Quale «ciclo storico» si è chiuso. Carcere di Novara

Da diverse parti sentiamo dire che un «ciclo storico» avrebbe esaurito il suo corso, che occorre riflettere sul recente passato ed infine trovare una «soluzione» al problema dei prigionieri politici per contribuire alla pacificazione della società italiana.

Rispetto a tali «teorizzazioni», visto che non sono per niente «neutrali», diventa sempre più urgente sviluppare una critica di segno rivoluzionario e noi, come compagni prigionieri, con questo breve scritto intendiamo soltanto contribuire ad essa.

Ma è proprio vero che un «ciclo storico» ha esaurito il suo corso?

A cavallo degli anni ’60 e ’70, mentre emergevano i primi sintomi della crisi del «modello di sviluppo» affermatosi dopo la seconda guerra mondiale, i paesi a capitalismo avanzato sono entrati in un periodo storico contraddistinto dalla rivoluzione tecnologico-industriale incentrata su microelettronica, biotecnologie e nuove fonti energetiche. Tutto ciò vale anche nel caso dell’Italia, nel paese a capitalismo avanzato in cui negli anni ’70 abbiamo avuto uno dei più alti livelli di conflittualità sociale e di radicamento della guerriglia. Quest’ultima è nata in un contesto ben determinato, ma i fattori fondamentali che ne hanno favorito l’emergere sono elementi caratteristici del presente periodo storico attraversato dal capitalismo.

Nel quadro di rapide e violente trasformazioni degli aspetti principali della società, si verificano periodiche esplosioni sociali che, mentre risultano antagoniste ai valori della civiltà capitalistica, alimentano una dinamica rivoluzionaria di cui la lotta armata è l’espressione più avanzata e matura. In Italia, insomma, si sono prodotte e si riproducono le precondizioni che rendono possibile, oltre alle periodiche esplosioni sociali, l’esistenza della lotta armata.

Se perfino dopo il pesante ridimensionamento subìto nel 1982 la lotta armata ha potuto continuare ad esprimersi è per due motivi: da un lato perché si accavallano vecchi e nuovi squilibri sociali, nonché vecchie e nuove contraddizioni fra il sistema politico e le masse popolari; dall’altro lato perché esistono forze rivoluzionarie che, ragionando sulla questione della rivoluzione nella società a capitalismo avanzato, ritengono impraticabile la via pacifica per poter superare il capitalismo.

Le forze rivoluzionarie, pur entro impostazioni generali diverse, puntano a rafforzare i legami con il proletariato, con il mondo degli oppressi e degli sfruttati. Al tempo stesso considerano impossibile la rivoluzione senza una lotta prolungata che, di fatto, rompa il monopolio statuale della violenza e della forza e si incammini nella prospettiva di spezzare la macchina burocratico-militare del moderno stato capitalistico, di eliminarne i vincoli politico-militari internazionali e di operare una radicale rottura anticapitalistica.

Lo sbocco di «civiltà» rappresentato dallo stato moderno solo ora tende ad evidenziare il suo limite intrinseco e storico. Con il dipanarsi della presente rivoluzione tecnologico-industriale, la crisi del Welfare-State ed i processi di rafforzamento del complesso militare-industriale e dell’esecutivo, lo stato a «democrazia rappresentativa» del capitalismo avanzato si erge come comunità illusoria di fronte ad un accresciuto bisogno di democrazia sostanziale e diretta; si staglia in modo più nitido come «capitalista collettivo» che legalizza la disumanizzazione del lavoro salariato e della vita, la crescente marginalizzazione e l’alienazione. A tale riguardo le conseguenze socio-politiche della prima ondata dell’attuale rivoluzione tecnologico-industriale, cioè dell’ondata sospinta fortemente dalle crisi economiche del 1974/75 e del 1980/82, danno solo una pallida immagine di quel che attende la società nei paesi a capitalismo avanzato e del neo-autoritarismo di cui si andranno ad ammantare gli stati occidentali.

Con questa chiave di interpretazione risulta chiaro, allora, il motivo per cui i paesi come l’Italia che negli anni ’70 hanno avuto un duro scontro di classe sono diventati quelli più prolifici nel campo dei sistemi di repressione e prevenzione. Non è un caso, quindi, che nel «laboratorio» italiano venga attualmente dibattuta una proposta di «soluzione» del problema dei prigionieri politici in cambio di contributi alla pacificazione sociale, proposta questa di cui è estremamente importante criticare il significato politico di fondo.

Per comprendere appieno quale sia la «posta in gioco», bisognerebbe prima di tutto essere consapevoli dei ritardi e dei limiti con cui, da parte dell’intera sinistra di classe, è stata affrontata la complessa tematica culturale e politica che la controffensiva della grande borghesia, scatenatasi soprattutto a partire dai primi anni ’80, è andata imponendo nei posti di lavoro e nella società nel suo insieme. Ritardi e limiti resi ancora più gravi dalla contraddittorietà con cui è stata affrontata la critica alla legislazione d’emergenza ed alla giustizia premiale.

In secondo luogo bisognerebbe capire che lo stato, dopo aver usato «pentiti» e «dissociati», ricerca ora nuovi e più sofisticati strumenti per spazzare via qualsiasi progetto rivoluzionario dal nostro paese. Non a caso è stata la DC a sollecitare la discussione del problema dei prigionieri politici esclusi dalle precedenti misure di giustizia premiale e, non per niente, è soprattutto questo partito che, dopo aver lasciato trapelare una precisa proposta di «soluzione politica» (la quale prevede determinate e differenziate riduzioni di pena), strumentalizza apertamente un desiderio di libertà per trasformarlo nella resa ai valori ed alla cultura del blocco sociale dominante egemonizzato dalla grande borghesia.

Oggi le iniziative della DC sono quelle più scaltre all’interno di un più generale indirizzo politico, fatto proprio dall’intero «sistema dei partiti», che persegue l’obiettivo di ingabbiare ogni teoria-prassi di trasformazione sociale nell’ambito dei criteri di compatibilità rispetto alle istituzioni dominanti. Le mosse democristiane, al di là delle cortine fumogene, sono addirittura giunte al punto di ricercare l’avallo dei prigionieri politici ad un processo di pacificazione che lo stato gestirebbe per intensificare l’attacco alle forze rivoluzionarie ed a tutte le forme di autodeterminazione dei movimenti di lotta.

Del resto è già iniziato l’uso strumentale del problema dei prigionieri politici negli scontri interni al «mondo dei partiti» ed agli apparati istituzionali, come è dimostrato senza ombra di dubbio dalle polemiche riguardanti la presunta esistenza di un filmato sulla prigionia di Moro. Inoltre è già incominciata una nuova ed estesa campagna di disinformazione e propaganda controrivoluzionaria che cerca di mettere in contrapposizione le «vecchie» alle «nuove» BR. A tale scopo i mass-media diffondono notizie secondo cui le «vecchie» BR sarebbero rappresentate esclusivamente dagli ex militanti disposti al «dialogo di pacificazione», mentre le «nuove» BR sarebbero, tanto per cambiare, dei mercenari al servizio di potenze oscure, dei trafficanti di droga, degli asociali oppure dei terroristi simili agli stragisti neri.

Di fronte a questa campagna piena di bugie, da un lato è necessario precisare che nessun gruppo di prigionieri è legittimato a «dialogare la pacificazione» a nome di tutti i prigionieri politici, men che meno a nome della sinistra di classe e delle formazioni rivoluzionarie combattenti. Dall’altro lato è necessario riconoscere l’esistenza di un filo rosso che lega tutta la storia delle BR, da quando è nata questa organizzazione fino ad oggi.

Secondo noi bisogna prendere atto che il periodo storico iniziato sul finire degli anni ’60, essendo legato indissolubilmente a quella che si presenta come la seconda grande rivoluzione tecnologico-industriale, è tutt’altro che esaurito. È arrivato il momento, altresì, di ribadire un netto rifiuto nei confronti di ogni forma di avallo alla cosiddetta pacificazione sociale. Quantomeno occorre difendere il diritto al rifiuto dell’ideologia dominante, dell’ideologia borghese nella sua versione «colta» della «post-modernizzazione» o in quella rozza del «post-ciclo storico», e quindi difendere il diritto di tutti coloro che, come noi, non vogliono diventare i consulenti di uno stato desideroso di stabilire il più rigido monopolio della forza e della violenza sulla pelle delle classi sfruttate ed oppresse.

Queste nostre considerazioni intendono forse sottovalutare la questione del carcere? No, non è questo il punto, ma il problema della liberazione dal carcere può essere affrontato correttamente solo all’interno di una ripresa della solidarietà proletaria e della lotta contro i programmi della borghesia imperialista, altrimenti non si farebbe che contribuire al processo di pacificazione auspicato dallo stato ed al corrispondente tentativo di addomesticare, e quindi distruggere, il patrimonio accumulato di esperienza rivoluzionaria.

 

Maggio 1987

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