Il 21 aprile nella sezione femminile del carcere di Bellizzi Irpino e il 23 nella sezione speciale di Poggioreale abbiamo ritardato di mezz’ora il rientro nelle celle.
Queste iniziative si legano alla mobilitazione che in quest’ultimo periodo hanno attuato i prigionieri e le prigioniere nelle carceri di Novara, Voghera e Ascoli Piceno contro l’art.1 «sorveglianza particolare» della Legge Gozzini. La lotta di ieri, che ha visto uniti tutti i prigionieri della sezione speciale di Poggioreale, segna una piccola ma importante tappa anche contro le condizioni di vita infami imposte in questo carcere a partire dall’opera di «normalizzazione» attivata con pestaggi e violenza sistematica a cavallo fra l’82 e l’83.
Lottare nelle nuove condizioni createsi ultimamente nel carcere significa, prima di tutto, non stare alle regole del gioco che la riforma carceraria cerca di imporre attraverso i mille strumenti di individualizzazione del trattamento. Significa anche riaffermare la pratica di lotta possibile e necessaria, contro l’intero complesso della strategia di differenziazione, senza lasciarsi annichilire da provvedimenti ministeriali che vogliono frantumare sempre più l’identità antagonista e rompere ogni vincolo collettivo.
Oggi è importante rafforzare il fronte di chi lotta in carcere contro il carcere, perché solo muovendosi, con determinazione e lucidità, su questo terreno è possibile opporsi ad una strategia carceraria che attacca direttamente l’identità di classe e i livelli di aggregazione proletaria e organizzazione rivoluzionaria.
La lotta è comunicazione antagonista e rivoluzionaria, perché svela il senso reale di una strategia antiproletaria quale la riforma di Amato, cogliendone il nesso che lega indissolubilmente l’ideologia premiale alla «sorveglianza particolare» ritagliata sul singolo prigioniero. In questa fase dello scontro non si può fare riferimento ad un movimento contro il carcere, è necessario quindi cominciare a praticare quelle rotture significative e quelle iniziative indispensabili per cominciare a costruire nel movimento di classe e rivoluzionario il terreno dell’unità della lotta contro il carcere, per incidere realmente sulle modificate condizioni dello scontro.
Questi passaggi oggi non sono già dati, ma vanno costruiti con intelligenza e determinazione ribadendo il significato di rottura della lotta in carcere e ricucendo il filo delle iniziative proletarie e rivoluzionarie che si vanno sviluppando nei vari poli metropolitani. Questa scadenza unitaria di lotta contro l’art.1 «sorveglianza particolare» è un primo passo che si inserisce dentro quella prospettiva, e la capacità di rilanciarlo ad un livello più adeguato dentro e fuori del carcere può costruire le condizioni necessarie per una mobilitazione più ampia e di largo respiro.
Il processo di trasformazione del sistema carcerario italiano da dispositivo di contenimento in strumento attivo ha reso il carcere assai più funzionale che in passato alle esigenze di rifondazione capitalistica. È un dato che attraversa tutte le strategie di controllo sociale per come in questi anni si stanno dispiegando, creando un complesso di dispositivi antiproletari e controrivoluzionari più adeguati ad incidere sulle contraddizioni attuali.
Il filo conduttore di questa strategia è il tentativo di trasformare le linee dello scontro vissuto in questi 15 anni, come le contraddizioni che emergono oggi nelle diverse realtà di classe, in terreni di dialettica compatibile con l’ordine della borghesia imperialista.
La gestione Amato del sistema carcerario in questi anni ha operato incessantemente in questa direzione coniugando «con lungimiranza» le esigenze di «risocializzazione e sicurezza». Il carattere principale di questo «nuovo corso» espresso formalmente con la Legge Gozzini dell’ottobre ’86 è quello di una razionalizzazione e istituzionalizzazione della strategia del trattamento differenziato e individualizzato e del «reinserimento sociale/risocializzazione» sperimentato negli ultimi anni.
Il principio di base è che l’unico garante ed interlocutore rispetto alle condizioni di vita e alle scelte di ogni soggetto imprigionato è lo stato, a cui ognuno deve rapportarsi individualmente. In questi termini le «aperture» e le varie soluzioni istituzionali, così come il meccanismo dei premi e delle punizioni, sono il terreno su cui marcia la «rieducazione» dei prigionieri e l’unico spazio di rapporto concesso con «la società».
Al contrario, qualsiasi forma di comportamento e organizzazione tendente a porsi al di fuori degli spazi istituzionali va incontro ad una gamma di trattamenti differenziati e di restrizioni.
Questo aspetto ripropone l’irrisolvibile contraddizione di ogni strategia controrivoluzionaria della borghesia.
Riforma è sempre annientamento dell’identità di classe perché per ricondurla dentro la compatibilità istituzionale deve distruggere il suo carattere antagonista.
Il perfezionamento delle politiche e delle tecniche di «risocializzazione e sicurezza», posto in essere dalla Legge Gozzini, rende evidenti le linee di attacco e di annientamento dell’identità antagonista del proletariato prigioniero e, in particolar modo, dei livelli di organizzazione collettiva all’interno del carcere. Lo stato ha creato le condizioni oggettive politiche per porsi come unico interlocutore credibile che offre – con garanzie di legge – la possibilità di modificare le condizioni individuali di detenzione fino a quelle di «liberarsi».
Questa «offerta», con la nuova legge, diviene una imposizione. La tendenza, infatti, che si vuole portare a maturazione è quella dell’inevitabilità per il prigioniero di fare una scelta – prima di tutto individuale – dove l’alternativa è tra l’escalation di premialità (dalle condizioni più «umane», ai permessi, licenze, semi-libertà…) e il suo esatto opposto. È anche in quest’ottica «punitiva» che l’elasticità e flessibilità dell’art.1 consente l’opportunità di graduare le restrizioni a vari livelli, fino all’isolamento periodico in «luoghi adatti» (braccetti). Di fatto oggi non esiste un «terreno neutro», una situazione che funzioni da semplice «contenitore»; il carcere è attivo ad ogni livello, per qualunque figura o soggetto prigioniero.
In pratica per i prigionieri la condizione per ottenere la libertà è quella della perdita della propria identità, il rendersi compatibili alle possibilità di recupero e quindi strumento più o meno diretto di collaborazione con l’istituzione, parte attiva della propria «rieducazione» e immediatamente – di fatto – elemento di rottura dei vincoli collettivi e di autorganizzazione proletaria. L’alternativa deterrente e ricattatoria è l’aumento di repressione attraverso lo strumento flessibile della «sorveglianza particolare».
Il carcere diviene strumento di sperimentazione attiva, al quale nessun soggetto può sottrarsi. Anche la semplice passività diviene di fatto disinnesco delle tensioni antagoniste e dell’identità collettiva. È proprio l’ambito collettivo il bersaglio privilegiato dell’iniziativa dello stato, che vuole distruggere le possibilità di aggregazione e quindi di lotta. Le carceri speciali, l’art.90, hanno avuto in questi anni la funzione di concretizzare la strategia della differenziazione «per aree», con lo scopo di frantumare gli aggregati di proletari antagonisti e di prigionieri della guerriglia.
Ma questa strategia, proprio per l’omogeneizzazione delle condizioni di detenzione per vaste aree di prigionieri che comportava, non eliminava la possibilità di organizzarsi e di lottare collettivamente, come si è verificato in questi anni in molti carceri speciali.
L’individualizzazione del trattamento – cioè il porre formalmente identiche condizioni per tutti ma differenziate in base all’identità e all’atteggiamento individuale – è il tentativo di risolvere questa contraddizione stabilendo un regime differenziato non legato ad una qualche emergenza, ma ad un vero e proprio status di «sorvegliati particolari» destinato a prolungarsi indefinitamente nel tempo. Il «provvedimento a termine rinnovabile», infatti, rappresenta il massimo del potere discrezionale dello stato ed è un mezzo per attivare una differenziazione a tempo indeterminato!
Con l’applicazione sempre più articolata della riforma, è un’unica e complessa strategia che determina ogni livello di condizione e trattamento individuale. E la lotta contro la propria particolare condizione diventa sempre più difficile per il principio stesso della divisione-disgregazione che sta alla base dell’individualizzazione e che rende più precari e discontinui i vincoli di aggregazione collettiva. Dal gennaio all’aprile ’87 il provvedimento di «sorveglianza particolare» è stato applicato gradualmente ad un gruppo ristretto di prigionieri e via via intensificato. Dai prigionieri dei braccetti ad alcuni prigionieri antagonisti o in posizione di rottura con lo stato, dai prigionieri della guerriglia italiana, ai combattenti arabi e palestinesi.
Già in questa prima fase la politica ministeriale ha cominciato ad investire sia il circuito speciale sia i giudiziari sottoponendo singolarmente a questo provvedimento prigionieri che si trovano in condizioni assai diverse (da Novara a Voghera, da Rebibbia a Poggioreale, da Cuneo a Spoleto…). Ciò rivela la complessità della nuova strategia di differenziazione, la sua funzione nel più ampio quadro di ridisciplinamento del proletariato prigioniero e di rifondazione del sistema carcerario.
Comunque il senso concreto di questo aspetto della riforma comincia a manifestarsi in modo sempre più chiaro in alcune situazioni. Una prima direttrice è l’attacco all’identità dei prigionieri della guerriglia italiana. Esso tende a risolvere una contraddizione critica per lo stato, l’esistenza in Italia di una opzione rivoluzionaria guerrigliera e quindi l’area dei comunisti prigionieri che continuano ad essere interni ai processi di organizzazione e costruzione guerrigliera deve essere scremata e ridotta all’osso per poterla ridimensionare come entità politica.
Una seconda direttrice si concretizza nel trattamento speciale e particolarmente duro riservato, nei braccetti e in altri luoghi, ai combattenti arabi e palestinesi prigionieri la cui presenza é sempre più rilevante nelle carceri italiane. Questo é anche il segno tangibile del ruolo dell’Italia nello scontro tra imperialismo e lotte rivoluzionarie in Europa e nel Mediterraneo.
Una terza direttrice è l’attacco a quei gruppi di prigionieri che rifiutano di «farsi rieducare», che si organizzano e lottano per difendere la loro identità antagonista. In questa prospettiva l’art.1 é destinato ad avere un ruolo di punta in ogni ambito carcerario. È una vera e propria spada di Damocle che può colpire chiunque non sta alle regole della gestione del ministero. Questi sono i punti dove il sistema carcerario «riformato» – il tanto sbandierato carcere aperto – mostra con più evidenza la sua reale natura di dispositivo di annientamento dell’antagonismo proletario. È da qui dunque che bisogna partire per contribuire a ricostruire le condizioni di lotta e mobilitazione contro il carcere.
In questi anni nel contesto generale di arretramento dell’iniziativa di classe e di debolezza del movimento rivoluzionario, si è determinata anche la mancanza di un punto di vista rivoluzionario sul carcere. Anzi, si può dire che con l’avanzare del progetto di dissociazione-resa il carcere è diventato un importante veicolo di compatibilizzazione e «recupero sociale». E questa funzione svolgono anche le recenti iniziative di ex-rivoluzionari che affermano «l’oltrepassamento» definitivo della lotta armata, perché il riflesso carcerario di questa nuova svendita è il sostegno evidente della riforma e dei suoi contenuti di «risocializzazione e sicurezza».
Al punto di vista di classe si sostituisce quello dell’individualizzazione di Amato!
Come comunisti prigionieri non possiamo che affermare la critica rivoluzionaria al carcere e far vivere la consapevolezza della necessità della lotta come unica possibilità realmente «pagante» in termini di aggregazione delle varie figure antagoniste e della propria identità di classe e rivoluzionaria su questo terreno.
In questa congiuntura il terreno dello scontro in carcere è diventato sempre più politico, perché ha assunto un livello di complessità mai raggiunto in passato e, contemporaneamente, si è ridefinita la qualità complessiva dello scontro di classe in questo paese.
Non è possibile per dei comunisti prigionieri concepire la propria internità al processo rivoluzionario astraendolo dalle condizioni concrete in cui si colloca la propria vita e militanza, magari in attesa di «tempi migliori» per riprendere l’iniziativa. È invece estremamente importante dare il proprio contributo alla costruzione di un punto di vista rivoluzionario e di una pratica contro il carcere all’interno del movimento rivoluzionario e di classe.
Innanzitutto perché non si può rinunciare a costruire coscienza rivoluzionaria in una situazione in cui i proletari vivono oggettivamente uno scontro diretto con il potere borghese. In secondo luogo perché il sistema di segregazione carcerario ha sempre avuto ed ha un ruolo di grande importanza nella lotta di classe, proprio perché si pone materialmente contro i processi di organizzazione proletaria e rivoluzionaria.
Con questa consapevolezza si può cominciare a ricostruire nella lotta e nella comunicazione antagonista e rivoluzionaria quel tessuto di rapporti e relazioni collettive che possono spezzare la strategia di isolamento che vuol fare «terra bruciata» nel carcere e attorno al carcere.
Noi possiamo esprimere una pratica rivoluzionaria in primo luogo a partire dalle nostre condizioni di segregazione, di prigionia, per negarle, per liberarci e per impedirgli di funzionare contro di noi, continuamente nel possibile. La capacità di inserire questa pratica nel complesso di tensioni e lotte che caratterizzano il movimento proletario è il primo vettore di internità e contributo attivo al movimento rivoluzionario.
A partire da questa chiarezza, si può sviluppare un processo comunicativo ampio con realtà proletarie, con collettivi e situazioni di compagni con cui costruire momenti di lotta comune contro il carcere e il complesso delle sue strategie antiproletarie. Momenti significativi e di rottura che vadano al di là del terreno della solidarietà, e che riescano a cogliere il nesso profondo che lega il carcere e la società metropolitana. Certamente non si tratta di promuovere una qualche centralità del carcere o di assolutizzare questo terreno specifico di lotta, ma di farlo vivere dentro lo sviluppo dello scontro di classe nella metropoli imperialista.
Con queste iniziative intendiamo affrontare da subito la strategia di rifondazione del carcere metropolitano per rilanciare con forza e determinazione un punto di vista di classe e rivoluzionario su questo terreno.
Per noi lottare significa comunicare con tutti coloro che hanno scelto di criticare lo stato di cose presenti…
Un gruppo di comunisti prigionieri del processo alla Colonna Napoletana della Brigate Rosse
Napoli, 24 aprile 1987