Come militanti delle Brigate Rosse abbiamo revocato i difensori non solo perché rifiutiamo il ruolo di imputati e non riconosciamo a questo tribunale, a questa “giustizia” che è espressione e garante del potere borghese alcuna legittimità, ma più specificamente non intendiamo essere partecipi dell’apoteosi della farsa che in specie questo processo celebra, perché è una “farsa” che è in realtà un vero e proprio atto politico di attacco alla nostra organizzazione, alle Brigate Rosse, a vent’anni di prassi combattente per il comunismo che rivendichiamo per intero nella sua attualità, e perciò ancora una volta affermiamo che solo l’organizzazione ha la legittimità storica e politica per prendere la parola sul carattere odierno dello scontro di classe sia politico che rivoluzionario, in quanto le Brigate Rosse di questo scontro sono parte attiva e direzione rivoluzionaria. Lasciamo alla “critica impietosa della storia” la collaborazione che ex militanti rivoluzionari offrono a questo attacco con il triste spettacolo di pornografia politica di chi mendica allo Stato, come squallidi mercanti intenti a litigarsi la improbabile “pelle dell’orso”; sono la prassi e la realtà concreta a stabilire il giusto primato, perciò chiariamo anche che le Brigate Rosse non hanno mai richiesto alcun “riconoscimento politico” allo Stato: – “una banda di comuni criminali” – è in questa definizione data dal pubblico ministero di questo processo, improntata alla migliore tradizione dell’“achtung banditen”, l’unico riconoscimento politico possibile dello Stato al suo mortale nemico, ci preoccuperemmo solo se non fosse così. La nostra organizzazione si è conquistata con la propria prassi politico-militare dentro lo scontro politico e rivoluzionario nel nostro paese, il ruolo di direzione e di organizzazione delle avanguardie rivoluzionarie della classe sul terreno strategico della conquista del potere politico; ed è questo riconoscimento, pur dentro le durissime condizioni determinate dalla controrivoluzione di questi anni, e nonostante gli attacchi concentrici tendenti all’annientamento, che ha impedito che si spezzasse quel filo organico che lega le Brigate Rosse alle componenti proletarie e rivoluzionarie vive nel paese, a quel tessuto di classe nel quale si sono originate e si riproducono costituendone l’avanguardia armata.
Non occorre quindi smascherare la funzione palese che storicamente è demandata al potere giudiziario, tanto aperta è la connivenza con il sistema dello sfruttamento e con lo Stato delle stragi antiproletarie. La borghesia imperialista, per la quale vitale è il monopolio della violenza, si assegna da sempre, assieme a sbirri e secondini, il ruolo di repressione nei confronti della classe e delle sue avanguardie, poiché, al di là delle mistificazioni, il rapporto che la borghesia instaura con le avanguardie rivoluzionarie è quello della guerra. Conseguentemente a ciò, e in quanto comunisti, abbiamo assunto apertamente questo rapporto, e in questo essenzialmente le Brigate Rosse si adeguano ai mutamenti che lo sviluppo dell’imperialismo uscito dal secondo conflitto mondiale ha posto in essere sia sul piano economico-sociale che storico-politico, rompendo anche con l’involuzione socialdemocratica dei partiti comunisti incapaci di far fronte ai livelli di scontro che la borghesia progressivamente impone al movimento di classe.
Le Brigate Rosse fin dall’inizio si sono costituite per far fronte globalmente al piano di scontro determinato dall’obiettivo rivoluzionario: l’abbattimento dello Stato borghese per la conquista del potere politico; la stretta unità del politico e del militare, pilastro inalienabile della guerriglia, unitamente ai criteri strategici di clandestinità e compartimentazione, pongono la classe operaia e il proletariato nella indispensabile condizione offensiva informando dall’inizio alla fine l’attività rivoluzionaria all’interno del complesso andamento del processo rivoluzionario.
La guerra di classe, che assume il carattere di processo di lunga durata e da questa concezione deve essere guidata, rappresenta il superamento pratico e teorico della strategia terzo-internazionalista e di quella anarco-sindacalista che la prassi ha mostrato essere inadeguata; la lotta armata per il comunismo si è venuta storicamente affermando come la strategia rivoluzionaria nell’attuale fase dell’imperialismo, non solo perché l’unica risposta possibile per parte proletaria alla crisi dell’imperialismo e allo sfruttamento, ma anche punto di unificazione più alto e necessario dell’autonomia di classe, ovvero la sua opzione di potere.
I mutamenti e gli assetti che lo sviluppo dell’imperialismo ha determinato a partire dalla struttura economica su quella sociale e politica degli Stati nel dopoguerra dentro il quadro più generale del bipolarismo sono: estensione mondiale del modo di produzione capitalistico; concentrazione e centralizzazione del capitale su base internazionale; internazionalizzazione della produzione e interdipendenza economica; polarizzazione estrema tra ricchezza e povertà con la concentrazione della prima, e quindi del potere, in un pugno di paesi del centro imperialista; polarizzazione tra le classi con il formarsi di una frazione dominante di borghesia imperialista integrata al capitale finanziario a dominanza USA e del proletariato metropolitano, da cui la diversa caratterizzazione delle forme di dominio e quindi del rapporto classe/Stato con l’affermarsi della controrivoluzione preventiva a fronte dei processi rivoluzionari e delle prime rotture operate. Sono questi i dati che hanno costituito il terreno oggettivo su cui si è misurata la soggettività rivoluzionaria e che hanno determinato la lotta armata come il modo di operare dell’avanguardia rivoluzionaria in queste condizioni e specificamente per il centro imperialista; il contesto dello scontro di classe in cui si è inserita, diverso da paese a paese, ne ha determinato invece le caratteristiche politiche e le particolarità di sviluppo. Per questo affermiamo che le ragioni della lotta armata in Italia non risiedono nel ciclo di lotte sviluppato dall’autonomia di classe a cavallo degli anni settanta, da qualità maturate dalle avanguardie operaie di quel periodo che ponevano all’ordine del giorno la questione del potere, un contesto questo che costituirà invece il terreno della specificità di sviluppo del processo rivoluzionario in Italia, caratterizzando la proposta strategica della lotta armata da parte dell’avanguardia rivoluzionaria alla classe. Operare un tale riduzionismo, oltre a declassare la funzione dell’avanguardia rivoluzionaria (della guerriglia) a mero prolungamento, a braccio armato, delle lotte di massa e la natura stessa dello scontro rivoluzionario ad un succedersi lineare di flussi e riflussi, si è poi rivelato il terreno di gestione degli esperti dell’antiguerriglia coadiuvati dagli ex militanti elevati al rango di collaborazionisti: questo stravolgimento politico della genesi e dell’esperienza delle Brigate Rosse che si tenta di operare, anche attraverso le varie forme di defezione dei prigionieri e degli ex militanti, ha fatto da battistrada e supporto politico alle operazioni dei servizi in questi due anni contro la nostra organizzazione, le avanguardie e i militanti rivoluzionari e, oltre che legittimare isolamenti e carcerazioni differenziate che durano da oltre un anno per gli arrestati, ha affiancato le provocazioni, la diffamazione e le false notizie diffuse ad arte dai servizi stessi, tese a screditare e spoliticizzare l’attività rivoluzionaria. Diciamo questo non certo per vittimismo, ma perché a ciascuno vadano i propri “meriti” e soprattutto per rendere chiaro che tutta questa attività è finalizzata a presentare la lotta armata come una questione di reduci e a rilanciare l’osceno copione della “soluzione politica” e dell’ “amnistia”, un piano che è tutto interno alla controrivoluzione degli anni ottanta, poiché l’annientamento della guerriglia e delle forze rivoluzionarie diviene preliminare e ineludibile al dispiegarsi della controrivoluzione su tutta la classe e quindi al consolidamento dei rapporti di forza in favore della borghesia.
Pacificare con l’annientamento e annientare attraverso la pacificazione: se da un lato è questo aspetto della controrivoluzione un classico delle leggi della guerra di classe – evidente nella sua applicazione tanto nei confronti della gloriosa lotta del popolo palestinese, quanto in Sudafrica, in Spagna, in Francia, in Salvador, come nei confronti della RAF in Germania – dall’altro assume caratteristiche proprie, forme e portata diversi in relazione a questa particolare fase storica.
La controrivoluzione preventiva è elemento intrinseco agli strumenti ed organismi della “democrazia rappresentativa” e risponde all’esigenza fondamentale di istituzionalizzare il conflitto di classe mantenendolo entro gli “steccati” della compatibilità borghese per non farlo collimare con il piano rivoluzionario. L’iniziativa rivoluzionaria, rompendo gli argini istituzionali, costringe la borghesia ad ampliare il piano della controrivoluzione, e questa dialettica rivoluzione/controrivoluzione informa tutto il processo rivoluzionario quale elemento che concorre a determinarne l’alternità dell’andamento oltre a misurarne l’approfondimento.
Controrivoluzione preventiva e controrivoluzione dello Stato si pongono su due piani distinti ma i rapporti di forza determinati dalla dinamica controrivoluzionaria, riversandosi sui rapporti politici generali tra le classi, rideterminano il carattere stesso della controrivoluzione preventiva poiché questa ne incorpora il dato di assestamento.
La borghesia imperialista adegua quindi il governo del conflitto di classe, la mediazione politica esistente tra le classi, ai caratteri che assume lo scontro (oltre che alle necessità del movimento dell’economia); nello specifico del nostro paese lo Stato si è confrontato in modo selettivo con il portato politico e strategico dello scontro rivoluzionario (che si è affermato in Italia) calibrando il proprio intervento sulla guerriglia, sul movimento rivoluzionario, sull’intera classe; su questo ha basato i termini della controrivoluzione degli anni ottanta, i cui effetti dispiegati sull’intero campo proletario generano il clima ed il terreno favorevole alle forzature ulteriori nei rapporti politici tra le classi.
Le esecuzioni sommarie (via Fracchia, ecc.) e le torture, la vicenda dei 61 e lo scontro alla Fiat, le stragi di Stato degli anni ottanta e lo smantellamento della scala mobile sono solo alcune delle tappe della controrivoluzione di questo decennio che hanno reso possibile, in questa fase, un ulteriore approfondimento delle forme di dominio della borghesia imperialista che si esprime nel progetto di rifunzionalizzazione dei poteri e degli istituti dello Stato, un progetto che se da un lato risponde alle esigenze dettate dall’evoluzione-crisi dell’imperialismo, di riassetto della sovrastruttura istituzionale, calibrato anche al ruolo e alla funzione che l’Italia riveste all’interno della catena e nei processi di coesione ed integrazione economica, politica e militare dell’Europa occidentale e dell’imperialismo, è dall’altro altrettanto improntato all’“anomalia italiana”, alla realtà dello scontro di classe che si è andato determinando nel paese ed alla sua qualità definita in primo luogo dall’esistenza e dall’iniziativa della guerriglia. La borghesia imperialista deve quindi, a partire da questo dato, colmare lo scarto rispetto ai modelli più avanzati delle “democrazie mature”, ma non solo, ciò che è eufemisticamente definito “democrazia governante” tende a modificare i termini della mediazione politica, l’uso e gli strumenti stessi della democrazia rappresentativa, al fine di consolidare il regime instauratosi e di creare le condizioni politiche ed istituzionali per costruire equilibri politici in grado di esprimere “esecutivi forti e stabili”, in grado di rispondere in “tempo reale” alle esigenze della borghesia imperialista, svincolandoli dalle spinte antagoniste prodotte dallo scontro di classe, il quale va spoliticizzato e marginalizzato attraverso meccanismi di mediazione politica idonei al suo convogliamento negli strumenti della “democrazia rappresentativa”.
Sono chiarificanti, in questo senso, tanto la proposta di modificare l’istituto referendario da rendere consultivo, quanto le campagne di volta in volta orchestrate (aborto, droga, ecc.) tese a legittimare l’operato dell’esecutivo attraverso la mobilitazione demagogica e reazionaria delle “masse”. Sono evidenti i passaggi già effettuati sia sul piano istituzionale (con la riforma della Presidenza del Consiglio, l’istituzione del Consiglio di Gabinetto, le modifiche al diritto di sciopero ed alle rappresentanze sindacali, l’istituzione del voto segreto, ecc.) che su quello della contrattazione (accordi-pilota, vertenze “calde”, uso della precettazione, “normalizzazione” dei luoghi di lavoro con l’ausilio diretto dei carabinieri nonché l’uso dei referendum per sostanziare il neo-corporativismo e trasformare le spinte di classe in momenti di legittimazione e stabilizzazione).
I passaggi ulteriori contemplano un diverso assetto delle funzioni delle due Camere, l’iter parlamentare delle leggi (voto segreto, corsie preferenziali) sino alla modifica dei regolamenti elettorali che costituiscono lo snodo fondamentale, modifica per la quale si prefigura la sperimentazione all’interno della riforma degli enti locali, i quali, a loro volta, vanno funzionalizzati, sia in termini di spesa che di gestione, all’esecutivo. Intorno ai tratti essenziali di questo progetto si riformulano anche il ruolo della magistratura che deve funzionalizzarsi all’esecutivo, che quello della Corte Costituzionale, garante della “costituzionalità” della riforma, che quello della Corte dei Conti, cui compete la legge sulla spesa in riferimento ad un diverso equilibrio dei bilanci statali, sino al diverso rapporto tra Ministero degli Esteri e Ministero della Difesa, compreso nella riforma della Farnesina.
Ma al di là degli aspetti specifici che si tenta di fare apparire come asettici e privi di riferimento con le condizioni politiche e materiali vissute nello scontro di classe, come cose che riguardano solo il modo di sedersi a Montecitorio, è chiaro che lo Stato non è al di sopra delle parti ma è organo della dittatura borghese di cui cura gli interessi generali, anche come mediatore del conflitto di classe; queste due funzioni nello sviluppo storico dell’imperialismo esaltano il complessificarsi del suo ruolo, da ciò discende l’attualità per i comunisti della centralità dell’attacco allo Stato, al suo cuore inteso come il progetto politico dominante della borghesia nella congiuntura. Vi è un filo continuo che lega la Costituente del ’48, espressione dei rapporti di forza usciti dalla resistenza al nazi-fascismo, a questa fase, allo stesso modo definita “costituente”, poiché si prefigura come fondazione di una “seconda repubblica”, un filo nero che passa dalla restaurazione degli anni cinquanta per contrastare il movimento insurrezionale ereditato dalla resistenza, al centro-sinistra degli anni sessanta, al tentativo neo-gollista di stampo fanfaniano dei primi anni settanta teso a contrastare in termini anti-rivoluzionari le forti spinte dell’autonomia di classe e l’esordio della guerriglia, all’unità nazionale morotea in un clima di forte scontro politico per il potere diretto e organizzato dalla strategia della lotta armata, fino alla controrivoluzione degli anni ottanta, base e punto di forza di questo progetto politico.
Intorno a questo progetto si è imposto il riadeguamento del ruolo dei partiti e delle forze istituzionali, non escluse le opposizioni – PCI in testa – le quali devono conformarsi in una dialettica puramente formale e che si esprime nei “grandi accordi” sulle varie “costituenti” ruotanti intorno alle ipotesi di “alternanza” di là da venire, cioè, inseguendo l’improbabile carota che gli si fa penzolare davanti, tirano in realtà la volata al carro della borghesia, assolvendo così ad una funzione che è tutta interna agli strumenti della controrivoluzione preventiva, poiché proprio con questo ruolo che risponde all’esigenza di convogliare le spinte di classe all’interno delle compatibilità borghesi, ricevono la legittimazione che la borghesia dà all’esistenza stessa della “sinistra” istituzionale, compresa quella neo-riformista o pseudo-rivoluzionaria. Non di “tradimento dei capi” si è mai trattato, ma della loro impossibilità di sostenere un piano di scontro che è la borghesia a definire di volta in volta e sul quale sono costretti ad un continuo “adeguamento”, con un approccio che è gioco forza garante del rinnovamento delle istituzioni borghesi e che agevola la possibilità per l’esecutivo di svincolarsi dalle spinte antagoniste che si producono nel paese, nel massimo della democrazia formale, cioè al di fuori e contro l’interesse di classe.
È ancora la DC la forza politica maggiormente impegnata a garantire la stabilità politica poiché essa costituisce il serbatoio storico della classe dirigente della borghesia nel nostro paese, confermando il suo ruolo di asse principale delle svolte politiche nel paese, nonché il suo essere il reale gestore del potere politico sostanziale. Per la centralità di questo progetto e la sua profondità di intervento, in quanto assume caratteristiche di “rifondazione dello Stato” ai nuovi termini di sviluppo/crisi dell’imperialismo, è un progetto che, avvalendosi degli attuali rapporti di forza a favore della borghesia, tende alla loro ratifica-assestamento in campo istituzionale e ad un ulteriore rafforzamento dello Stato nei confronti del campo proletario, perciò investe direttamente gli interessi politici e materiali della classe. Per questo è un progetto antiproletario e controrivoluzionario e pure nei mutati rapporti di forza incontra la resistenza e l’opposizione della classe e delle sue avanguardie che dimostrano la propria indisponibilità a subire passivamente i costi della crisi della borghesia imperialista, e, come con Sossi e con Moro, in quanto progetto politico dominante borghese in questa congiuntura, è stato individuato ed attaccato dalla nostra organizzazione nella figura del suo maggiore teorico ed esecutore: il senatore democristiano Roberto Ruffilli; un attacco che ancora una volta ha dimostrato contemporaneamente la necessità e la possibilità di impattare e di inceppare la tendenza antiproletaria e controrivoluzionaria intrinseca al progetto stesso. Questo proprio perché la guerriglia nelle metropoli non è sola e semplice guerra surrogata, essa agisce, può e deve sviluppare la sua efficacia muovendosi ben dentro ai nodi centrali dello scontro politico tra le classi; l’attacco al nemico perciò, per essere disarticolante, per incidere ed aprire spazi politici, deve riferirsi strettamente al piano politico generale.
La rimessa al centro, nell’attività dell’organizzazione, dell’attacco al cuore dello Stato rappresenta un dato di assestamento dell’impianto politico delle Brigate Rosse che liquida le posizioni anti-marxiste sul terreno dell’analisi dello Stato nelle “democrazie mature” e sui compiti dell’avanguardia rivoluzionaria, e costituisce l’asse strategico intorno al quale si dispongono le forze proletarie sul terreno della lotta armata.
Al tempo stesso le modificazioni indotte nelle funzioni e nel ruolo degli Stati a “capitalismo maturo” dai processi monopolistici transnazionali che approfondiscono la dialettica contraddittoria tra integrazione e concorrenza all’interno del contesto generale di sviluppo/crisi dell’imperialismo, impongono la ricollocazione dell’attività antimperialista, una necessità che si rende evidente di fronte alla generalità del contesto controrivoluzionario che in questo decennio ha di fatto impedito ogni ulteriore rottura rivoluzionaria, minacciando la tenuta stessa e l’avanzamento di quelle già operate. Occorre tener presente, d’altro canto, che ai caratteri strutturali della crisi non possono dare soluzione, ma ulteriore approfondimento, l’inasprimento dei livelli già di supersfruttamento nei confronti dei paesi della periferia, le ristrutturazioni operate ed i massicci investimenti nelle “nuove tecnologie” e nel riarmo “convenzionale” , le “privatizzazioni” ed i tagli sociali, l’attuazione più spregiudicata delle cosiddette politiche economiche neoliberiste, cioè l’elevamento dello sfruttamento ed il dirottamento massiccio di risorse a favore dei processi di valorizzazione e di sostegno alla ulteriore concentrazione del grande capitale monopolistico-finanziario, la riduzione della capacità produttiva e la cosiddetta “de-industrializzazione” per i settori considerati maturi. Né soluzione può essere data dalla parziale apertura degli ambiti mercati dell’Est, Cina compresa, con tutta la contraddittorietà con cui si configura e l’instabilità di cui sono portatrici le dinamiche in atto all’interno del più generale confronto Est/Ovest; è evidente infatti come queste dinamiche impattino con i processi di coesione-concorrenza e quanto possano influenzarne il dialettico andamento.
Tutti fattori quindi, che al di là delle apparenze congiunturali e di facciata, del breve “ossigeno” che possono dare rispetto alla prevalenza del fattore di crisi, concorrono essi stessi ad approfondire la tendenza alla guerra intrinseca alla dinamica imperialista.
L’internazionalismo proletario in questa particolare fase assume dunque una ben precisa valenza che sostanzia la dialettica tra il compito primario di lavorare per la rivoluzione nel proprio paese e collocare il partito quale “reparto dell’esercito mondiale del proletariato“, la nostra organizzazione ha assunto da tempo l’antimperialismo quale elemento programmatico, come hanno dimostrato le azioni Dozier e Hunt. Attacco al cuore dello Stato e antimperialismo vivono quindi in stretta unità programmatica, un’unità dialettica nel senso che l’interrelazione reciproca è profonda, ma senza per questo confondersi o equivocarsi; essi costituiscono i binari di cui l’asse principale resta l’attacco allo Stato poiché, all’interno dei processi in atto, ruolo e funzioni degli Stati si esaltano non annullandosi in alcuna forma di supergoverno kautskiano; restano inoltre le peculiarità ed i tempi dei percorsi specifici, nazionali, delle rivoluzioni; al tempo stesso l’attività antimperialista non può essere concepita come “altra cosa”, poiché solo l’indebolimento dell’imperialismo nel suo complesso e più specificatamente nell’area, può rendere possibili processi rivoluzionari nazionali; ciò permette di comprendere come l’attività antimperialista vada a collocarsi in dialettica all’attacco allo Stato, a sua volta è proprio l’avanzamento del processo rivoluzionario in un paese che sostanzia l’internazionalismo proletario riducendo la forza dell’imperialismo.
Attaccare l’imperialismo per una forza rivoluzionaria che opera nel centro imperialista significa innanzitutto attaccare le politiche dominanti dell’imperialismo nella congiuntura.
Una simile ricollocazione dell’attività antimperialista dell’organizzazione sarebbe stata priva di prospettive e di contributi al di fuori della pratica del Fronte, intesa come unità nell’attacco soggettivamente perseguita – a prescindere dalle differenze politiche che caratterizzano le varie forze rivoluzionarie che vi concorrono – con tutte le forze rivoluzionarie antimperialiste disponibili ed in particolare operanti nell’area europea-mediterranea-mediorientale, che, oltre a rappresentare l’area geopolitica “naturale” in cui si colloca e si esplicita l’attività imperialista e di supporto all’interesse generale dell’imperialismo del nostro paese, rappresenta al contempo l’area di massima crisi e di intervento dell’imperialismo oggi, il quale, attraverso i processi di coesione e di integrazione economica, politica e militare e calibrando l’intervento militare e politico-diplomatico di “pacificazione e normalizzazione”, si compatibilizza alle esigenze poste dalla propria crisi e tende ad assestare a proprio favore gli equilibri e i rapporti di forza nell’area.
L’unità nell’attacco congiunto alle politiche dominanti dell’imperialismo nell’area, non significa fondere ciascuna organizzazione in un’unica organizzazione, ma costruzione della forza politica e materiale per attaccare l’imperialismo. È un’unità che non solo aumenta l’efficacia dell’attacco e la conseguente capacità di disarticolazione, ma colloca l’iniziativa dei comunisti, imponendo un salto politico qualitativo necessario alla politica rivoluzionaria, anche sul piano internazionale, poiché occorre riconoscere e perseguire soggettivamente la stretta unità dialettica da far vivere nell’attacco, e che già è data oggettivamente, tra forze e percorsi rivoluzionari tanto del centro che della cosiddetta periferia.
In questo senso una forza rivoluzionaria del centro imperialista che agisce ed opera all’interno del cuore del sistema di sfruttamento dell’imperialismo, deve avere ed assumere la piena coscienza del fatto che, pur agendo con forze ristrette ed in condizioni di accerchiamento, essa rappresenta la forza e gli interessi politici generali e strategici non solo del proletariato e della classe sfruttata del proprio paese, ma anche quelli della stragrande maggioranza dell’umanità, oggi condannata a morte e alla distruzione dall’assetto imperialista mondiale.
Per questo il testo comune RAF-Brigate Rosse di costituzione del Fronte Combattente Antimperialista, con l’attività di combattimento che lo ha sostanziato (l’attacco al sottosegretario alle Finanze della Repubblica Federale Tedesca, Tietmayer), costituisce il punto di approdo al quale l’organizzazione ha dato il suo contributo; per il realismo politico che lo guida, per la concezione aperta che lo caratterizza, rappresenta contemporaneamente l’imprescindibile punto di partenza per il suo necessario e possibile sviluppo.
Per queste ragioni ribadiamo il nostro appoggio all’attacco che la RAF ha portato alle politiche di coesione-integrazione dell’Europa occidentale, colpendo il presidente della Deutsche Bank, Herrhausen.
L’attacco al cuore dello Stato calibrato al rapporto classe/Stato, e l’antimperialismo praticato all’interno di una politica di alleanze e di rafforzamento del Fronte Combattente Antimperialista, calibrato al rapporto imperialismo/antimperialismo, costituiscono gli assi cartesiani di riferimento lungo i quali si esplica l’attività combattente e si costruiscono i termini attuali della guerra di classe di lunga durata; per questo l’attacco portato al progetto di rifunzionalizzazione dello Stato ed il contributo al rafforzamento-consolidamento della politica del Fronte, sono gli elementi che inequivocabilmente chiariscono la sostanza del rilancio dei termini complessivi dell’attività rivoluzionaria operato dalle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente in questi anni di ritirata strategica e le prospettive che esso ha aperto hanno determinato uno spostamento in avanti del piano di scontro rivoluzionario.
Questo il dato politico centrale nella dialettica rivoluzione/controrivoluzione che ha posto lo Stato a ridefinire contromisure atte a contrastare il portato politico e strategico della proposta rivoluzionaria sul campo proletario, concretizzatosi in un piano di deterrenza teso ad operare sul duplice livello: la guerriglia e il suo referente di classe, ovvero un piano teso a far pesare la cattura di rivoluzionari sull’intero proletariato, sulle condizioni politiche generali dello scontro, spacciandola per l’esaurimento delle condizioni stesse del processo rivoluzionario.
Ma la realtà è ben diversa e ben ne è conscia la borghesia e i suoi tirapiedi dell’antiguerriglia. Quasi venti anni di prassi combattente delle Brigate Rosse costituiscono un dato politico che si è sviluppato e si è sedimentato storicamente nel tessuto proletario e nel rapporto tra le classi, sintetizzando lo sviluppo e le tappe del processo rivoluzionario nel nostro paese, l’approfondirsi dello scontro tra le classi e la concretezza dell’istanza di potere per parte proletaria.
Elementi politici che costituiscono un punto di non ritorno e insieme l’inalienabile e imprescindibile retroterra per lo sviluppo del processo rivoluzionario.
Non saranno le campagne di arresti di militanti, i grossolani tentativi di denigrazione, né tanto meno le sbandierate defezioni e i tradimenti degli ex militanti, i quali, a fronte delle difficoltà oggettive, pratiche e teoriche, che la guerriglia ha affrontato e deve affrontare, pretendono di sottrarsi al livello raggiunto dallo scontro. Tutto ciò non inficia né invalida la sostanza ed il portato politico della lotta armata e del progetto di riadeguamento che la nostra organizzazione ha posto in essere a partire dalla sconfitta tattica dell’82, in questi anni di ritirata strategica e all’interno delle durissime condizioni determinate dal dispiegarsi della controrivoluzione, continuando quindi non soltanto il combattimento al livello adeguato al piano di scontro tra classe e Stato, tra imperialismo e antimperialismo – come le azioni Giugni, Tarantelli, Ruffilli, Hunt, Conti e l’esproprio hanno dimostrato – un percorso di riadeguamento che, come hanno dimostrato i fatti, non è ancora concluso. Ma è proprio misurandosi con queste condizioni ineludibili che la guerriglia si è posta nella giusta direzione atta a superare i limiti soggettivi e ad acquisire la capacità di sostenere, con la necessaria maturità, la complessità dello sviluppo non lineare del processo rivoluzionario, una complessità che solo la verifica pratica può mettere in luce non solo per gli aspetti generali, ma anche per quanto riguarda l’originalità necessariamente assunta dallo specifico percorso nel nostro paese, fermo restando che un tale processo è oggettivamente prolungato nel tempo per la sua collocazione nel cuore stesso della catena imperialista.
All’interno della fase della ritirata strategica si sono individuati i suoi termini più precisi e poste le basi del suo superamento, che comporta la ricostruzione delle condizioni politiche e materiali della guerra di classe, cioè la capacità di determinare una condizione che non può essere limitata alla sola chiarezza teorica e politica dell’impianto, visto che il riadeguamento della guerriglia ai nuovi termini dello scontro rivoluzionario comporta articolare il processo politico e militare di attivizzazione delle forze proletarie sulla lotta armata, sul terreno rivoluzionario.
Una condizione che va costruita dentro una conduzione della guerra che deve essere (e d’altra parte non può essere altrimenti) interna al mandato della ritirata strategica sino al completamento di alcune condizioni politiche e militari al di fuori delle quali è impossibile parlare di uscita dalla ritirata strategica.
Su questo processo che, a partire dall’attacco, è di formazione delle forze che si dispongono sulla lotta armata in modo da renderle adeguatamente organizzate a sostenere il livello di scontro con lo Stato, e conseguentemente di ricostruzione dell’ambito operaio e proletario delle condizioni politiche e materiali danneggiate e disperse dalla controrivoluzione, influisce l’andamento stesso dello scontro, che è fortemente discontinuo, fatto di attacchi e ritirate e quindi la condotta tattica dello scontro è sottoposta a questo movimento che non può essere lineare. Diviene chiaro quindi come il termine di ricostruzione delle forze e delle condizioni politiche e materiali del campo proletario non è semplice momento congiunturale, ma una fase rivoluzionaria che è però strettamente condizionata dalla funzione della ritirata strategica alla quale è tutta interna, pur disponendosi e ponendo le basi materiali e complessive per l’uscita da essa.
All’interno di questa particolare fase dello scontro rivoluzionario, assume un’importanza evidente la parola d’ordine dell’unità dei comunisti intorno alla proposta strategica della lotta armata per il comunismo, un’unità che non è formale, ma che, a partire dall’assunzione del piano di scontro e degli assi di riferimento strategico maturati dall’esperienza di combattimento delle Brigate Rosse, obbedisce all’esigenza di attrezzare il campo proletario e formare le avanguardie rivoluzionarie alle necessità del livello raggiunto dallo scontro; ad di fuori di ciò si dà solo il dissanguamento e la dispersione delle stesse o la loro sopravvivenza, nell’impossibilità di incidere nello scontro, con la conseguente compatibilizzazione e riassorbimento al piano borghese.
Un’unità quindi da costruire nella prassi del combattimento, disponendosi intorno al programma e alla direzione dell’organizzazione. Un processo dialetticamente legato alla crescita stessa della forza, sia politica che materiale, che è quello su cui i comunisti devono misurarsi dentro il percorso rivoluzionario: quello della costruzione del Partito Comunista Combattente. Questo perché i caratteri del processo rivoluzionario comportano che l’avanguardia armata del proletariato si configuri come una forza rivoluzionaria, e le Brigate Rosse sono una forza rivoluzionaria che, pur ponendosi sin dal proprio sorgere come nucleo fondante il partito, non sono il partito, e questo perché il nodo della direzione rivoluzionaria della guerra di classe di lunga durata non si scioglie con un atto di fondazione, ma è un processo vero e proprio di fabbricazione-costruzione del partito che si configura come tale all’interno del percorso di costruzione delle condizioni stesse della guerra di classe. Nella loro precisa definizione e progettualità le Brigate Rosse si costruiscono come Partito Comunista Combattente unificando intorno al programma rivoluzionario i comunisti e organizzando allo scontro le avanguardie proletarie rivoluzionarie; in sintesi, la direzione rivoluzionaria dello scontro si realizza agendo da partito per costruire il partito.
Questa concezione fondamentale, unitamente al modulo politico-organizzativo secondo cui si sono strutturate le Brigate Rosse, i criteri di clandestinità e compartimentazione, costituiscono gli elementi strategici validi affinché la guerriglia possa agire con il suo portato rivoluzionario in queste condizioni storiche dello scontro.
Attaccare e disarticolare il progetto controrivoluzionario e antiproletario di rifunzionalizzazione dello Stato.
Costruire e organizzare i termini attuali della guerra di classe.
Attaccare le linee centrali della coesione politica dell’Europa occidentale e i progetti imperialisti di normalizzazione dell’area mediorientale che passano sulla pelle dei popoli libanese e palestinese.
Lavorare alle alleanze necessarie per la costruzione-consolidamento del Fronte Combattente Antimperialista per indebolire e ridimensionare l’imperialismo nell’area.
Onore ai compagni caduti nella lotta di classe antimperialista.
I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente – Alberta Biliato, Cesare Di Lenardo, Antonino Fosso, Flavio Lori
Rebibbia, 6 dicembre 1989