Per una conoscenza critica dei lineamenti essenziali della “perestroika”. Carcere speciale di Novara, Blocco B – Il militante delle BR-PCC Sandro Padula

Premessa

Secondo i consiglieri di Gorbaciov la “perestroika” rappresenterebbe una serie di processi interdipendenti che si manifestano a livello economico, sociale, politico, culturale e scientifico.

Indubbiamente, però, le basi fondamentali della “perestroika” risiedono nella ristrutturazione economico-produttiva con cui dall’esaurito “modello estensivo” si dovrebbe passare ad un “modello intensivo” di utilizzo delle risorse naturali e della forza-lavoro. Per questo motivo il presente articolo sarà incentrato sull’analisi dei lineamenti essenziali della teoria e della prassi della “perestroika” rispetto ai problemi economici.

“Perestroika”, metodi gestionali dell’economia e sistema produttivo

Tanto per cominciare, la “perestroika” prevede una ristrutturazione economico-produttiva caratterizzata dal passaggio da metodi gestionali prevalentemente “amministrativi”, che solo in parte vennero limitati con le “riforme economiche” degli anni ’60, ad altri particolarmente basati sulla valorizzazione e sullo sviluppo dei criteri e dei rapporti “monetario-mercantili”.

La pianificazione tende a divenire più flessibile ed a combinarsi con una più profonda mercificazione dei valori d’uso. Con una determinata combinazione fra “piano” e “mercato”, mentre il sistema delle commesse statali viene notevolmente ridotto, la distribuzione dei mezzi di produzione cessa di essere centralizzata e vede accrescere il proprio grado di monetizzazione, ad esempio attraverso rapporti diretti fra le imprese produttrici di mezzi di produzione e le imprese acquirenti, oppure persino con lo sviluppo di rapporti mediati da agenzie di commercio all’ingrosso.

La “perestroika” marcia quindi sulle gambe di una più ampia autonomia economica dei principali organismi produttivi: l’impresa, il complesso di aziende, il kolchoz, la cooperativa, ecc. Questi organismi, che dovrebbero compiere un salto tecnologico complessivo per creare le basi di un “modello di sviluppo“ caratterizzato da un’alta produttività del lavoro e da un certo risparmio nell’utilizzo delle materie prime, puntano a sottoporre se stessi al pieno dominio dei soli criteri quantitativi del calcolo economico, cioè dei soli criteri di “razionalità” economica i cui parametri fondamentali sono rappresentati dagli aspetti monetari e mercantili.

Gli organismi produttivi dovrebbero inoltre adottare un “sistema di autofinanziamento e di autogestione”, ma in questo sistema l’autogestione sarebbe quasi simile a quella del “modello jugoslavo” e quindi, di per sé, non potrebbe portare allo sviluppo di una effettiva autogestione sociale e politica. A ciò bisogna aggiungere che, mentre una delle prime riforme connesse alla “perestroika” garantiva ai lavoratori il diritto di eleggere i dirigenti delle imprese, attualmente i manager vengono nominati e non più eletti.

Ad ogni modo, l’esperienza storica dimostra che l’autogestione intesa in senso strettamente economico-aziendale non garantisce di per sé un effettivo controllo dei lavoratori e della società rispetto alle condizioni concrete della produzione e della vita quotidiana e collettiva.

Precisato questo, una delle novità più importanti che emerge con l’adozione del suddetto “sistema di autofinanziamento e di autogestione” è quella secondo cui lo Stato non ha più il dovere di aiutare le imprese statali in difficoltà. In pratica un’impresa statale incapace di rispettare i propri impegni ed incapace di superare eventuali crisi non avrebbe la garanzia di ricevere aiuti statali. Al tempo stesso, anche per contrastare la tendenza alla crescita della disoccupazione, i “collettivi di lavoro” possono prendere in affitto dallo Stato l’impresa, diventando proprietari del prodotto finito, e possono pure diventare proprietari dell’impresa stessa avuta in leasing (legge sull’affitto del 23-11-1989, in vigore dal 1° gennaio ’90).

La proprietà statale, invece, tende ad essere ridotta complessivamente dall’odierno 80-85% a circa il 30%. La legge sulle forme di proprietà, approvata il 6 marzo ’90, prevede il diritto alla proprietà di Stato, collettiva, cooperativa, azionaria e quella dei “cittadini”, nonché tre diversi livelli: federale (dell’URSS), repubblicana e comunale. Questa legge stabilisce che le risorse naturali sono “patrimonio inalienabile dei popoli abitanti su un dato territorio”; inoltre prevede “la proprietà individuale” di una serie di beni (case, piccoli appezzamenti di terreno, azioni, ecc.), il connesso diritto di eredità e compravendita, nonché il diritto alla proprietà individuale di piccole-medie imprese e al relativo potere del proprietario di “concordare con un altro cittadino l’impiego del suo lavoro (manodopera)… purché ne sia garantito il pagamento, le condizioni di lavoro e i diritti economici e sociali previsti dalla legge”. Implicitamente viene esclusa la “proprietà individuale” delle grandi imprese. Queste ultime, infatti, dovrebbero rimanere statali, così come le industrie della difesa, quelle dell’energia e i servizi di particolare utilità sociale come quello ferroviario.

Rispetto all’agricoltura il 28 febbraio 1990 è stata approvata una legge che sancisce il diritto dei contadini di scegliere liberamente se lavorare in una fattoria collettiva oppure coltivare il proprio appezzamento individuale. In questo secondo caso i contadini possono dare in eredità la terra, ma non possono venderla, regalarla, ipotecarla o darla in subaffitto (vedasi Sole 24 ore, 1 marzo 1990). La legge stabilisce che le fattorie collettive debbono cedere a singoli contadini appezzamenti individuali di terra da coltivare e che i Soviet locali (di città, regione e repubblica), e non più i ministeri, debbono assegnare e controllare la gestione agraria.

In linea generale, il ridimensionamento della proprietà di Stato sembra essere sempre più complementare al processo di “snellimento” dell’apparato burocratico-statale.

La “perestroika”, infatti, tende ad eliminare gran parte della burocrazia amministrativa centrale e quella delle diverse repubbliche che compongono l’URSS. Contemporaneamente provoca la mobilità dei “lavoratori in eccesso”, proprio perché provoca la riduzione dei comparti considerati inefficienti e superflui dell’apparato burocratico e di quello produttivo. Accelera inoltre il processo di ridistribuzione della forza-lavoro fra i diversi settori e spinge verso una profonda riforma del sistema dell’istruzione.

Con la “perestroika” la quota delle donne inserite in occupazioni (remunerate) con giornata lavorativa normale potrebbe subire una leggera riduzione (oggi tale quota è di circa il 90%), mentre con diverse forme di part-time dovrebbe essere “valorizzata” l’attività socio-economica di tutti i gruppi della cosiddetta “popolazione non attiva” (pensionati, casalinghe, invalidi e studenti) allo scopo di affrontare la specifica situazione socio-demografica creatasi (come effetto storico delle perdite del periodo bellico) e per dare una risposta al problema della carenza della forza-lavoro in alcune zone del paese, nella sfera dei servizi e anche nel settore agricolo.

Dagli anni ’50 ad oggi gli occupati nel settore agricolo sono passati dal 35-40% a circa il 20% della “popolazione attiva”. Questa diminuzione è stata affiancata da fenomeni che hanno portato ad acuire il problema alimentare e all’insorgere di una carenza di lavoratori agricoli. Tale carenza, inesistente invece in una repubblica come l’Uzbekistan che si caratterizza per la crescita costante di un popolazione agricola attualmente di circa il 60%, è causata soprattutto da un livello relativamente basso di remunerazione per la forza-lavoro occupata nel settore e da cattive condizioni di lavoro. Ancora più acuto è il problema della carenza di forza-lavoro nella sfera dei servizi. Di conseguenza l’accrescimento dell’attività socio-economica della “popolazione non attiva” dovrebbe essere indirizzato soprattutto nella sfera dei servizi e dovrebbe essere effettuato anche tramite lo sviluppo di una “rete di cooperative di tipo nuovo”, una maggiore utilizzazione degli appalti e la crescita delle attività lavorative individuali.

Il Goskomtrud (Comitato statale per i problemi del lavoro) ritiene che debba essere aumentata l’occupazione connessa alle cooperative e al lavoro individuale; auspica l’ampliamento delle diversità nelle forme di organizzazione del lavoro e la suddivisione “ottimale” degli occupati fra settore industriale e settore terziario. Secondo stime di economisti sovietici, in URSS entro il 2000 potrebbe verificarsi una riduzione dell’occupazione pari a 15 milioni di unità nel settore manifatturiero delle imprese statali ed una gran parte dei lavoratori disoccupati sarebbe costretta a cercare lavoro nel settore terziario. Per questo motivo gli uffici di collocamento tendono già a trasformarsi in una rete di “centri per l’occupazione”, in una rete che avrebbe la funzione di “osservatorio delle professioni” e di offrire garanzie contro la disoccupazione.

Ufficialmente non viene rifiutato il principio di garantire la piena occupazione; si ritiene che essa dovrebbe essere realizzata in termini di “occupazione efficiente”, ma dietro il velo dell’“efficienza” si comincia ad accettare come qualcosa di normale il fenomeno della “disoccupazione temporanea”, anche visto e considerato che nella delibera comune del PCUS, del governo e dei sindacati del 29 gennaio 1988 per la prima volta in URSS si è iniziato ad usare il concetto di “sussidio di disoccupazione temporaneo”.

Le prime vittime della “perestroika”, in termini di disoccupazione più o meno “temporanea”, sono una buona fetta degli occupati nell’apparato burocratico-amministrativo, proprio perché questo apparato dovrebbe essere ridotto quasi della metà in tempi abbastanza brevi, ma già nei primi anni ’90 potrebbe cominciare a svilupparsi anche la disoccupazione in conseguenza della ristrutturazione tecnologica e produttiva.

Secondo l’economista Ilja Levin, di fronte alla suddetta dinamica, potrebbe essere necessario fare ricorso a misure già ampiamente conosciute nei paesi a capitalismo avanzato: cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, liste di collocamento straordinario, corsi di riqualificazione per i lavoratori licenziati e così via.

“Perestroika” nel sistema finanziario e creditizio

Se la “perestroika” implica una grande trasformazione nella struttura produttiva ed occupazionale, è evidente che essa solleciti anche una corrispondente e parallela trasformazione del sistema finanziario e creditizio.

Da quanto sostiene l’economista Nikolai Petrakov le entrate del bilancio statale dovrebbero essere rigidamente collegate agli indici con cui viene quantificata l’efficienza nell’uso delle risorse economiche da parte delle imprese e delle associazioni industriali; inoltre lo Stato non dovrebbe tassare i profitti realmente realizzati, ma solo le risorse economiche allocate nelle imprese (mezzi di produzione, risorse minerarie, terreni, ecc.). Ciò, comunque, non escluderebbe la tassazione, tramite imposte progressive, rispetto agli extra-profitti, anche perché questo mezzo finanziario servirebbe per tamponare gli effetti controproducenti dello sviluppo ineguale nell’ambito del sistema economico.

La spesa pubblica, invece, dovrebbe continuare a svolgere un ruolo di primo piano in relazione all’insieme degli investimenti nell’economia, ma il ruolo decisivo nelle spese di bilancio in questo campo dovrebbe essere quello dei progetti finalizzati di carattere intersettoriale, quindi rispetto alle infrastrutture produttive, ai sistemi di comunicazione, ai trasporti ed alla crescita economica nel complesso dell’URSS. Maggiori risorse finanziarie dello Stato dovrebbero essere indirizzate verso i programmi sociali, artistici, culturali e scientifici, ma contemporaneamente tendono ad essere ridotti i sussidi statali alle imprese in difficoltà. Come si è detto in precedenza, lo Stato non è più obbligato ad aiutare le imprese in difficoltà ma, oltre all’introduzione del leasing e della possibilità di acquisto delle imprese statali da parte dei “collettivi di lavoro”, è arrivato al punto di promuovere lo sviluppo della forma azionaria nei flussi di investimento. In concreto, con le società per azioni in parte potrebbero essere attutiti i problemi economici delle imprese statali in difficoltà, ma di sicuro diventa possibile lo sviluppo di una dinamica di concentrazione degli investimenti nelle aree più importanti. Petrakov sembra considerare positivo questo possibile sviluppo, ma tale opinione è solo un dito dietro il quale si nasconde il concreto pericolo di più acuti squilibri economico-sociali fra le diverse aree e le diverse repubbliche dell’URSS. Se poi, da quanto risulta, le imprese statali possono acquisire azioni di altre imprese statali, e viene così spezzato il “monopolio degli investimenti delle istituzioni centrali di gestione”, vuol dire che vengono create le condizioni idonee per lo sviluppo di veri e propri oligopoli economici. In altre parole, vuol dire che l’assetto economico dell’URSS tende sempre più ad essere caratterizzato dal dominio degli oligopoli produttivi e finanziari di Stato.

Tale tendenza risulta confermata anche dalla trasformazione del sistema bancario. A questo proposito sembra necessario un breve accenno per far capire quanto sia realistica la tendenza all’oligopolizzazione anche nel sistema bancario.

Con la “perestroika” viene superato il vecchio sistema bancario, che per tre decenni era costituito dalla Gosbank (Banca di Stato) e dalla Strojbank (Banca pansovietica per il finanziamento degli investimenti di capitale), e viene sviluppato un sistema contraddistinto da un piccolo gruppo di banche autonome e specializzate, che comunque rimangono statali.

Nel nuovo sistema bancario la Gosbank continuerà ad essere il pilastro centrale del sistema bancario, dirigendo e coordinando le banche specializzate senza però essere loro proprietaria o azionista principale.

In ultima analisi, sia a livello produttivo che bancario tendono a svilupparsi oligopoli economici di Stato e si manifesta una chiara tendenza verso il rafforzamento del potere della tecnocrazia di questi oligopoli, proprio mente si afferma la burocrazia “efficiente” nel quadro di una compressione differenziata e selettiva del potere della burocrazia delle istituzioni centrali e locali dell’URSS.

“Perestroika”, tendenza nazionalista e conflitti etnici

La crisi del “modello di sviluppo estensivo”, oltre a dischiudere ampi spazi di agibilità alla tendenza verso il potere egemonico da parte degli strati sociali tecnocratico-manageriali e dei ceti dell’alta burocrazia “efficiente”, ha pure fatto riaccendere i mai sopiti conflitti nazionali ed etnici in URSS.

Lo sviluppo dei Fronti Popolari di carattere nazionalista nelle repubbliche baltiche, i movimenti di difesa delle culture nazionali in Ucraina e Bielorussia, la rapida diffusione del movimento sciovinista russo Pamjat che coincide con la crescita dei movimenti per il diritto all’emigrazione tra i tedeschi sovietici, gli ebrei e gli armeni, le lotte violente tra azeri ed armeni ed i conflitti etnici in Kazakistan e in Jacuzia (repubblica autonoma, situata nella Siberia settentrionale, in cui la popolazione turca degli jacuti oggi rappresenta circa il 28% degli abitanti) sono tutti fenomeni che sostanzialmente vengono accentuati dalla crisi del “modello di sviluppo estensivo”.

Questo modello, fra l’altro, presupponeva una specifica politica delle nazionalità per garantire rapporti pacifici fra le numerose etnie dello Stato plurinazionale sovietico. Tale politica, a sua volta, si basava soprattutto sull’estensione dell’apparato burocratico-amministrativo in tutte le repubbliche dell’URSS e sul consenso di alcuni settori chiave di ogni gruppo nazionale.

Più precisamente, il federalismo sovietico era caratterizzato dal fatto che le nazionalità locali, nell’ambito del loro territorio, godevano di ampi privilegi, ad esempio nell’accesso all’istruzione superiore e nell’attribuzione delle professioni post-universitarie e degli incarichi amministrativi e direttivi. La politica del federalismo sovietico è poi cominciata ad entrare in crisi quando lo Stato non è riuscito a sopportare il peso dei relativi costi, e ciò è successo a partire dall’esaurimento della fase di sviluppo estensivo dell’economia. Secondo un famoso etnologo sovietico, infatti, “gli orientamenti allo sviluppo estensivo fino ad un certo momento hanno frenato l’insorgere di conflitti nel campo dei rapporti fra nazionalità, ma questi stessi orientamenti, esaurite le proprie possibilità, hanno iniziato ad agire in senso inverso, accrescendo la probabilità dell’insorgere di conflitti etnici” (A. A. Susokolov, “Etnosy pered wyborom”, in Sotsiologiceskie Osslidovinja, 6, 1988, pp. 35-36).

Inoltre, poiché la “perestroika” punta a rendere più forti i metodi meritocratici di selezione dei quadri dirigenti a tutti i livelli, quindi anche a livello di ogni singola repubblica, è evidente che in questo modo sono state ulteriormente accresciute le possibilità di esplosione delle controversie nazionali ed interetniche presenti nell’URSS.

La “perestroika” prospetta, per tutte le repubbliche dell’URSS, il passaggio dai vecchi trattamenti preferenziali dei gruppi etnici ai metodi meritocratici e tecnocratici di selezione dei quadri dirigenti, ma tale trasformazione non è per niente indolore. Sicuramente la crisi economica rende difficile l’unione in un unico Stato di numerosi popoli, ma la cultura politica della “perestroika” non garantisce lo sviluppo di un’adeguata coscienza internazionalista ed un’adeguata solidarietà e le differenze di peso economico-sociale fra le popolazioni dei diversi gruppi etnici si è conservata ed in certi casi anche rafforzata.

Oggi, ad esempio, le istanze provenienti dalle repubbliche del Baltico e dell’Asia centrale permettono di capire che i loro interessi economici sono diventati in gran parte opposti. Le repubbliche dell’Asia centrale hanno bisogno dell’aiuto economico delle altre repubbliche sovietiche per fronteggiare il boom demografico, la diffusa povertà ed i pericoli di disoccupazione di massa. Le repubbliche baltiche, invece, pur essendo ricche e pur avendo i tassi di povertà più bassi di tutta l’URSS, non intendono aiutare la popolazione dell’Asia centrale e cercano piuttosto di ampliare i propri rapporti con l’Occidente. Infatti è per questo motivo che le repubbliche baltiche, Lituania in testa, cercano di diventare indipendenti dall’URSS.

Tutto ciò significa che le controversie nazionali e inter-etniche presenti nelle repubbliche sovietiche economicamente avanzate sono quelle più minacciose per la stabilità politica complessiva dell’URSS. Con la “perestroika” lo sviluppo ineguale fra le aree e repubbliche dell’URSS potrebbe essere accentuato. Infatti, i discorsi di Gorbaciov favorevoli all’introduzione di meccanismi di “autofinanziamento repubblicano” sono il palese riflesso di una precisa decisione di abbandonare la politica di redistribuzione del reddito dalle repubbliche più ricche a quelle più povere. I problemi nazionali ed interetnici possono anzi diventare più gravi in dialettica ai possibili effetti di una “perestroika” che prospetta un rapporto di maggiore interazione fra l’URSS e l’economia mondiale.

A maggior ragione sembra necessario anche un breve accenno rispetto ai “canali di interazione” fra l’URSS ed il mercato mondiale.

“Perestroika” nei rapporti fra l’URSS e l’economia mondiale

I “canali di interazione” che secondo gli economisti sovietici dovrebbero essere sviluppati per approfondire i rapporti fra l’URSS e il mercato mondiale sono quello creditizio, quello valutario e quello istituzionale.

A livello creditizio una sola banca speciale, la Vnesekonombank (Banca per l’attività economica con l’estero), svolge una funzione a dir poco decisiva nell’organizzazione dei regolamenti economici internazionali dell’URSS, e la Gosbank dovrà invece coordinare il passaggio delle altre banche specializzate alla realizzazione di analoghe attività internazionali.

In campo creditizio, però, non si può dimenticare che l’URSS è debitrice verso i paesi a capitalismo avanzato. Pur tenendo conto del modo in cui sono ripartite le riserve valutarie, specialmente a livello di depositi interbancari, l’URSS si caratterizza soprattutto come paese debitore della bancocrazia occidentale.

Il grado di indebitamento estero dell’URSS è inferiore a quello di tutti i paesi dell’Est e del Terzo Mondo, ma è superiore a quello della maggior parte dei paesi OCSE e ciò è in palese contraddizione con il fatto che quella sovietica è una delle principali potenze mondiali. Di fronte a questa situazione l’aumento del debito estero, che alcuni economisti richiedono per aumentare le importazioni di generi di largo consumo, potrebbe avere effetti molto negativi se non venissero stabilite adeguate contromisure per frenarne lo sviluppo.

Una linea di questo tipo, infatti, priva cioè di adeguate misure controtendenziali, potrebbe trasformare il debito estero, oggi ancora ad un livello relativamente basso (è stimato in 40-50 miliardi di dollari), in un problema incontrollabile le cui conseguenze, come dimostrano numerose esperienze dei Paesi dell’Europa dell’Est e del Terzo Mondo, sarebbero politicamente destabilizzanti.

Oltre ai suddetti flussi strettamente creditizi, il canale creditizio comprende anche una relazione diretta con il mercato internazionale dei capitali, attraverso i tassi di interesse. Con lo sviluppo della possibilità di prendere in prestito valuta estera ai tassi di interesse praticati sul mercato internazionale, le imprese sovietiche andranno a scaricare questo “servizio del debito estero” nel calcolo dei propri costi e prezzi. Inoltre, per fare in modo che le imprese sovietiche siano attratte dai prestiti in valuta estera e l’URSS abbia le riserve valutarie estere necessarie a garantire una più attiva presenza del paese a livello di mercato mondiale, i tassi di interesse sovietici dovrebbero cessare di essere bassi e cominciare ad omologarsi a quelli principali che vengono stabiliti sul mercato internazionale.

Il “canale creditizio” comprende anche i flussi di capitale azionario. In genere questi flussi si presentano nella forma di investimenti azionari stranieri che contribuiscono alla creazione ed allo sviluppo delle “imprese miste”.

Con decreto del 13 gennaio 1987 n. 49, in URSS è possibile effettuare collaborazioni internazionali attraverso le “società miste”, cioè attraverso le “joint ventures”. In queste imprese attualmente il capitale straniero non supera il 49% del pacchetto azionario, la direzione rimane sovietica e l’imposizione sul profitto costituisce il 30%, più il 20% dei profitti trasferiti all’estero. Molte imprese dei paesi a capitalismo avanzato rimangono interdette di fronte a queste regole ritenute troppo rigide, ma se venisse dato ascolto al parere degli economisti sovietici tali condizioni potrebbero essere modificate prendendo a modello di riferimento l’esperienza cinese, dove esiste un sistema di zone economiche speciali per gli investimenti delle “imprese miste” e delle imprese straniere, dove le “imprese miste” sono alcune migliaia e la loro direzione può essere straniera per una decina di anni.

A quanto pare, solo a Nakhodka, porto sovietico in Estremo Oriente, dovrebbe essere stata avviata una zona economica speciale e si tratta di una zona che garantisce l’esenzione delle imposte per tre anni alle imprese straniere ed a quelle “miste”.

Oltre a ciò, occorre precisare anche che il “canale creditizio” fra l’URSS ed il mercato mondiale dovrebbe essere completamente rinnovato.

La “strategia creditizia” dell’URSS, infatti, prevede l’aumento del numero dei mutuatari autorizzati del paese nei confronti dell’estero, lo sviluppo del numero e della diversificazione dei creditori esteri, nonché l’arricchimento della gamma degli strumenti finanziari utilizzati (prestiti, assicurazione dei rischi, “ottimizzazione” della struttura del debito). Con questa “strategia creditizia”, inoltre, si ritiene necessario individuare nuovi mercati per quanto riguarda le valute e viene auspicato lo sviluppo di “operazioni attive” (investimenti; partecipazione all’organizzazione di prestiti obbligazionari; di crediti sindacati, cioè di crediti assicurati da un gruppo di banche) a livello internazionale.

Invece, per quanto concerne il “canale valutario” tra l’URSS ed il mercato mondiale, esso dovrebbe essere sviluppato a partire dalla determinazione di un corso del rublo accettabile dal sistema monetario internazionale egemonizzato dalle valute dei principali paesi capitalistici avanzati (USA, RFT, Giappone) e poi dovrebbe essere promossa la nascita del rublo convertibile.

In una prospettiva di medio periodo il ruolo principale del cambio, che verrà stabilito quotidianamente dalla Gosbank, diventerebbe quello di accrescere le esportazioni sovietiche (soprattutto quelle industriali) nei paesi OCSE.

Il corso del cambio dovrebbe rendere redditizia la maggior parte delle esportazioni industriali dell’URSS, ma questa scelta richiederebbe per forza di cose l’immediata svalutazione del rublo e quest’ultima, a sua volta, sarebbe accompagnata dal maggior costo delle importazioni e dalla crescita dei prezzi interni.

Insomma, si determinerebbe una situazione non certo gradita ai lavoratori, alle masse sovietiche ed in modo particolare alle popolazioni povere dell’Asia centrale.

Il corso del cambio dovrebbe esprimere in maniera adeguata il potere d’acquisto del rublo rispetto al mercato mondiale, e i prezzi interni verrebbero correlati a quelli internazionali attraverso un’operazione complessa che, oltre a considerare le principali aree valutarie del mondo ed un variegato paniere di merci, avrebbe il non certo facile compito di tener presente le differenze, fra la situazione interna e quella internazionale, per quanto riguarda i costi della forza-lavoro e la produttività del lavoro.

Per giungere alla convertibilità del rublo come minimo ci vorranno diversi anni perché essa necessita, dal punto di vista delle condizioni idonee, una profonda trasformazione del sistema monetario, l’attivazione di un mercato valutario interno e lo sviluppo della convertibilità nell’ambito del Comecon, e solo dopo tutti questi passaggi potrebbe essere realizzata la piena convertibilità del rublo con le monete dei paesi a capitalismo avanzato.

Nel periodo di transizione non è escluso che venga valorizzata in termini di scelte concrete l’esperienza di circolazione “parallela” di due valute effettuate in URSS negli anni 1922-1924: il sovznac, che era carta-moneta tendente alla svalutazione, ed il cervonec, che invece aveva una determinata copertura aurea. Con quella “doppia circolazione” di valute il cervonec riuscì a sostituire il sovznac ed in seguito, per un po’ di tempo, l’URSS ebbe una valuta convertibile. Attualmente la situazione è molto diversa, basti pensare alla demonetizzazione dell’oro, ma una circolazione “parallela” di due valute potrebbe accelerare, sia pure in modo non certo indolore, il passaggio ad un’unica valuta convertibile.

Anche in riferimento al “canale istituzionale” fra l’URSS ed il mercato mondiale, che poi è un aspetto suscettibile di svelare abbastanza bene i riflessi politici del “nuovo corso sovietico” nell’ambito dello scenario globale, vengono preannunciati passi significativi verso la partecipazione di questo paese a diverse istituzioni economiche e finanziarie internazionali attualmente egemonizzate dai paesi a capitalismo avanzato.

L’URSS è già pronta ad aderire al GATT, è stata fra i principali paesi che hanno promosso la stipulazione di trattati fra il Comecon e la CEE, ha stabilito accordi economici pluriennali con la CEE, sta smussando le obiezioni interne ad una propria partecipazione alla Banca dei regolamenti internazionali ( a cui partecipano già quasi tutti i paesi dell’Est europeo) oppure – ad esempio – alla Banca Asiatica di sviluppo. Inoltre ci sono forti polemiche, all’interno del PCUS, e preventive opposizioni da parte di diversi paesi a capitalismo avanzato (specialmente da parte degli Stati Uniti) a proposito dell’opportunità di una partecipazione dell’URSS al FMI ed alla Banca Mondiale.

In linea generale, lo sviluppo dei “canali di interazione” fra l’URSS ed il mercato mondiale tende ad approfondire più che a smussare le principali contraddizioni esistenti a livello interno ed internazionale.

“Perestroika“ e sistema politico-istituzionale

La ristrutturazione dell’economia sovietica e la tendenza ad una più attiva interazione fra l’URSS ed il mercato mondiale producono una “sinergia” per utilizzare e valorizzare la quale, di fronte all’acuirsi delle contraddizioni sociali ed inter-etniche, è necessario il supporto di un sistema politico-istituzionale di tipo nuovo.

In questo quadro si colloca il varo della repubblica presidenziale e la modifica degli articoli costituzionali che prevedevano il ruolo guida del PCUS. Questa scelta, effettuata il 13 marzo 1990 dal “Congresso dei deputati del popolo”, sancisce la nascita dello “Stato di diritto” in URSS e dimostra che la transizione verso criteri di gestione economica basati sul rafforzamento dei rapporti monetario-mercantili è affiancata dalla transizione verso criteri di governo politico-istituzionali incentrati su regole del gioco in cui denaro e diritto fungono da referenti astratti della connessione dei rapporti sociali.

Mentre il sistema sociale in URSS diventa, in modo chiaro e legale, un sistema ad economia mista con oligopoli di Stato ed i rapporti sociali di produzione tendono ad essere caratterizzati dall’egemonia dei ceti tecnocratici, il sistema politico-istituzionale tende ad affermare il formalismo delle regole e del diritto.

In questa maniera, al di là delle riforme politiche che in apparenza rilanciano i Soviet, viene prospettata una soluzione tecnocratica alla crisi di un sistema sociale e politico che, burocratizzandosi e sclerotizzandosi, non è riuscito a garantire lo sviluppo di adeguate forme di democrazia diretta e sostanziale, e quindi non è neanche riuscito a promuovere una politicizzazione rivoluzionaria di massa, una reale fratellanza fra i popoli dell’URSS ed una crescita adeguata della coscienza internazionalista a favore delle lotte rivoluzionarie che si determinano nel mondo.

Conclusioni

La “perestroika” è una particolare risposta alla crisi economica e politica dell’URSS, e questa crisi in parte è stata determinata ed accelerata dalle dinamiche di crisi-ristrutturazione dell’assetto capitalistico internazionale iniziate alla fine degli anni ’60 e tuttora in corso.

Gli sbocchi della “perestroika“ sono incerti. In URSS, infatti, le contraddizioni sociali tendono ad accentuarsi piuttosto che a vedere ridotto il proprio grado di intensità; l’ormai evidente formazione legalizzata di un’economia mista con oligopoli di Stato è affiancata dalla crescita del potere della tecnocrazia e dalla polarizzazione fra “aree avanzate” ed “aree arretrate”. Tendono inoltre ad accentuarsi i conflitti nazionali ed inter-etnici; cresce la povertà, che già colpisce circa 40 milioni di persone (pari ad un settimo della popolazione complessiva dell’URSS); aumenta la mobilità della forza-lavoro ed il “costo della vita”.

A livello globale, invece, l’effetto più sicuro della “perestroika” dell’URSS è quello di rafforzare moltissimo la capacità di attrazione del mercato mondiale (anche sugli altri paesi del Comecon), ma proprio su questa base tende a svilupparsi un processo di grande accumulazione di tutte le contraddizioni esistenti su scala planetaria. Detto in altre parole, la massima forza di attrazione del mercato mondiale è, infatti, la precondizione della massima condensazione delle sue principali contraddizioni storicamente determinate.

In questo senso la “perestroika” è un fenomeno che, oltre a rendere più dinamica la lotta fra le classi in URSS, contribuisce ad approfondire le contraddizioni nel mondo piuttosto che a creare un clima di effettiva distensione internazionale.

Ormai è chiaro che l’URSS intende rinnovare l’economia del paese per colmare il “gap tecnologico” rispetto ai paesi a capitalismo avanzato e per mantenere la parità militare con gli USA e, nei limiti del possibile, fra i due blocchi (Nato e Patto di Varsavia).

I sovietici sanno benissimo che senza rinnovamento della propria economia i rapporti di forza globali verrebbero drasticamente alterati a vantaggio degli USA e degli altri paesi a capitalismo avanzato. Al tempo stesso in URSS il settore produttivo dei “mezzi di produzione” non riesce di per sé a garantire un complessivo rinnovamento economico del paese. Da ciò deriva, in modo particolare, la spinta sovietica ad incrementare i rapporti col mercato mondiale.

Contemporaneamente la borghesia imperialista, cioè la grande borghesia mondiale che ha il “retroterra” del proprio potere nei paesi a capitalismo avanzato,spera che in URSS la ristrutturazione economica giunga a scardinare la proprietà statale e “collettiva” delle grandi imprese. Spera inoltre che l’URSS, come già sta succedendo in diversi paesi dell’Est europeo, diventi territorio completamente libero alla penetrazione delle imprese capitalistiche e delle banche private transnazionali.

In questo senso la contraddizione fra i paesi a capitalismo avanzato ed i paesi, come l’URSS, ad economia mista egemonizzata da oligopoli di Stato è una contraddizione destinata ad accentuarsi a causa delle dinamiche che spingono verso l’espansione del dominio delle imprese capitalistiche e delle banche private transnazionali.

In particolare è destinata ad accentuarsi la contraddizione fra Stati Uniti ed URSS, anche perché i primi – al di là delle belle parole – cercano di ostacolare una più attiva presenza dell’URSS rispetto al mercato mondiale.

D’altra parte, “le continue barriere politiche che gli Stati Uniti frappongono ad una crescita degli scambi con l’URSS, e che riescono ad imporre con più facilità al Giappone che all’Europa Occidentale, lasciano come unica alternativa all’URSS quella di accrescere i rapporti con l’Europa Occidentale che comunque già assorbe oltre l’80% degli scambi sovietici con il mondo capitalista. Peraltro la struttura produttiva dell’URSS e quella dell’Europa Occidentale hanno un buon grado di complementarietà e solo in alcuni settori c’è una sovrapposizione come nella siderurgia e nel settore aerospaziale; più precisamente nel settore aerospaziale esiste un chiaro predominio sovietico” (Riccardo Parboni, “Il materialismo storico e la crisi mondiale”, pag. 53, in Dinamiche della crisi mondiale, A. A. V. V., Editori Riuniti, 1988).

Tutto ciò significa che il contenzioso fra USA ed URSS, in quanto contraddizione fra le due principali potenze politico-militari mondiali, vive in un quadro caratterizzato da una grande trasformazione tecnologico-produttiva che attraversa tutte le aree industrializzate e che condiziona tutte le principali dinamiche economiche, politiche e militari a livello mondiale. Questo quadro è lo stesso in cui, mentre nei paesi capitalistici avanzati vengono effettuati numerosi investimenti nei nuovi settori (microelettronica, biotecnologie, spaziale, fusione nucleare, ecc.), c’è la possibilità che in futuro la tendenza alla sovrapproduzione di capitale coinvolga proprio i nuovi settori.

A quel punto la tendenza alla sovrapproduzione di capitale uscirà di nuovo dallo stato di latenza e provocherà nuove e gravi recessioni, creando così condizioni suscettibili di alimentare nuove e forti tensioni nelle relazioni internazionali. Se poi le tensioni dovessero superare i limiti di “tollerabilità”, molto probabilmente gli USA tenderanno a fare dell’URSS il capro espiatorio a cui attribuire la responsabilità principale della situazione di logoramento delle relazioni internazionali. Non a caso, già oggi, gli USA sono all’avanguardia nella ricerca scientifica per cercare di rendere realizzabili scontri nucleari al di sotto dell’olocausto totale e per cercare di rendere calcolabile una guerra contro l’URSS mediante l’utilizzo di armi di nuova qualità (armi neutroniche, nucleari tattiche e chimiche).

I governanti dell’URSS sono consapevoli dei rischi bellici connessi alla presente e grande trasformazione tecnologico-produttiva dei paesi a capitalismo avanzato e per questo motivo l’ideologia che funge da supporto alla “perestroika” considera la “pace” sulla terra e la “sopravvivvenza dell’umanità” come principali obiettivi da realizzare nel mondo. D’altra parte questa ideologia è talmente incosciente da prospettare la realizzazione di tali obiettivi proprio all’interno di un contesto in cui i vincoli del mercato mondiale opprimono la vita di miliardi di donne, uomini e bambini.

Al di là dei suoi richiami formali al marxismo-leninismo, è un’ideologia che annichilisce i principi dell’internazionalismo proletario, della lotta di classe e della solidarietà rivoluzionaria internazionalista.

Per questo motivo concreto, e non tanto per purezza ideologica, le forze rivoluzionarie presenti nel Terzo Mondo e nei paesi a capitalismo avanzato non possono assolutamente far propria l’ideologia del “nuovo corso” dell’URSS. In caso contrario ne trarrebbero vantaggio la grande borghesia dei paesi a capitalismo avanzato e le forze controrivoluzionarie del Tricontinente.

Il principio di un equilibrio di interessi che l’URSS ha proposto per risolvere i conflitti regionali e rivoluzionari nel mondo è una scelta finalizzata alla ricerca di “soluzioni politiche” ad ogni costo. In genere, però, come dimostrano i sionisti in Palestina, le forze controrivoluzionarie conoscono una sola “soluzione politica” ed è quella rigidamente subordinata alla strategia dell’annientamento nei riguardi delle forze rivoluzionarie. Pertanto le forze rivoluzionarie in attività nel Terzo Mondo e nei paesi a capitalismo avanzato sono costrette a sviluppare una lotta rivoluzionaria di lunga durata per modificare i rapporti di forza a svantaggio del nemico e per fare ciò debbono rinnovare la propria strategia ed approfondire l’unità nella lotta su scala internazionale e particolarmente nelle diverse aree in cui operano.

In pratica, la progettualità di queste forze rivoluzionarie può rinnovarsi in modo adeguato soltanto se riesce ad essere un’arma nella lotta contro la grande borghesia e le forze controrivoluzionarie, quindi contro un sistema capitalistico internazionale che opprime e sfrutta la maggior parte dell’umanità.

Nei paesi a capitalismo avanzato e nei paesi del Tricontinente una conoscenza critica della “perestroika” è una delle condizioni indispensabili per fare in modo che le forze rivoluzionarie, oltre a non cadere nelle sabbie mobili delle “soluzioni politiche”, rinnovino la propria progettualità per essere all’altezza del livello raggiunto dallo scontro di classe nel mondo.

Nella direzione di un rinnovamento della progettualità rivoluzionaria deve essere chiaro però che il presente articolo è solo un contributo al dibattito e non ha certo la pretesa di essere qualche altra cosa! A buon intenditor… poche parole!!

 

Il militante delle BR-PCC, Sandro Padula
Carcere speciale di Novara, Blocco B

25 aprile 1990

Un pensiero su “Per una conoscenza critica dei lineamenti essenziali della “perestroika”. Carcere speciale di Novara, Blocco B – Il militante delle BR-PCC Sandro Padula”

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