Oggetto di questo processo è la rivendicazione, fatta in quest’aula, di un’azione condotta dalle BR per il PCC nel febbraio ’84 contro il direttore generale della Forza Multinazionale per il Sinai, quella forza preposta a tutela degli accordi di Camp David. È utile allora vedere meglio cosa hanno rappresentato e cosa rappresentano tuttora questi accordi.
Il trattato tra Israele ed Egitto, sottoscritto nel ’79 in un paesino americano, tanto per non lasciare dubbi su chi ne fosse padrino ed ispiratore, non è semplicemente un trattato tra due paesi che dovevano risolvere una questione di confini. Non lo è innanzitutto perché i due paesi sono appunto lo stato sionista, sorto artificialmente nel ’48 per volontà delle potenze imperialiste di allora, ed uno stato arabo, moderato quanto si vuole, ma parte fino ad allora integrante della Lega Araba e di un mondo islamico che aveva cercato, negli anni passati, di coalizzarsi per affermare i diritti nazionali di ciascuno stato dell’area contro il dominio imperialista occidentale.
Ma soprattutto questo accordo non si presenta come un episodio, ma vorrebbe essere un modello delle relazioni che dovrebbero intercorrere, nei progetti dell’imperialismo americano, tra gli stati di quest’area del mondo. Un’area il cui controllo riveste un carattere strategico per l’imperialismo: sia perché dalle sue risorse petrolifere dipende per il 65% l’Europa e per l’80% il Giappone, sia soprattutto per motivi geopolitici, in quanto si trova al centro di tre continenti e controlla tre mari di enorme valore politico, militare ed economico, nella prospettiva della guerra imperialista.
L’accordo di Camp David è appunto un primo sostanziale passo verso quella «pax americana» che cerca di ripristinare il dominio dell’occidente imperialista, ed americano in particolare, su un’area del mondo che era in qualche modo sfuggita al suo controllo dopo l’inevitabile fine del vecchio colonialismo fino alle più recenti impennate nazionaliste delle borghesie locali.
In questo quadro il ruolo della presenza stessa e della politica militarista ed espansionista dello stato di Israele ha certo un’enorme importanza, ma non può bastare a ricondurre sotto il dominio occidentale l’intera regione, limitandosi di fatto, fino ad oggi, al ruolo di cane da guardia, foraggiato a questo scopo, e senza badare a spese, dal tutore americano. Un ruolo, quello del cane da guardia, che Israele ha adempiuto e adempie tuttora, con una dedizione esemplare, all’esterno e all’interno dei suoi confini statali che, su un piano di diritto internazionale, sono davvero i più arbitrari del mondo: insediamenti sionisti originari imposti dalla Gran Bretagna, estensione militare degli stessi fino al ’48, nel ’56 occupazione del Sinai, di Gaza, Cisgiordania e Golan nel ’67 e del Sud Libano dall’82… senza contare le puntate su Beirut e le varie incursioni contro stati arabi vicini e lontani.
Tuttavia questo non può garantire la pacificazione imperialista dell’area; ma non perché, come sostiene anche una certa sinistra, questi atti di guerra vadano contro la pacificazione, bensì perché ad essi devono seguire, ed essere complementari, iniziative politiche ed economiche tese al dominio dell’economia e del conseguente sviluppo sociale e politico degli stati arabi dell’area, annientando le forze politiche rivoluzionarie o semplicemente nazionaliste e rafforzando le componenti filo-imperialiste delle borghesie locali.
Non c’è dunque alcuna contraddizione tra l’aggressione alla Giamahirja libica, con lo scopo di annientarne la direzione politica, e i massicci aiuti economici che gli USA hanno elargito al regime egiziano dopo la firma dell’accordo di Camp David. Così come non c’è contraddizione tra l’operazione «Pace in Galilea» (leggi: invasione del Libano) o i bombardamenti quasi quotidiani sui campi profughi palestinesi e l’attuazione di quel «Piano Marshall» per il Medio Oriente sponsorizzato da USA ed Israele, e che dovrebbe dare a quest’ultimo un ruolo anche economico nella regione, a tutto vantaggio di una pacificazione imperialista che interessa in primo luogo gli USA, ma che darebbe anche all’Europa la possibilità di espandere i propri settori economici in quest’area.
Di questo progetto, che dovrebbe interessare l’intera regione, comincia già a marciare una prima parte che riguarda direttamente i territori occupati da Israele nel ’67 e che prende il poetico nome di «piano per migliorare la qualità della vita dei residenti nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza».
In realtà la riuscita di questo piano migliorerebbe innanzitutto lo stato dell’economia israeliana, consentendole di sfruttare, più razionalmente e massicciamente di quanto già non faccia, le risorse e la forza-lavoro a basso costo palestinese.
Ma l’obiettivo è ancora più ambizioso: eliminare gli ostacoli che sbarrano il passo agli sviluppi previsti dall’accordo di Camp David, per arrivare ad un’amministrazione congiunta israelo-giordana dei territori occupati nell’ambito di una relativa autonomia locale, dentro una cintura militare israeliana. È questo l’aspetto politico del piano, sovrapponibile a quel «piano Reagan» per il Medio Oriente, che non è altro che la riproposizione, sotto altro nome, degli accordi del ’79.
Ma per fare questo occorre distruggere il ruolo politico dell’OLP; o cooptandone una parte per porla sotto tutela giordana, cosa che americani e giordani hanno tentato inutilmente di fare fino ad oggi, o costruendo un’alternativa ad essa, cosa anche questa già tentata (e fallita) da Israele con le «leghe di villaggio» negli anni scorsi. Tuttavia questa seconda strada viene oggi riproposta attraverso la corruzione di settori palestinesi dei territori occupati che possono vedere nella sottomissione al regime giordano una soluzione conveniente ai loro personali interessi. Si vuole insomma creare una struttura-fantoccio a livello economico-amministrativo per far passare una soluzione che escluderebbe tutti i diritti storici del popolo palestinese.
Di questo le masse palestinesi hanno ormai coscienza e stanno a dimostrarlo la loro eroica resistenza contro le forze militari di occupazione e le operazioni politico-militari condotte dalle organizzazioni combattenti palestinesi contro l’esercito israeliano in Libano e nella Palestina occupata, e contro i collaborazionisti locali di un’altra Camp David, stavolta israelo-giordana.
È una lotta che ha raggiunto ormai una generalizzazione ed un’intensità che non vengono messe in discussione neppure dalla bestiale repressione israeliana che colpisce quotidianamente la popolazione dei territori occupati e che, al pari di quella del regime di Pretoria contro la popolazione non bianca, non si fa scrupolo di incarcerare, torturare ed uccidere anche i bambini.
Una lotta che rende ingovernabile la Palestina occupata e sempre meno realizzabile qualsiasi soluzione liquidazionista perseguita dai regimi israeliano e giordano.
Qual è invece il ruolo dell’Italia in questa area del mondo?
Appena firmati gli accordi di Camp David, era stata subito allestita una forza multinazionale da inviare nel Sinai per sovrintendere alle varie fasi del ritiro israeliano, ma soprattutto per sottolineare la tutela imperialista su quegli accordi.
L’Italia ne fa tuttora parte e ne ospita anche il comando politico, il cui responsabile, Leamon Hunt, è stato l’obiettivo dell’azione condotta dalla nostra organizzazione e rivendicata a suo tempo anche in quest’aula.
Nel 1982 il governo italiano partecipa ad un’altra forza multinazionale, quella istituita col compito ufficiale di garantire l’evacuazione dei combattenti palestinesi da Beirut assediata dai carri armati israeliani.
Non si trattava di un’operazione umanitaria. In realtà era molto conveniente allontanare l’unica forza combattente che poteva rendere impossibile l’ingresso a Beirut dell’esercito israeliano, a meno che non si accettasse la preventiva distruzione della città ad opera dell’aviazione e dell’artiglieria delle forze di occupazione.
Di lì a poco la forza multinazionale si ritirò per permettere i rastrellamenti ad opera di israeliani ed esercito libanese, dei nazionalisti libanesi e dei palestinesi rimasti, rastrellamenti che si conclusero poi con il massacro di Sabra e Chatila.
Tornata sul posto, la forza multinazionale diede copertura militare alla sparizione di centinaia di libanesi nelle mani della polizia di Gemayel: gli ultimi ritocchi all’opera intrapresa dagli israeliani con l’invasione.
Ma alla fine il costo della presenza della forza imperialista rischiava di diventare davvero troppo alto; e i marines americani, per la prima volta dopo il Vietnam, sono costretti ad una ritirata precipitosa, seguiti dal contingente italiano ed incalzati dai nazionalisti e dalla sinistra libanese.
Da questo momento il governo italiano (ma anche la cosiddetta opposizione di sinistra) si impegnerà in una politica di mediazione tra gli interessi americano-israeliani e quelli di settori dell’OLP, sostenendo questi ultimi in tutte le loro pericolose scelte politiche degli ultimi anni.
Ma l’obiettivo di portare dalla parte dell’imperialismo una parte dell’OLP si è allontanato sempre più fino a diventare praticamente irrealizzabile; e al governo italiano non è rimasto altro da fare che dare la sua disponibilità al piano di sviluppo dei territori occupati, alla ricerca di un’alternativa minimamente credibile all’OLP, e legare ancora di più la sua politica per l’area a quella americana e dei laburisti israeliani.
L’Italia è, insomma, parte in causa; e lo è non solamente come agente dell’imperialismo USA, ma anche come soggetto imperialista alla ricerca di uno spazio di penetrazione economico-politico. Questo perché, nell’occidente imperialista, c’è una identificazione politica generale, su un piano strategico, tra i diversi soggetti imperialisti e, insieme, la logica concorrenza tra i diversi capitali alla ricerca di proprie occasioni di espansione. L’Italia è a pieno titolo un paese imperialista e persegue quindi una politica che cerca di conciliare una propria autonomia con gli interessi generali dell’occidente, identificati con quelli del paese più forte: gli USA.
Si tratta di una politica che può avere diversi accenti a seconda delle forze politiche considerate, ma sarebbe fantasioso cercare differenze di sostanza, strategiche, tra le posizioni di Andreotti (un tempo definito, con molta fantasia «filo-siriano») e quelle di Spadolini (fulgido ed ingombrante esempio di atlantismo e razzismo filo-israeliano). Entrambi rappresentano una borghesia che si è sempre richiamata ai cosiddetti «valori occidentali», pretendendo così di legittimare lo sfruttamento coloniale, il genocidio, il razzismo, l’annientamento culturale di interi popoli.
Sono i valori della borghesia, i valori di cui fascismo e nazismo non furono aberrazioni, ma solo le forme politiche storicamente determinate. Le democrazie imperialiste non sono certo state meno feroci in Vietnam, Algeria, Sudafrica e in mille altri luoghi dove il colonialismo e l’imperialismo si sono trovati di fronte alla resistenza eroica di popoli che difendevano la propria identità o anche la propria esistenza pura e semplice.
Non molto diversa è oggi la posizione della sinistra riformista, e del PCI in particolare. Il PCI sembra avere, sulla questione mediorientale, un solo problema: quello di scrollarsi di dosso le accuse che gli imperialisti hanno sempre fatto ai comunisti di essere antisionisti e perciò stesso antisemiti.
Difficile credere che si tratti solo di una revisione culturale, ed è più realistico pensare che dietro le attuali posizioni politiche del PCI sul Medio Oriente ci sia l’adeguamento coerente ad una posizione di internità costruttiva al sistema imperialista, con lo scopo di racimolare qualche briciola di potere e qualche spazio nello scenario politico nazionale (quello che conta).
E così dirigenti di questo partito partecipano a dibattiti sulla pace in Medio Oriente per parlare innanzitutto della sicurezza di Israele, per riaffermare l’identità di vedute del loro partito con il MAPAM israeliano, un partito in prima linea, insieme ai laburisti di Peres, nella politica di insediamento coloniale nei territori occupati.
Non ci interessa qui discutere della questione ebraica nella storia (che, del resto, è tutt’altra cosa), ma di fronte ad equazioni del tipo: antisionismo=antisemitismo, costruite dalla borghesia per rendere praticamente inattaccabile e legittimare l’esistenza e l’operato dello stato di Israele, è opportuno dire qualcosa sul sionismo oggi, sulle conseguenze che questo impianto ideologico ha avuto per la popolazione arabo-palestinese e sul ruolo che esso ha al servizio dell’imperialismo.
La confusione tra politica e religione, l’uso della seconda per giustificare le scelte della prima, è spesso servito all’imperialismo e, ancor prima, al vecchio colonialismo, per giustificare l’oppressione e lo sfruttamento in diverse aree del mondo. È allora opportuno smascherare queste squallide affermazioni di comodo chiarendo che oggi il sionismo è razzismo. Non solo perché lo afferma una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del’75, ma perché risulta evidente da qualsiasi analisi delle condizioni in cui vengono tenute le masse arabe dentro i confini di Israele, e soprattutto nei territori occupati, dove si sta realizzando una mostruosità istituzionale pari a quella generata dall’apartheid in Sudafrica: un bantustan sulle rive del Giordano, completamente dipendente su un piano economico, politico e militare dallo stato di Israele. Non è evidentemente un caso che tra questi due stati esista oggi una delle più robuste e convinte alleanze in campo internazionale, non meno solida di quella che lega entrambi questi stati agli USA. Alleanza di carattere economico e militare, che trova cemento nella necessità comune di difendere gli interessi dei «bianchi», dell’imperialismo, contro le rispettive colonie interne (cioè le popolazioni residenti), e giustificazione ideologica in compiacenti interpretazioni religiose.
È bene essere chiari: i comunisti sono contro il razzismo, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mascherato dalle più squallide motivazioni ideologiche o religiose. I comunisti sono contro quei «valori occidentali» che hanno dato copertura all’oppressione della maggior parte del mondo da parte di un pugno di paesi imperialisti. I comunisti devono spazzare via qualsiasi compromesso con l’imperialismo e perseguire l’unità con i comunisti e i rivoluzionari di tutto il mondo.
È proprio la lotta antimperialista insieme alle organizzazioni rivoluzionarie e comuniste dell’Europa occidentale e del Mediterraneo che la nostra organizzazione persegue attraverso la proposta e l’attuazione del Fronte Combattente Antimperialista. Un fronte che non vuole essere la riproposizione di una concezione solidaristica dell’internazionalismo, ma la condizione stessa della vittoria del processo rivoluzionario di qualunque paese di quest’area, in quanto persegue l’indebolimento del sistema imperialista a livello generale e nella nostra area geopolitica in particolare, senza il quale ogni tentativo rivoluzionario sarebbe votato al fallimento. Non solo perché ogni singolo processo rivoluzionario si troverebbe a scontrarsi con un nemico compatto e quindi enormemente più forte, ma anche perché la stessa rivoluzione proletaria, in ambito imperialista, deve esaltare il suo carattere antimperialista; nella periferia, perché si rivolga contro il suo vero nemico che sostiene le borghesie locali, e nel centro perché spezzi il coinvolgimento oggettivo del proletariato delle metropoli nello sfruttamento dei popoli della periferia, creando, nello stesso percorso del processo rivoluzionario, quell’unità tra il proletariato del centro e le classi oppresse della periferia indispensabile per la vittoria.
In questo quadro rimane fondamentale in tutto l’occidente imperialista la scelta strategica della lotta armata per il comunismo, che ha come unica alternativa il riformismo e la subordinazione agli interessi imperialisti. Strategia della lotta armata che, insieme all’attacco al cuore dello stato, e cioè alle politiche dominanti che nella congiuntura oppongono borghesia e proletariato, e alla centralità del proletariato metropolitano come soggetto rivoluzionario, costituisce l’ossatura strategica su cui fondano la loro linea politica, fin dagli inizi, le Brigate Rosse per la costruzione del PCC.
Si tratta di principi di strategia che le Brigate Rosse si sono date fin dalla loro nascita e che rimangono oggi fondamentali perché uguale nella sostanza è rimasto il quadro di riferimento internazionale e nazionale in cui ha cominciato a svilupparsi la lotta armata nel centro imperialista. Una strategia rivoluzionaria non nasce sulla base di presupposti politici congiunturali, ma dall’analisi della struttura stessa del sistema imperialista e dal patrimonio politico del movimento comunista internazionale e non può venire messa in discussione se non mutano le ragioni di fondo che l’hanno resa necessaria e possibile, a meno che, chi lo fa, non ritenga utile falsificare la storia e la realtà per tornaconto personale.
Per concludere, l’evoluzione politica e militare cui abbiamo assistito nell’area mediorientale mette in risalto la giustezza delle scelte politiche assunte dalle Brigate Rosse per la costruzione del PCC, in particolare l’attacco alla forza multinazionale di Camp David nella persona del suo direttore generale; in quanto gli accordi di Camp David informano ancora oggi tutti i modelli di rapporti tra gli stati dell’area mediorientale che l’imperialismo propone per rideterminare il suo dominio. Così come questa, tutte le altre azioni rivendicate dalle BR per il PCC dimostrano la validità e anche l’enorme potenzialità, ancora inespressa, della strategia della lotta armata nella lotta contro l’imperialismo e per la rivoluzione proletaria nel nostro paese.
Attaccare il cuore dello stato nelle sue politiche dominanti!
Rafforzare il campo proletario per attrezzarlo allo scontro con lo stato!
Guerra all’imperialismo!
Guerra alla NATO!
Promuovere e consolidare il Fronte Combattente Antimperialista!
Il militante delle Brigate Rosse per la costruzione del PCC Francesco Sincich
Genova, 28 maggio 1987