Necessità della rottura rivoluzionaria. Carcere di Cuneo – Documento di Renato Bandoli

«Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa più dove si vada»
Goethe

È ormai noto il contenuto del dibattito, delle dichiarazioni e delle prese di posizione che da qualche mese a questa parte, successivamente cioè alla pubblicazione delle famose «lettere aperte» di Bertolazzi, Curcio, Iannelli e Moretti, hanno attirato l’attenzione del mondo politico e istituzionale, trovando ampia «audience» presso gli organi d’informazione, intorno alla proposta di una «soluzione politica» del problema costituito dall’esperienza della lotta armata in Italia e della grande stagione di lotte che ha caratterizzato gli ultimi decenni di vita politica e di scontro sociale del paese.

Alla critica di ciò che con diverse formule viene indicato come «battaglia di libertà», «sbocco sociale e politico» del ciclo di lotte degli anni ’70, sono dedicate le considerazioni che seguono. Tuttavia non solamente di una critica s’intende qui trattare, ma bensì di mettere anche in luce alcuni nodi, degli interrogativi, che a parere di chi scrive sembrano rivestire un qualche interesse…, non fosse altro che per mostrare le contraddittorie e inaccettabili conseguenze a cui necessariamente conducono le premesse dalle quali muove la proposta della cosiddetta «soluzione politica». Premesse che, come cercheremo di chiarire, sono gratuite tanto sul piano logico quanto su quello storico di una disincantata e non strumentale considerazione dell’esperienza di lotta degli anni passati.

Diciamo anche che non mette conto qui addentrarsi in quella che sarebbe una fin troppo facile polemica circa la genesi e il modo con cui quella proposta è maturata ed è stata avanzata. Né interessa sottoporla ad un esame di ordine ideologico o moralistico, che avrebbe come unico risultato quello di lasciare le cose come stanno, non facendo comprendere una briciola del senso e del significato autentici della «soluzione politica» in questione, così come di ogni «soluzione» di carattere istituzionale.

Fatti questi brevi accenni introduttivi si ritiene necessario anzitutto prendere in considerazione per così dire la «costruzione» del discorso avanzato dai promotori, per cercare di evidenziare il contenuto delle tesi a cui essi appendono, come ad un chiodo, quadro e cornice del loro progetto.

I presupposti da cui muovono sono concentrati in poche proposizioni. Tre sono le enunciazioni perentorie che dovrebbero sostanziare la «legittimità» della proposta, ma che tuttavia mostrano il loro vero significato non appena si scenda un tantino sotto la superficie ambigua che avvolge le parole.

Esaminiamone dunque la sequenza.

In primo luogo si sostiene che sarebbero…“di interesse generale ma in modo specifico della sinistra di classe, promuovere uno sbocco politico e sociale” del ciclo di lotte degli anni ’70.

In secondo luogo si afferma che quel ciclo…“ha ormai esaurito il suo corso ma che si potrà dire realmente concluso solo quando tutti i compagni che vi hanno dato impulso saranno usciti di prigione”.

In terzo luogo, infine, si istituisce la singolare equazione per cui «sbocco politico e sociale» significa «oltrepassamento» e per il cui tramite si deduce che ciò…“vuol dire prendere atto della irripetibilità dell’esperienza compiuta…” “vuol dire, insomma, riconoscere una discontinuità tra quell’esperienza e il nostro presente”, giungendo poi alla «fulminante» conclusione che…“Mentre dunque prendiamo atto della fine di un ciclo, dobbiamo nello stesso tempo affermare l’impossibilità del suo oltrepassamento senza la liberazione dei soggetti che ne sono stati protagonisti”.

Siamo in presenza qui di un ragionamento soltanto apparente, che dissimula le grossolane contraddizioni a cui va incontro dietro categorie quali l’«oltrepassamento» e dietro formulazioni quali l’«esaurirsi» ma non di «concludersi» di un ciclo di lotte. La contraddizione è «sottile» solo per chi fabbrica sofismi!

Vediamo ora di chiarire nelle grandi linee in che cosa consiste l’apparenza di tutto il ragionamento.

Prima di tutto è falso che esista attualmente nel paese uno «spazio culturale e politico», a cui gli autori si richiamano e a cui vorrebbero richiamare il «senso di responsabilità» di ognuno al suo «potenziamento», allo scopo di promuovere la cosiddetta «battaglia di libertà», che non sia lo «spazio» consentito e sovradeterminato dallo stato, «spazio» in tutto dipendente dagli interessi di mediazione politica, di rifondazione e di stabilizzazione degli apparati e delle strutture istituzionali del regime democratico.

Le espressioni di autonomia e di autodeterminazione della classe, là dove esistono e nelle forme in cui esistono, infatti attualmente non sono dotate di quella forza necessaria per «aprire» un effettivo spazio di potere nella prospettiva di condurre una battaglia che si faccia carico anche dei «destini» dei prigionieri, all’interno dei riferimenti ideali, dei valori, delle aspirazioni e del patrimonio della storia della lotta di classe proletaria.

È questa mancanza di forza collettiva e organizzata che consente allo stato di occupare, quando non di fabbricarli addirittura, gli «spazi» possibili e di farne luoghi propri di mediazione dei conflitti sociali.

Ma procediamo.

È falso poi che esista un «interesse generale» alla promozione di una «soluzione politica». E ancor più falso è che esista «in modo specifico» per la «sinistra di classe».

Quale sarebbe il soggetto di un tale «interesse»?

Di quale «sinistra di classe» si va cianciando? Di quella che, come il Partito Comunista Italiano, ha apertamente sostenuto lo stato all’epoca della scellerata «solidarietà nazionale» e che da sempre è compromessa con le «esigenze» della «ragione di stato» di delegittimare quei fenomeni di antagonismo che sfuggano al suo controllo? Oppure ci si riferisce a quell’area politica e di opinione, unita sotto il celebre slogan «né con lo stato né con le BR» che prima ha accettato imbelle le leggi speciali e la cultura dell’emergenza sostenendo che la lotta armata avrebbe… “messo in crisi il rapporto fra classe operaia e democrazia” e che successivamente, essendo innegabile che la «lotta al terrorismo» è il veicolo anche per la rottura della «rigidità operaia» e per la repressione dell’autonomia di classe, è tornata sui propri passi scandalizzandosi per gli effetti dell’emergenza, attraverso il sostegno incondizionato alla dissociazione?

O, ancora, il rinvio è alla «idea» di una «sinistra» che in quanto a forza di movimento, energie, identità, espressioni di antagonismo, ecc., è pressoché inesistente poiché confusa dall’avanzata della selvaggia ristrutturazione capitalistica, dei suoi valori sociali, della sua aggressiva ideologia?

Va da sé che comunque lo consideri, qui il riferimento alla «sinistra di classe» e ad un «interesse» generale o specifico che sia, verso la «soluzione politica» è soltanto una concione demagogica.

Nel migliore dei casi sostenere l’affermazione di quell’«interesse» significa identificarlo con se stessi e con i propri particolari interessi di «ceto politico» di conseguire la libertà, e la cessazione dell’azione repressiva dello stato. Nel peggiore dei casi, invece, esso si identifica con lo stato stesso, cioè con l’esigenza del regime democratico di ristabilire il proprio «diritto» monopolistico all’esercizio della violenza e di ripristinare una «cultura della convivenza» dopo gli anni della «cultura dell’antagonismo».

In un caso come nell’altro ciò che si mostra è l’abbandono di qualsiasi riferimento che valorizzi in una prospettiva futura il senso autentico delle esperienze di lotta di massa e di avanguardia, spontanee e organizzate, armate e non, che si sono fin qui espresse.

Dal punto di vista del potere ciò che è in gioco risulta piuttosto chiaro: conseguire la capacità di mostrare l’immagine di uno stato che non solo «tiene» di fronte a fenomeni di rivoluzione sociale, ma che dà prova di «civiltà» e di «sicurezza», di «fermezza» e «umanità» quanto più esso sia in grado di percorrere la strada del «recupero» della «reintegrazione sociale» di tutti quei soggetti politici che si sono ribellati anche con le armi. L’immagine cioè di uno stato che tenta di coniugare i principi del liberalismo paternalistico con le moderne concezioni che ispirano le strategie di dominazione nei paesi capitalisticamente più avanzati.

Qualunque «sbocco politico e sociale» che apra spazi alla pacificazione e alla mediazione con le istituzioni va combattuto.

I «destini», l’esistenza e la resistenza dei prigionieri, così come il nodo della loro liberazione, sono questioni che possono essere assunte solamente in un ampio schieramento sociale antagonista, che individui nella liberazione dal carcere una delle condizioni irrinunciabili per il superamento degli attuali rapporti sociali.

Qui non è questione del “…pericolo… che un’esperienza così ricca e polivalente come quella da tutti noi compiuta… finisca dispersa nel silenzio o perda ogni contatto con le sensibilità del presente…”, ma bensì di fissare delle linee di demarcazione entro (e non «oltre») le quali la liberazione dei prigionieri appartenga ai contenuti di classe espressi nell’esperienza fin qui maturata e all’interno delle quali lavorare all’individuazione di quei processi che siano in grado di rompere il «rumoroso silenzio» sotto cui la si vorrebbe seppellire.

Al di fuori di questo orizzonte la liberazione può costituire un «problema» solo nella misura in cui la «libertà» venga assolutizzata ed eretta a valore astratto, solo cioè se essa venga separata dal contesto storico sociale in cui la lotta tra le classi si svolge. Può essere un «problema» solo se si recidono i legami che uniscono i propri «destini» individuali al senso collettivo che da sempre fonda e raccoglie le speranze e le istanze di emancipazione degli oppressi.

Ma veniamo ora ad uno dei nodi cruciali di tutto il ragionamento avanzato nelle «lettere aperte». Nodo gordiano che, come appunto nella leggenda, viene tagliato anziché sciolto.

Secondo gli estensori sarebbe necessario “… prendere atto della irripetibilità dell’esperienza compiuta” e si dovrebbe “… riconoscere una discontinuità tra quell’esperienza e il nostro presente”. (Sia detto per inciso: paradossalmente a questo riguardo sembra pertinente l’opinione espressa da P.L. Onorato sulle pagine del «manifesto» del 26/27 aprile, proprio a commento di queste dichiarazioni. “Il dubbio che sorge – egli scrive – è che la discontinuità non sia nelle cose, ma nelle persone, e che abbia a che fare con una sopraggiunta consapevolezza dell’inadeguatezza degli strumenti politici e culturali messi in campo allora e con la percezione della complessità della formazione sociale italiana che è di oggi come di allora”. Provenendo da un esponente della Sinistra Indipendente queste parole non sono certo sospettabili di «irriducibilismo» e sono piuttosto quelle del mentore che «illumina» di «coscienza democratica» ciò che rimane implicito e non detto in quelle «lettere aperte»).

Tornando all’ipotesi della «discontinuità» occorre dire subito che qui si pretenderebbe di rendere equivalenti l’esistenza delle forme in cui si è espressa la stagione di lotte degli anni ’70 e l’essenza che scorre nel sottosuolo della struttura stessa della società e in ogni sua relazione, così come scorre in ogni forma di organizzazione sociale dell’Occidente e ormai di tutta la terra: ossia la «necessità» del rapporto di alienazione, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di manipolazione e falsificazione della vita di milioni e milioni di essere umani.

È esattamente questa essenza, quest’anima sotterranea, a costituire la inevitabile, ma non eludibile continuità, il tratto unificante che lega passato e presente, e che impone con la forza della necessità di fare i conti con la violenza, con il suo esercizio da parte delle classi dominate.

Lo stato, il sistema dei partiti, gli apparati della cultura, ecc., in questi anni non hanno lesinato energie nel tentativo di ridefinire i criteri stessi in base ai quali ogni manifestazione di dissenso, di opposizione, di antagonismo, debba essere considerata quantomeno potenzialmente un atto di violenza, tentando di imporre, insieme, come unica strada percorribile quella della non-violenza, quella della cosiddetta «umanizzazione del conflitto sociale», e a tal fine non si sono risparmiate formule roboanti quali «secolarizzazione», «laicizzazione» «deassolutizzazione» delle identità e dell’impegno politici. (Qui mette conto rilevare appena di sfuggita come il «confronto» sugli anni ’70, da più parti auspicato, avvenga all’insegna dell’astrazione politica, della politica intesa come «arte del possibile» cioè del «mediabile»).

Ciò che è decisivo per il potere in quanto tale, cioè per ogni potere, è di possedere e mantenere il «monopolio della forza». Uno stato il cui «monopolio della forza» venga contrastato e messo in discussione da forze politiche e sociali ad esso antagoniste, cessa di essere propriamente un potere «legittimo» giacché la «legittimità» gli proviene solo e nient’altro che dalla forza e dal consenso che essa è in grado di riscuotere nella società. Ovviamente non s’intende qui la forza bruta, ma ad esempio quelle forme di potenza che il linguaggio della civiltà chiama «forza del progresso», «forza della libertà», «forza delle idee» …per giungere a quella forma più potente di forza che è oggi l’organizzazione della «razionalità scientifico-tecnologica» ormai presente nel «senso comune» e nella vita dei popoli e sulla cui operatività basano la loro azione gli stati e i grandi apparati amministrativi dell’esistenza umana sulla terra.

La «legittimità» del monopolio statale della violenza è la capacità della violenza di ottenere il consenso dei sudditi. All’interno di questa capacità si colloca l’esigenza delle istituzioni di ridurre all’uno, cioè all’unica «ragione» dell’organizzazione statale, la molteplicità di forme in cui si esprimono le spinte e le tendenze rivoluzionarie di trasformazione della società.

È precisamente questa «esigenza» a far sì che lo stato cerchi di recuperare, per così dire di «metabolizzare» organicamente tutto ciò che si è espresso nel corso di vent’anni di lotta di classe. In questa direzione il tramonto delle forme politiche rappresentative della lotta armata – che niente ha a che vedere con il permanere, ancor più radicale del suo senso rivoluzionario e di liberazione sociale – si cerca di identificarlo, in primo luogo, con l’esaurirsi delle ragioni e del diritto dei proletari all’esercizio collettivo e organizzato della violenza.

Non è certo con il ricorso ad espedienti linguistici che si traccia “… una demarcazione netta con qualsiasi forma di abiura e di rinnegamento”. Al contrario, è con l’essenza di cui si diceva precedentemente che si tratta di fare i conti, è di essa che si deve discutere. «Oltre» questo orizzonte i riferimenti alla «trasformazione sociale» e al «comunismo» sono farisaici. Così come ridurre il peso dei gravi problemi dell’oggi ad una questione riguardante il «patrimonio rivoluzionario» o l’invito ad un confronto «collettivo» per la «ricostruzione della memoria» degli anni ’70, insomma così come l’ordine di un discorso sul passato che non sia insieme lavoro, indicazione, apertura e impegno rivolti al futuro, è una «ripresa di parola» omologa alla «presa di distanza» dai propri percorsi di lotta.

Non è ulteriormente eludibile il compito in cui consiste l’impegno alla considerazione del senso della violenza all’interno dei processi di liberazione sociale. Un compito che, nella teoria come nella pratica, si colloca al di là dell’esplicitazione delle «ragioni» della violenza, giacché il suo esercizio non è senza verità alla condizione che, insieme, giunga ad esplicitarsi la consapevolezza del vero senso dell’alienazione in cui consistono le radici della violenza e in cui consiste questo sistema sociale.

Infine occorre rilevare che il «chiodo» a sostegno dell’ipotesi di una «discontinuità» tra passato e presente, è costituito dalla «evidenza» delle modificazioni intervenute nel corso degli ultimi anni nel paese e nel quadro internazionale.

Si vuole proprio indicarle richiamando la «complessità della formazione sociale italiana»? E sia. Ma in assenza di un qualsiasi tentativo, da parte dei sostenitori di questa ipotesi, di argomentazione al riguardo, non è facile liberarsi dal dubbio che qui si tratti semplicemente di un presupposto infondato ma eretto a criterio giustificativo al fine di abbellire la proposta della «soluzione politica», che verrebbe così ad assumere l’apparenza non di una resa allo stato ma alla «evidenza delle cose»!

Ma una tale decisiva questione da nessuno può essere liquidata frettolosamente.

Quali sono, infatti, i tratti che contraddistinguono i mutamenti avvenuti nella vita politica, economica, sociale e culturale del paese?

Quali le «differenze» tra ieri e oggi che consentirebbero di decretare la «chiusura» di un ciclo di lotta?

Quali i valori, i contenuti, il senso, i processi e le tendenze che questi mutamenti esprimono relativamente ai «destini» di milioni di uomini e donne?

Non è certo questa la sede per tentare di avanzare qualche indicazione al riguardo, s’intende solo da un lato sottolineare le incongruenze e la gratuità di certe formulazioni e dall’altro di richiamare l’attenzione di coloro che non abdicano né alla «critica delle armi», né alle «armi della critica» alla considerazione analitica di questi interrogativi.

Se è inevitabile che la rivoluzione più autentica e radicale non sia una semplice negazione dell’esistente ma, al contrario, ciò che conduca al tramonto l’orizzonte stesso al cui interno si costituiscono i grandi antagonismi del nostro tempo e al cui interno il lavoro umano, lo sfruttamento del lavoro ma anche la liberazione dallo sfruttamento, appartengono alle stesso senso di ciò che chiamiamo e che soprattutto viviamo come «costruzione» e «distruzione» di tutte le cose, allora non è solo questione della semplice «coscienza» del dominio e dell’alienazione prodotti dal capitalismo, ma è questione riguardante un’alternativa globale, un sapere e una critica cioè che siano in grado di mostrare in che consista il «nuovo ordine» capace di condurre al tramonto il pensiero, le opere, gli uomini e del dominio. In questa direzione allora è necessaria una ricerca e una riflessione collettiva intorno a ciò che conferisce senso e significato alle caratteristiche stesse del «cambiamento», della «trasformazione rivoluzionaria».

Al di là degli inevitabili rischi di equivoco a cui tutte le parole si prestano, si tratta di comprendere che soltanto c’è qualcosa di positivo nella prassi, nella nostra vita, allorché gli atti vengano pensati e vissuti come irrevocabilmente necessari.

Fin tanto che il solo significato possibile di ciò che viene indicato con l’espressione «prendere il destino nelle proprie mani» da parte delle classi dominate, consisterà nella necessità di contrapporsi energicamente all’esistenza di una classe politica e di un sistema sociale come quelli conosciuti nella storia di questo paese, nessuno si può illudere che ogni pur minima trasformazione sostanziale della struttura sociale possa evitare di essere un rivolgimento violento.

Renato Bandoli

Carcere di Cuneo, agosto 1987

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