa tensione in questa direzione condensando punti di vista ed esperienze anche diverse che in questa nuova qualità dello scontro riescono a realizzare un significativo momento unitario senza peraltro cadere in inutili appiattimenti.
Prigionieri Comunisti per la Guerriglia Metropolitana
Novara, agosto 1987