È noto, per essere stato oggetto di ampie discussioni e polemiche riportate dagli organi di stampa ai tempi della celebrazione del cosiddetto “1° troncone” di questo processo, che ciò di cui qui si discute non è la configurazione giuridica e penale di un “reato” politico che va sotto il nome di “insurrezione armata“ e “guerra civile”, bensì la questione dell’intera vicenda storico-politica della lotta armata promossa, organizzata e sviluppata dalle Brigate Rosse in questo paese.
Non è questa esperienza storica a dover dimostrare davanti ad un tribunale la propria legittimità. Al contrario, siete voi togati sacerdoti del culto borghese dell’“ordine costituzionale” a dover mostrare che la democrazia reale e il capitalismo reale non sono violenza estrema alla vita e ai destini di milioni di esseri umani.
Non solo le leggi della “giustizia” dell’ordinamento democratico non sono legittimate da niente altro che dalla supremazia della loro forza nella pretesa di processare la lotta armata, ma guardando le cose dappresso, secondo la logica stessa che guida quelle leggi, l’unico “delitto”, l’unico “errore” di cui ci si può accusare è tale da dover essere, contemporaneamente, l’implicita confessione, da parte di quella “giustizia”, di essere sempre aperta al rischio del proprio non riconoscimento e alla irruzione di forze “sovversive” contrapposte alla democrazia.
L’unico “reato”, che giudici e tribunali nemmeno sospettano, del quale perciò non può esservi traccia in codici e sentenze, è quello per cui questa esperienza non è ancora riuscita ad esercitare una violenza ed un potere più efficaci della violenza e del dominio in cui consiste l’operare della democrazia. Questo discorso giunge cioè ad affermare che la legge ha la medesima essenza del “delitto” che essa pretende di proibire e che solo di fronte alla supremazia della potenza della “legge” il “delitto” è “delitto”, ossia una forza più debole.
Non si deve forse ammettere che mentre si pretende di “giudicare” chi ha osato sfidare l’immensa violenza che è questo sistema politico-sociale capitalistico, insieme si confessa anche che non è solo inevitabile che la democrazia venga contrastata, ma che le forze rivoluzionarie che la contrastano col dichiarato fine del comunismo hanno la medesima legittimità e perciò lo stesso diritto di mettere in opera progetti di sovversione sociale?
La legittimità della democrazia reale, inscindibilmente legata ai contenuti costitutivi del capitalismo reale, in quanto impresa istituzionale di carattere politico, cioè in quanto Stato, può fondarsi solo in virtù di ciò che M. Weber definisce come “monopolio legittimo della violenza”. Se tuttavia si cercasse una base positiva, razionale e incontrovertibile di tale legittimità si scoprirebbe che essa può consistere solo nella fede posseduta dai dominati che tale organizzazione statale abbia un carattere di legittimità. Il monopolio della violenza è tale anche in quanto esso si regge su quella fede, quella convinzione che esso sia legittimo. Luigi Einaudi, che certo nutriva una solida fede nelle democrazia, era ben consapevole che essa «…. è un mito, il quale non ha in sé alcuna virtù maggiore di quelli che in passato furono suoi concorrenti».
Ma, ci si dovrà pur chiedere, qual è la verità di questa fede? Non ci si può liberare tanto frettolosamente dalle questioni sollevate da un simile problema.
La “verità” e la “ragione”, invocate dalla cultura liberal-democratica a sostegno della condanna della violenza rivoluzionaria, si costituiscono storicamente e socialmente solo in virtù della forza che hanno di far tacere ogni voce contrastante.
Lo Stato, elevandosi ad unico depositario “legittimato” all’uso della violenza, cerca di esercitare un’ulteriore dichiarata funzione di potere, la quale non muove solo nel senso della repressione di ogni forza sociale che si disponga all’esercizio della violenza rivoluzionaria, ma si innerva lungo i processi integrativi del dominio tentando di ridefinire i criteri stessi in base ai quali ogni manifestazione di antagonismo di classe viene considerata un “atto violento”, cercando così di imporre come unica strada percorribile quella della non violenza, dell’agire politico come “arte della mediazione”, del compromesso e, in sostanza, dell’assoggettamento.
Solo in tempi di idiozia teorica e di filisteismo politico come quelli attuali si può dissertare sulla “fine del comunismo”, sul “valore universale della democrazia” e altre amenità del genere, mentre un pugno di monopoli economici e di potentati politici mondiali estendono ormai all’intero pianeta il loro dominio fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sull’impoverimento di interi popoli, sull’alienazione dell’uomo da sé e dalla natura, sulla distruzione di intere regioni del pianeta. Fin tanto che l’unico possibile significato dell’emancipazione umana e delle classi dominate consisterà nella necessità di contrapporsi risolutamente e – come ebbe a dire lo scrittore Karl Kraus – “disperatamente” – all’esistenza di una classe politica e di un ordinamento economico-sociale come quelli che dominano il mondo, nessuno può illudersi che ogni pur minima trasformazione radicale della struttura di questo sistema possa evitare di essere un rivolgimento violento.
Renato Bandoli
Roma, 12 dicembre 1989