Gli interventi sulla questione della liberazione dei prigionieri comunisti hanno finora evidenziato una certa varietà di posizioni in cui dobbiamo dire non si riesce a discernere il confine che separa il problema più concreto dalle questioni di principio che contraddistinguono i comunisti. Questa confusione, tanto per cambiare, sembra accomunare tanto la «destra» che la «estrema sinistra», con la differenza, non secondaria, che mentre a destra la confusione è intenzionale, strumentale e orientata, a sinistra appare frutto di irrisolti problemi teorici e ideologici.
Crediamo pertanto utile distinguere un po’ tra i vari problemi che la vicenda iniziata con le «lettere» di Curcio e Moretti ha sollevato, anche alla luce dei diversi eventi verificatisi quest’anno. In primo luogo è incontestabile che le «lettere» hanno offerto alle forze politiche borghesi un’occasione di delegittimazione delle OCC rivolta immediatamente anche contro di noi quindi. Tanto che le tesi di fondo che sorreggono l’argomentare dei «quattro» riconoscono esplicitamente allo stato la capacità di rappresentare gli interessi generali della società nel suo complesso e quindi anche quelli delle diverse forze sociali, proletariato compreso evidentemente. La lontananza di questi presupposti dal punto di vista comunista è talmente evidente ed è stata quasi da tutti riconosciuta come tale, che non crediamo particolarmente necessario soffermarcisi ancora, dato il tipo di lettori cui stiamo parlando. Del resto la battaglia ideologica contro questo ed altri presupposti è stata da noi iniziata e condotta a partire dal libro «Politica e rivoluzione».
L’altra tesi fondamentale, che ci sembra assai meno compresa, è quella che fa della storia delle BR (cioè della lotta armata in Italia) un episodio irripetibilmente «datato», privo perciò di evoluzione storica e completamente separato dal complesso della lotta di classe in questo paese. Non quindi patrimonio di esperienze e momento di avanzamento del processo rivoluzionario (tanto nella prassi che nella teoria)! Come invece necessariamente deve essere considerato da una riflessione materialistica, sia per la sua difesa/valorizzazione che per farla vivere nella coscienza, nella memoria, nella prospettiva strategica del proletariato. Poiché nelle «lettere» c’è anche l’esplicita intenzione di ergersi a «difesa» della storia delle BR, bisogna per forza di cose far notare come una simile «difesa», frutto di una concezione antimarxista e idealista della storia, non può che snaturare e far disperdere i contenuti politici fondamentali dell’esperienza delle BR in quanto parte integrante della classe e renderla così «manipolabile» ad uso e consumo della borghesia.
Su questa «lettura» della storia (che fa ovviamente da sfondo «culturale» a scelte più prettamente pratiche) si è verificata la convergenza, opportunisticamente glissata negli interventi di «estrema sinistra», della quasi totalità dei dirigenti prigionieri delle BR-PCC, cosa che ha indubbiamente rafforzato l’operazione di delegittimazione politica. Convergenza che chiarisce più di cento discorsi come la battaglia politica nel movimento contro gli antimarxisti si giochi proprio sulla storia delle BR!
Le forze politiche borghesi, DC soprattutto, hanno recepito rapidamente questa opportunità dando il via alla grancassa della «premiazione», del rinnegamento del marxismo,ecc. Fatto sta che la questione della liberazione dei prigionieri è diventata un tema neppure tanto secondario dello scontro politico tra le classi e all’interno dei vari partiti della classe dominante. È un nodo politico al punto che su di essa nessuna forza politica, da qualsiasi parte sia schierata, ha potuto fare a meno di esprimere una posizione. Ciò avviene perché, come ogni problema politico, tocca interessi diversi e contraddittori, che cercano di affermarsi mediante schieramenti.
Quali sono questi schieramenti e interessi oggettivi?
Dato il tipo di discussione che si è aperta, cominciamo dagli interessi della classe dominante, nelle sue forze politiche principali, DC e pentapartito. Nella nostra presa di posizione rivolta al movimento di massa, pubblicata sul manifesto del 31.5, abbiamo per l’appunto indicato: 1) piegare le BR alla «pacificazione», ossia all’accettazione dei valori e del sistema politico-sociale dominante; 2) delegittimare le forze comuniste combattenti e «ammonire» l’opposizione sociale e rivoluzionaria; 3) usare questa storia, patrimonio della classe ed il suo «recupero lealistico», come parte della più complessa operazione democristiana di recupero della centralità, in vista di una fase «costituente» in cui andare a ridefinire le regole del gioco politico; 4) liberarsi del peso che rappresentano comunque, per uno stato a democrazia parlamentare, i prigionieri politici. Sul terzo soltanto di questi interessi esiste però una contraddizione fra la DC e le altre forze politiche parlamentari, particolarmente con l’opposizione di sinistra, per ovvie considerazioni legate alla nostra identità di comunisti e rivoluzionari, al posto che occupiamo nella coscienza della classe reale (se non altro come «speranze non realizzate»).
In una fase di sostanziale «stagnazione» dello scontro politico-militare come quella attuale, caratterizzata da un rapporto di forza assai favorevole per la borghesia, affrontare il nodo dei prigionieri ha voluto dire cominciare a prendere in considerazione l’opportunità di un’amnistia. Di fronte alle voci di corridoio, che intorno a queste ipotesi hanno preso a circolare, i prigionieri diciamo così «opportunisti di destra» si sono affannati a prendere posizioni pubbliche in cui, nell’ansia di dichiarare la propria presa di distanze dalle organizzazioni attive, buttano gioiosamente a mare ogni residuo scampolo di dignità e ideologia rivoluzionaria. Alcuni prigionieri di «ultra-sinistra», accecati dal rivestimento ideologico mass-mediato della vicenda, per cui la liberazione è il contraltare della «pacificazione», per distinguersi dai «letteristi» attaccano, invece che le loro tesi, l’ipotesi dell’amnistia in quanto tale. In ciò, secondo noi, sia gli uni che gli altri, dimostrano una patente incapacità di distinguere tra questioni di principio (difesa della nostra storia, dei principi comunisti, dell’appartenenza di classe, ecc.) e problema politico concreto (amnistia da un lato e le posizioni resaiole dall’altro).
La situazione si è ulteriormente complicata (ma forse è stata resa soltanto più chiara) con l’entusiastico appoggio offerto a Curcio dai «più bei nomi» dell’estremismo soggettivista degli ultimi tre anni, cioè i dirigenti delle BR-PCC prigionieri. Clamoroso, certo, ma ci duole dirlo per noi niente affatto sorprendente.
La nostra posizione è conseguente ad un’analisi concreta della situazione concreta e mira a definire risposte sul «che fare?» per portare avanti, anche in queste condizioni mai verificatesi negli ultimi quarant’ anni, il processo rivoluzionario.
La prima domanda che i comunisti e il movimento rivoluzionario debbono affrontare è secondo noi questa: quale rapporto esiste tra la lotta per il socialismo e chi in questa lotta viene fatto prigioniero? La risposta da sempre e in tutto il mondo è semplice: i prigionieri vanno liberati . Ogni volta che se ne presenta l’occasione, con ogni mezzo, legale e illegale, politico e militare. Non solo e non tanto per motivi «umanitari», quanto perché nessuna parte in conflitto può permettersi di lasciare all’infinito dei combattenti nelle mani del nemico senza risentirne gli effetti politici, psicologici, militari. Se è vero infatti che i prigionieri rappresentano la prova vivente della radicalità del conflitto, in determinate condizioni (di fatto, quando i rapporti di forza sono sfavorevoli e la borghesia appare «trionfante»), gli stessi prigionieri diventano un ricatto vivente, un ammonimento oggettivo e quotidiano a non ribellarsi, un deterrente involontario sottoposto a pressione costante. Per questo i rivoluzionari di tutto il mondo si pongono il problema concretamente, in termini politici, organizzativi e militari, giammai in termini esortativo-volontaristici.
I comunisti, come chiunque combatte per una causa rivoluzionaria, hanno non soltanto degli interessi ma anche dei principi. Intorno al problema dei prigionieri se ne individuano sostanzialmente due: 1) è inammissibile scambiare il programma di trasformazione, le idee, l’identità con la libertà personale; ossia non si dà libertà contro collaborazione, libertà contro legittimazione del dominio; 2) è inammissibile accettare di avere dei combattenti prigionieri e non dotarsi di una strategia, una tattica di iniziative atte a recuperarli concretamente.
Come si intuisce, entrambi i principi valgono per i movimenti rivoluzionari nel loro complesso, come corpo organico (partito, esercito, movimento di massa, prigionieri, ecc.), anche se il primo è pane quotidiano soprattutto per i prigionieri ed il secondo per le forze operanti. Il primo principio consente di discernere in ogni condizione i prigionieri rivoluzionari da quelli che cessano di esserlo. Il secondo consente di cogliere la differenza fra le forze che lottano, misurandola dai risultati pratici, da quelle che fanno combattere soprattutto le parole fra loro.
I principi sarebbero lettera morta, puro catechismo, se non informassero i criteri direttivi del calcolo politico, la tattica, ossia la capacità essenzialmente pratica di comprendere le caratteristiche principali del campo di battaglia concreto e selezionare le mosse in base a interessi, vantaggi, economia delle forze e obiettivi. Principi e calcolo politico hanno generato una prassi comunista e rivoluzionaria internazionale più che secolare, per cui il problema della liberazione dei prigionieri viene affrontato nella forma di assalto alle prigioni – evasioni oppure nella forma dell’amnistia totale (richiesta dalla guerriglia stessa oppure dai movimenti di massa, dal «braccio legale», dalle forze democratiche). Con motivazioni di principio vengono escluse invece le richieste di grazia in quanto impliciti riconoscimenti della legittimità del dominatore. È d’altro canto assodato per tutti e dovunque che le amnistie vengono promulgate da uno stato, un parlamento o un dittatore che a sua volta fa un calcolo politico utilitaristico della convenienza o meno di un gesto del genere, tanto che amnistie sono state concesse sia da governi sull’orlo del baratro, come estremo tentativo di «pacificare gli animi», che da governi usciti da una vittoria, per celebrare il proprio «trionfo». In ciascun caso i comunisti, ma in generale qualsiasi rivoluzionario che si ponga davvero il problema di arrivare a vincere, hanno lavorato per recuperare i propri quadri, secondo principi e calcolo politico. Noi per recuperare il nostro posto di lotta nello scontro di classe, in tutti questi anni ci siamo mossi esclusivamente sul piano dell’evasione contando sulle nostre sole forze, consapevoli dell’inesistenza delle condizioni favorevoli tanto all’assalto delle prigioni quanto dell’amnistia. Oggi ci troviamo a dover esaminare anche l’eventualità dell’amnistia perché oggi questo è un problema politico sul tappeto ed intendiamo farlo da comunisti secondo principi e calcolo politico.
Abbiamo indicato all’inizio quale sia l’interesse borghese nella vicenda, pertanto passeremo ad analizzare l’interesse del movimento. Pensiamo opportuno mostrare i limiti di una posizione presente nel dibattito e che, politicamente sostenuta da un numero ristretto di prigionieri, è fonte di confusione essenzialmente per un fatto: è praticamente insostenibile e stravolge sia i principi politici che la storia. Ci riferiamo alla posizione pubblicata nell’ultimo numero de Il Bollettino di due compagni che si firmano anche loro militanti delle BR-PCC. Non è l’unica posizione di tipo «estremista», ma possiede alcune caratteristiche che la rendono, diciamo così, «paradigmatica» di alcuni degli esiti del soggettivismo. In buona sostanza costoro si limitano a dire: «Curcio è un dissociato, ogni discorso sulla liberazione è sinonimo di dissociazione. Risponderà la guerriglia». In pratica ciò significa che confidano esclusivamente sul rilancio politico-organizzativo della propria organizzazione, cioè sulla parte delle BR-PCC, conosciuta come «prima posizione», che ha mantenuto questa sigla dopo la scissione dell’84. Nessuno ignora infatti che questi compagni sono così tristemente settari da non riconoscere altra lotta armata, altra posizione rivoluzionaria che non sia la propria. La nostra divergenza dalle posizioni di questa organizzazione non ci sembra ignota né poco argomentata visto che abbiamo apertamente condotto una critica pluriennale del soggettivismo idealista ed abbiamo riconosciuto nell’Unione dei Comunisti Combattenti la capacità di valorizzare e rinnovare creativamente, quindi nei fatti dare davvero continuità al patrimonio di esperienza delle BR. Quello che qui ci interessa contestare è l’atteggiamento concreto sulla questione specifica, anche perché nello sforzo di negare la realtà e le sue lezioni, questi compagni dissolvono anche le acquisizioni fondamentali e caratteristiche delle BR. Basti pensare a titolo d’esempio alla «nuovissima» teoria per cui le BR non avrebbero mai avuto una direzione a centralismo democratico, tipica di un partito comunista sia pure «in nuce», bensì rapporti interni tipici del «collettivo combattente» di anarchica memoria, come l’intercambiabilità e la non localizzazione fisica della funzione dirigente. E dire che il concetto di partito è stato sempre una questione di principio così fortemente sentita, da indurci ad inserirlo nel nome stesso dell’organizzazione (BR-PCC), proprio per distinguerci dalle «innovazioni» curciane dell’’81-’82. È chiaro che questa autentica mistificazione storica ha lo scopo assai modesto di «minimizzare» in un modo qualsiasi l’«emorragia» di questi dirigenti; ma è anche indicativo di dove stia conducendo il tentativo soggettivista di esorcizzare la crisi!
Ma al di là delle elucubrazioni irrazionalistiche sui principi e della deformazione strumentale della storia delle BR, quello che ci interessa per ora è indicare come la posizione «estremista» sulla questione dei prigionieri è politicamente, ossia nel concreto delle condizioni presenti, insostenibile. In primo luogo perché di fatto non contrasta, bensì facilita il discorso sulla «pacificazione», visto che non fornisce risposte praticabili al problema della liberazione né per i prigionieri né per il movimento di massa. Agevola quindi il compito dello stato, che può così scegliere la soluzione per sé politicamente meno costosa. Se il problema non fosse stato posto sul terreno politico (dalla borghesia concretamente), non ci sarebbe stato nessun bisogno di fornire risposte diverse dall’evasione; era questa la situazione degli anni tra il 1970 e il 1987. In secondo luogo perché proprio i principali dirigenti e promotori della svolta ultrasoggettivista del 1984 nelle BR-PCC (di cui la posizione in esame rappresenta la sopravvivenza verbale) si sono oggi incaricati di dimostrare nei fatti come l’estremismo non abbia sbocchi politici, debordando improvvisamente nel campo degli apologeti della borghesia e della sua invincibilità. Salto di destra neppure dovuto a gravi problemi di sconfitta militare malamente affrontati, ma semplicemente all’affacciarsi di una proposta politica da parte di esponenti governativi.
La crisi del soggettivismo idealista esplode di fronte ai problemi politici concreti, come incapacità di tradurre in mosse pratiche efficaci i propri schemi teorici, evidenziando una spirale sconfitta-radicalizzazione volontaristica-nuova sconfitta che alla fin fine produce dissoluzione politica-teorica-organizzativa. Il documentino con cui Balzerani, che dichiara di parlare a nome delle BR-PCC di oggi, si colloca, se possibile, ancora più a destra di quello di Curcio e dichiara fumosamente la fine non solo e non tanto della lotta armata ma anche di ogni processo di emancipazione (foss’anche pacifica!) delle classi sfruttate, delinea infatti una parodia di «analisi economica» dell’evoluzione presente e futura del capitalismo, secondo la quale, tanto che si vada verso la guerra oppure verso la distensione internazionale, il proletariato dei paesi occidentali non avrà comunque una qualsiasi possibilità di lotta per il potere o di trasformazione sociale. Si è venuto in pratica a determinare quanto avevamo previsto ed evidenziato nell’«autointervista» del febbraio 1987. Si sono finalmente riunite le due impostazioni antimarxiste e soggettiviste che rivendicano un diritto di rappresentanza/lettura della storia delle BR. Sul piano teorico, la prima di «destra», si è caratterizzata come «storicizzazione» che cerca di giustificare la nascita e lo sviluppo della lotta armata per meglio relativizzarla ad una determinata/irripetibile situazione storica del passato e riconoscere implicitamente o esplicitamente il sistema politico-sociale vigente; la seconda, di «estrema sinistra», caratteristica delle BR-PCC dall’84 in poi, relativizza l’influenza politico-sociale della lotta armata fino ad oggi esistita, «imbalsamandola» come progetto puramente ideale immodificabile, per assolutizzare una certa posizione al di là delle verifiche della prassi e delle concrete condizioni storiche. «Soluzione politica» e «dissoluzione della politica» si sono dunque incontrate sotto la comune bandiera della «pacificazione», perché entrambe rendono questa storia prigioniera del passato, senza «spinta propulsiva» nel presente, morta come tutte le cose che «non si possono trasformare».
I compagni che oggi assumono posizioni in nome della guerriglia delle BR-PCC sono comprensibilmente in grave difficoltà politica. Quello che gli riesce più difficile comprendere e tollerare è il persistente atteggiamento di ricerca del «nemico» all’interno dell’area comunista rivoluzionaria, contribuendo così quotidianamente all’imbarbarimento della dialettica tra i comunisti e alla disgregazione ulteriore del movimento rivoluzionario. A noi sembra opportuno che questi compagni, nei limiti che come gruppo di prigionieri hanno, diano conto a se stessi e al movimento delle motivazioni ideologico-teoriche che hanno spinto i loro dirigenti ieri a perseguire sistematicamente la scissione delle BR-PCC e oggi a stare al fianco di Curcio (la continuità ideologica fra posizioni ultramilitariste di ieri e quelle soluzioniste di oggi non è certo una nostra forzatura polemica, ma una balzeraniana rivendicazione di «linearità»!). In altri termini crediamo che la loro credibilità politica sia a questo punto tanto gravemente messa in discussione da poter essere ricostruita, come gruppo di militanti, solo a partire da una severa riflessione su tesi e scelte di questi ultimi tre anni. La digressione sulla posizione estremista è stata lunga, ma purtroppo inevitabile; non crediamo infatti giusto avallare con il nostro silenzio il «gioco al massacro» di un atteggiamento estremistico tutto verbale, giocato sul residuo «prestigio» conferito dalla prigionia politica e motivato unicamente dal non voler fare i conti con i risultati concreti del proprio teorizzare e dalla ricerca di un «avversario» cui addebitare i propri fallimenti.
Torniamo pertanto al problema politico particolare della possibilità di liberazione. Abbiamo visto i principi da mantenere fermi; adesso buttiamo uno sguardo sulla situazione concreta, dal punto di vista politico e da quello militare, e cerchiamo di fare un conseguente calcolo politico, da comunisti.
L’avanguardia politica e rivoluzionaria, identificatasi finora con la lotta armata delle BR (sorvoliamo ovviamente sulle vicissitudini post-1981 di questa sigla!), si trova a questo punto di fronte a scelte drastiche da compiere. Le difficoltà politiche ed organizzative gravissime che ha affrontato in questi ultimi anni si sono infatti ulteriormente aggravate. Al colpo puramente politico rappresentato dai dirigenti prigionieri delle BR-PCC che corrono a ripararsi «all’ombra di Curcio» va infatti aggiunto il colpo militare concretizzatosi nell’ondata di arresti che ha colpito un’area di militanti e/o supposti tali della UCC.
In una parola si stringe ancora di più l’accerchiamento politico-sociale-militare della rivoluzione nella forma della lotta armata.
La sinistra rivoluzionaria e la sinistra di classe, il «movimento» hanno subito anch’essi gli effetti della sconfitta di tutto il movimento di classe dopo il 1980 ed oggi sono più o meno un’area notevolmente frammentata, priva di influenza e peso politico, socialmente poco o niente radicata come alternativa puramente eventuale al riformismo, al revisionismo, alla borghesia. Per di più gli anni della riscossa controrivoluzionaria hanno consolidato un clima politico e meccanismi giuridico-istituzionali tali da disegnare spazi di agibilità politica per l’opposizione sociale rivoluzionaria dentro cui non ballerebbe un topo.
A livello di massa, il proletariato storicamente più combattivo d’Europa segna il passo.
Si notano però anche importanti segnali d’inversione di tendenza a livello dell’insoddisfazione e della mobilitazione di massa. Ed anche a livello della sinistra di classe forse si va superando il punto più basso della curva.
In questa situazione imporre un’amnistia sarebbe un’idea assurda. Le forze politiche della borghesia, nel prendere in esame la possibilità di una liberazione, hanno, come abbiamo visto, ben altre motivazioni che la «pressione» dei movimenti di massa o della guerriglia. Il problema, per noi, il movimento rivoluzionario, sinistra di classe, è di vedere se di fronte ad un’iniziativa dello stato che punta decisamente a massimizzare e consolidare i frutti politici della sconfitta della classe e della lotta armata, è possibile costruire una posizione di resistenza che consenta di limitare i danni e magari invertire un trend negativo durato troppo a lungo.
Esiste questa possibilità?
Per rispondere a questa domanda bisogna vedere quali interessi diversi da quelli della borghesia possono trarre vantaggio politico dal clima che un dibattito pubblico sull’opportunità di liberare i prigionieri comunisti per lotta armata può in parte creare. È chiaro infatti che le limitate forze del movimento, seriamente definibili come rivoluzionarie, richiedono obbligatoriamente un atteggiamento politico duttile ed articolato, che consenta di convogliare su questo obiettivo forze più vaste delle proprie.
Cominciamo perciò dalle forze rivoluzionarie. Secondo noi la liberazione dei prigionieri è un interesse concreto di tutti i rivoluzionari, se si riesce a dare un segno di classe, una gestione politica, che salvaguardi contenuti e valori proletari e comunisti, alla discussione e al succedersi delle iniziative future. Indipendentemente dalle linee politiche e dalle concezioni teoriche. Recuperare quadri, se non altro, è interesse anche dei soggettivisti più estremi, quando si facciano valutazioni politiche anche soltanto sobrie.
Ma è interesse vitale e prioritario del «movimento», di quel complesso di strutture, gruppi, comitati, collettivi, riviste, radio, soggetti isolati, ecc., che hanno bisogno di recuperare e allargare gli spazi di agibilità politica, di uscire dalla ghettizzazione, dalla criminalizzazione e dall’isolamento. Spazi che opportunamente sfruttati, dentro un clima politico da perseguire coscientemente come obiettivo di breve-medio periodo, possono consentire a sostanziose fasce di movimento e della sinistra di classe, di agire iniziative atte a ricostruire il radicamento sociale, a superare steccati che hanno certo giustificazione storico-ideologica, ma sono oggi un non senso politico-fattuale.
È interesse più generale di tutti quei movimenti di massa che si trovano ad entrare in contraddizione con le scelte e le politiche dei governi di «pentapartito», perché anche sul piano del conflitto sociale più semplice, pesa il consolidamento nella prassi quotidiana dell’offensiva conservatrice.
Oltre l’interesse diciamo così, immediato o tattico dei vari soggetti politici e sociali interni alla classe, esiste anche un interesse di tipo più generale, specificamente comunista: quello di far sì che il patrimonio d’esperienze maturato nella pratica rivoluzionaria delle BR non vada dissolto tra «memorialistica» interessata di ex combattenti «pacificati» e radicalizzazioni «teoriche» la cui violenza di linguaggio è direttamente proporzionale all’infiacchirsi della pratica sociale e della proposta politica.
Finora, rispetto alla questione della liberazione, ampi settori del movimento e della sinistra di classe sono apparsi disorientati. L’atteggiamento prevalente ci è sembrato fin dall’inizio connotato da una sacrosanta diffidenza per tutta la retorica della «pacificazione», per i contenuti in essa impliciti di smarrimento dell’identità e dell’appartenenza di classe, unita ad un concreto interesse per la possibilità di liberare i prigionieri comunisti. Fatto questo che non risponde ad ovvi criteri di solidarietà proletaria, ma investe il problema politico generale della repressione dell’antagonismo. L’inizio di un dibattito politico pubblico fa intuire la possibilità di utilizzare spazi che oggettivamente si aprono.
Secondo noi il tema della liberazione dei comunisti prigionieri per lotta armata può diventare un’occasione di mobilitazione, confronto politico, uscita dall’isolamento, recupero di spazi di agibilità. Per converso, proprio una mobilitazione ed un intervento consistente da parte del movimento della sinistra di classe può cambiare il segno di classe finora apposto dai partiti e dai «letteristi» sulla vicenda. I due aspetti sono interdipendenti. Se il movimento lascia l’iniziativa esclusivamente nelle mani della borghesia, il segno di classe dell’amnistia non potrà che essere negativo, e per il movimento sul piano degli spazi di agibilità e per i prigionieri su quello dell’ampiezza del provvedimento.
Con un’aggiunta. Noi pensiamo che, per come sono andate finora le cose, non sia affatto scontato che si arrivi ad un’amnistia: nel senso che l’evoluzione più negativa della vicenda, in assenza di contraddittorio sul terreno politico, può anche produrre una semplice elargizione «ad personam» di sconti di pena o «grazie». Né i prigionieri comunisti, né il movimento trarrebbero alcun beneficio politico da questa evoluzione. Perché è adesso che si è aperto uno spiraglio, sicuramente non grandissimo ma concreto, attraverso cui far passare la questione della liberazione dei prigionieri comunisti nella forma di amnistia uguale per tutti, senza contropartite né discriminazioni.
Diciamo «far passare» e non «imporre», consapevoli della debolezza politica e organizzativa in cui si trova la sinistra di classe. Constatiamo però che esistono interessi oggettivi non borghesi ed anche contraddizioni dentro le forze borghesi; contraddizioni sicuramente «non antagoniste», ma che esistono oggi e fin quando ci sarà dibattito pubblico sull’opportunità di una liberazione.
Quando questo periodo avrà fatto maturare una legge, i cui contenuti saranno decisi nei prossimi mesi, la questione sarà politicamente chiusa. Per questo è fondamentale, insostituibile la coscienza e la mobilitazione politicamente orientata, attenta ai tempi reali, del movimento della sinistra di classe. A partire chiaramente da quelle realtà di movimento che più di altre hanno fatto della lotta alla repressione/militarizzazione un aspetto importante della propria attività, fornendo ai prigionieri il sostegno e lo spazio della comunicazione. Altrimenti, per assenza di alternative, saranno gli «oscuri patteggiamenti», l’immagine ufficiale, il sigillo di classe, della discussione politica e della dinamica concreta della liberazione.
Come sempre, l’atteggiamento nei confronti di un problema specifico discende da valutazioni d’ordine più generale sulla fase che lo scontro di classe attraversa e sulle soluzioni di linea politica. Su questo nodo di problemi, come su altri, torneremo in un prossimo intervento. Schematizzando comunque la diversità di posizioni, escludendo per definizione quelle ormai fuori dal campo comunista, ci sembra di poter dire che alla gravità della situazione ci si dispone a rispondere sostanzialmente in due modi:
Il primo, pur con molte varianti e «distinguo», frutto di un atteggiamento politico attento in varie misure alle vicende concrete dello scontro di classe in questo paese, allo stato reale del movimento rivoluzionario e consapevole anche delle caratteristiche generali della congiuntura internazionale, parte dalla constatazione della necessità nuda e cruda di un periodo di ricostruzione del movimento, del suo reinserimento significativo nella classe e nelle sue lotte, di riflessione sull’esperienza e risistematizzazione, su questa base, della teoria più adeguata. Il secondo, astraendo completamente dai dati materiali politici e militari della situazione e unicamente motivato dalla necessità di ribadire una particolare e ultrasoggettivistica concezione della lotta armata a dispetto delle riprove negative fornite dalla prassi (oltre che non secondariamente dalla sorte politica di chi l’aveva partorita), spera rozzamente di poter perseguire nell’immediato il proprio individuale rilancio, indipendentemente da quale dialettica reale intercorre oggi tra iniziativa armata e lotta di classe.
Diciamo perciò che soltanto chi si colloca dentro questa particolare linea politica può pensare di potersi disinteressare o opporre ad una mobilitazione di movimento a favore della liberazione dei comunisti prigionieri, mantenendo in ciò un’apparente coerenza. Riteniamo infatti tale atteggiamento autolesionista sul piano politico, come su quello militare, perché va contro persino agli interessi particolari di gruppo o di organizzazione.
Altri compagni, infine, hanno più seriamente avanzato riserve sulla possibilità reale di perseguire l’obiettivo della liberazione senza confondersi con il polverone della «pacificazione». Il dubbio è serio e trova fondamento concreto proprio nella estrema debolezza delle posizioni comuniste rivoluzionarie. In tempi difficili come questi, i comunisti, in quanto avanguardie politiche generali, debbono certamente confermare e rinsaldare i propri principi, distinguersi anche organizzativamente dagli opportunisti, ma debbono anche, e tanto più quanto più sono deboli, prendere iniziative e perseguire obiettivi che impediscono l’isolamento e l’annientamento.
Abbiamo bisogno, come comunisti e come politici rivoluzionari di condizioni sociali e politiche per ricostruire. Dobbiamo quindi, e senza perdere un solo tratto della nostra identità politica, promuovere e partecipare a battaglie e lotte politiche che non potranno non sembrarci «arretrate», «democratiche». Ma i comunisti sanno, e quando non lo sanno debbono imparare a passare attraverso queste battaglie senza smarrirsi o sciogliersi, ma precisamente per rafforzarsi. Le condizioni concrete maturate nello scontro sono queste e ce le siamo in parte costruite anche con i nostri errori. Non si tratta di «farsele piacere», ma di agire per mutarle.
Il rischio di «confondersi», dunque, non si evita con una sorta di «sdegnoso arroccamento», che contribuirebbe di fatto in un subire passivamente le conseguenze politiche concrete cui porterà lo sviluppo della vicenda in esame sotto il segno della «pacificazione». Le garanzie contro questo rischio stanno tutte nelle posizioni politiche di classe che i prigionieri manterranno e soprattutto nella mobilitazione del movimento, una mobilitazione che per essere realmente attiva e incisiva, stante i rapporti di forza esistenti, deve necessariamente vedere unita intorno all’obiettivo specifico, tutta la sinistra di classe e rivoluzionaria, perché il problema non è davvero quello di imbastire una sorte di fronte unico, riscoprendo frettolosamente la politica delle alleanze, ma è comunque quello di avere sufficienti forze per raggiungere un obiettivo specifico e parziale, che non potrebbe essere raggiunto con le nostre sole forze attuali. Ogni settore, ogni organizzazione, si muoverà o si è già mossa su questo tema perseguendo, come è naturale, il proprio interesse politico. La domanda che deve muovere il movimento rivoluzionario è per l’appunto questa: qual è il nostro interesse politico nel problema specifico? Ci muoviamo attendendo la distruzione/dissoluzione di quanto ancora resta, dando così una mano decisiva al disegno della «pacificazione», oppure ci muoviamo per la ricostruzione teorico-politico-organizzativa del movimento rivoluzionario?
La mobilitazione su questi temi può diventare un’occasione concreta attraverso cui ristabilire il confronto tra tutte le forze di classe che si pongono sul terreno del superamento rivoluzionario del capitalismo, nella direzione della società socialista. Un’occasione per riallacciare le fila di un dibattito i cui termini generali e storici sono stati posti a tutti i comunisti dalla sconfitta della lotta armata a partire dall’inizio degli anni ottanta: ridefinire, alla luce della ventennale esperienza del movimento rivoluzionario italiano, legale e clandestino, armato, semiarmato o esclusivamente politico di massa e d’avanguardia, una teoria, una strategia e una tattica in grado di far tesoro tanto dei successi politici e teorici acquisiti, come degli errori inevitabili nella prima fase della ripresa del movimento comunista rivoluzionario nel nostro paese.
Paolo Cassetta, Prospero Gallinari, Francesco Lo Bianco, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti