Il tallone imperialista nel Tricontinente e la “crisi del Golfo”. Carcere di Novara – Documento del militante delle Br-Pcc Sandro Padula

Un determinato rapporto esiste fra la generale situazione del Tricontinente (America Latina, Africa, molti paesi dell’Asia meridionale) e la “crisi del Golfo”. Per comprenderlo fino in fondo può essere utile analizzare come i principali avvenimenti economici internazionali si sono riflessi, negli ultimi decenni, sia nella maggior parte del Tricontinente che nella realtà costituita dall’OPEC.

Fra tali avvenimenti, quello di fondamentale rilievo e da cui occorre partire è, nella seconda metà degli anni ’60, l’emergere della sovraccumulazione capitalistica nell’area OCSE.

In quegli anni, lo sviluppo della sovraccumulazione capitalistica porta con sé una sviluppata e determinata sovrapproduzione di capitale monetario, cioè una massa enorme di capitale monetario che non riesce a trasformarsi in capitale produttivo di plusvalore e che, in dialettica alla crescita del deficit della bilancia dei pagamenti degli USA, ha tra le proprie espressioni anche quella costituita da un’alta quota di xeno-dollari.

Si crea così una situazione tale da mettere in risalto l’obsolescenza del sistema monetario internazionale stabilito a Bretton Woods e basato sui cambi relativamente fissi e sulla convertibilità del dollaro in oro.

La rottura del trattato di Bretton Woods avviene ufficialmente nell’agosto del 1971, ad opera del presidente degli USA Richard Nixon. In seguito, nel dicembre dello stesso anno e nel febbraio del 1973, il dollaro viene svalutato; di conseguenza perdono valore gli xeno-dollari che fra l’altro sono detenuti anche dalle banche centrali di moltissimi paesi in giro per il mondo e si crea così un decisivo canale di internazionalizzazione dell’inflazione.

In quelle condizioni viene alimentata una dinamica di crescita dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale, che sono espressi in dollari e che ricevono spinte verso l’alto anche grazie alla domanda costituita dalla “ripresa” del 1971-1972 ed a forti accaparramenti speculativi: sulla base di queste premesse scaturisce un forte “shock petrolifero” subito dopo la guerra del Kippur nell’ottobre 1973.

I “petro-dollari”, ricavati dall’aumento del prezzo del petrolio e detenuti dai paesi OPEC, cominciano ad essere riciclati, una parte in cambio di armi e di altre merci dei paesi a capitalismo avanzato ed il resto va ad aggiungersi al mercato internazionale dei capitali.

A quel punto, specialmente durante e dopo la recessione internazionale del 1974-1975, la sovrabbondante liquidità internazionale viene in buona misura drenata dalla bancocrazia dei paesi a capitalismo avanzato e si sviluppa una gigantesca catena di prestiti, anche perché i debitori in quegli anni devono rimborsare tassi di interesse che, in termini reali, sembrano sopportabili in una situazione di alti tassi di inflazione.

Da allora l’economia mondiale si caratterizza per la formazione di una grande catena di debiti interni ed internazionali. I paesi a capitalismo avanzato sono i principali fruitori di prestiti esteri; i debiti esteri del Tricontinente, al contrario, costituiscono una parte minoritaria dell’indebitamento estero complessivo. Nonostante ciò, di fronte al più gigantesco sistema di usura mai esistito sulla faccia della terra, nel giro di un decennio il debito estero diventa sempre più una specie di catena attorno al collo del Tricontinente.

Nel corso degli anni ’70 i flussi creditizi che la bancocrazia dei paesi capitalisticamente avanzati indirizza verso il Tricontinente confluiscono soprattutto in un ristretto numero di paesi, nei paesi che allora risultano più “dinamici” in campo economico (Messico, Venezuela, Argentina, Brasile, Corea del sud, ecc.). Però, a diverso grado, tali flussi tendono anche a confluire negli altri “paesi in via di sviluppo” ed alla fine del 1979 l’indebitamento estero della totalità di questi paesi raggiunge la non trascurabile cifra di 475 miliardi di dollari.

Gli avvenimenti successivi dell’economia capitalistica internazionale – il rialzo dei tassi di interesse negli USA nel 1979, il secondo “shock petrolifero” prodottosi sul finire dello stesso anno in connessione alla “rivoluzione islamica” in Iran e la recessione internazionale dei primi anni ’80 – provocano una situazione in cui all’accresciuto carico del servizio del debito corrisponde dialetticamente un’accresciuta difficoltà del Tricontinente a rispettare gli impegni verso i creditori e tutto ciò porta alle dichiarazioni di insolvenza del 1982-1983.

Tutto ciò, inoltre, significa che molti paesi della periferia del sistema capitalistico internazionale sono letteralmente prigionieri del debito estero e lo sono proprio perché alla base del sistema usuraio che li attanaglia ci sono economie locali extra-vertite e dipendenti a livello produttivo, commerciale e tecnologico nei confronti dell’imperialismo.

Soprattutto dopo la recessione del 1974-1975 la penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali nei paesi del Tricontinente si indirizza sempre più verso investimenti ad alta composizione organica di capitale, cioè verso quegli investimenti che vengono definiti “ad alto contenuto tecnologico” e che hanno la necessità di un numero relativamente basso di lavoratori. Questo tipo di orientamento, che nei paesi del Tricontinente si avvale dell’utilizzo di una forza-lavoro a costo molto più basso rispetto a quella dei paesi a capitalismo avanzato, è riconducibile alla necessità di ogni impresa transnazionale di “pianificare” le proprie attività in modo da garantire che le merci prodotte siano destinate soprattutto al mercato mondiale e siano adeguatamente concorrenziali a tale livello.

In pratica le imprese capitalistiche transnazionali contribuiscono ad orientare le economie locali del Tricontinente verso uno “sviluppo” sempre più extra-vertito e squilibrato e tale “sviluppo” contribuisce a far crescere le migrazioni di forza-lavoro dalle campagne alle città. In questo senso, la penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali contribuisce ad accelerare il ritmo di crescita dell’urbanizzazione sul Tricontinente, il cui costo è in ampia misura sobbarcato dagli Stati locali. Questi ultimi a loro volta, vedendo ingigantire il debito pubblico, ed a fronte di fughe di capitali, crescenti spese militari, bilance commerciali in disavanzo e controlli stranieri su quote significative delle locali risorse reali e liquide, sono costretti a ricorrere in continuazione ai prestiti dall’estero ed a cercare di aumentare le esportazioni per pagare il corrispondente “servizio del debito”.

Soprattutto dopo la recessione del 1974-1975, fra il capitale esportato dai paesi sviluppati ai paesi del Tricontinente, si contrae il capitale da prestito statale ed interstatale mentre aumenta, insieme al flusso degli investimenti diretti nella produzione capitalistica, il flusso di capitale da prestito privato. Quest’ultima forma di esportazione di capitale subisce però un netto calo dopo l’esplodere della crisi finanziaria del 1982, cioè dopo le dichiarazioni di insolvenza iniziate con quella del Messico, e da quell’anno il Tricontinente paga per il servizio del debito estero più di quanto riceve a livello di finanziamenti.

Il debito estero del Tricontinente in rapporto al prodotto interno lordo rimane però abbastanza alto: dal 1985 al 1990, pur diminuendo in modo leggero, tale rapporto ammonta a oltre un terzo. Per molti versi è come se i governi e le banche creditrici dei paesi a capitalismo avanzato avessero la proprietà di oltre un terzo di questo prodotto interno lordo. E’ ovvio che si tratta di una proprietà soltanto potenziale, ma i “signori del denaro” non si fanno tanti scrupoli per trasformare una parte di essa in proprietà effettiva!

Proprio con la scusa del problema debitorio, infatti, le politiche del FMI e della Banca Mondiale, che in genere vengono preconfezionate nei vertici dei ministri finanziari e/o dei governatori delle banche centrali dei principali paesi dell’OCSE, puntano a rafforzare la subordinazione economica dei paesi del Tricontinente rispetto ai paesi a capitalismo avanzato, alle imprese ed alle banche imperialiste transnazionali.

Come dimostrano il piano Baker ed il successivo piano Brady, le “soluzioni” che vengono lanciate nelle assemblee congiunte del FMI e della Banca Mondiale per affrontare il problema del debito estero dei “paesi in via di sviluppo” presuppongono sempre l’accettazione di una più forte dipendenza economica da parte di questi paesi all’interno del sistema capitalistico internazionale. Il problema del debito estero costituisce infatti una specie di “cavallo di Troia” per accrescere il potere dei capitali oligopolistico-finanziari transnazionali e per disarticolare il peso economico effettivo degli Stati del Tricontinente nelle rispettive economie. Non a caso, mentre i paesi debitori del Tricontinente continuano ad essere divisi fra loro, aumentano fra le stesse oligarchie autoctone di questi paesi gli orientamenti favorevoli alla conversione di parte dei debiti esteri in titoli negoziabili o in investimenti diretti, così come aumentano le tendenze favorevoli alle privatizzazioni delle imprese statali ed alla creazione di condizioni più idonee alla penetrazione dei capitali e delle merci provenienti dai paesi a capitalismo avanzato. In pratica, la via intrapresa da molte oligarchie autoctone dei paesi della periferia del sistema capitalistico internazionale per “governare” la spinosa questione del debito estero sembra essere quella di accettare una maggiore dipendenza economica dall’imperialismo e di scaricare sulle spalle delle masse popolari i costi di questa accentuata subalternità economica.

Le politiche economiche di queste oligarchie autoctone dei paesi del Tricontinente suscitano spesso rivolte proletarie e popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita e contro l’accettazione dei “programmi di aggiustamento” stabiliti dal Fondo Monetario Internazionale.

Nei paesi del Tricontinente si approfondisce la dipendenza economica nei confronti dell’imperialismo e con questo presupposto strutturale, proprio in risposta ad esso, si sviluppano non solo le rivolte proletarie e popolari ma anche i nuovi e grandi flussi migratori di forza-lavoro dal Sud del mondo verso i paesi a capitalismo avanzato.

I neocolonialisti dei paesi a capitalismo avanzato prima fanno di tutto per saccheggiare le risorse reali e liquide del Tricontinente e poi fingono di non capire i motivi di questi nuovi e grandi flussi migratori internazionali! Comunque, al di là di questa totale ipocrisia, è indubbio ormai che la presente crisi debitoria costituisce sempre più un pretesto per il dispiegamento del neocolonialismo e quindi per una più ferrea dipendenza economica del Tricontinente verso i paesi a capitalismo avanzato ed in particolare verso le imprese e le banche imperialiste transnazionali.

Negli anni ’80 perfino i paesi OPEC subiscono una compressione della propria forza economica nell’ambito del sistema capitalistico internazionale. Infatti questi paesi, che dopo il 1973 acquisiscono una grande abbondanza di risorse valutarie, negli anni ’80 cessano di svolgere il ruolo di “nuovi finanziatori” a livello internazionale ed il Giappone comincia a prendere il loro posto rispetto a tale funzione.

Dopo la recessione internazionale del 1980-1982, il relativo completamento della prima grande ondata di ristrutturazione tecnologico-produttiva basata sull’informatica all’interno dei paesi a capitalismo avanzato, il grande rialzo del dollaro nel triennio 1983-1985, il successivo calo del dollaro ed il “contro-shock petrolifero” del 1986 con i grandi e continui ribassi del prezzo del petrolio, i paesi OPEC vedono peggiorare drasticamente la propria situazione economica rispetto agli anni ’70 e molti di essi diventano debitori verso l’estero.

L’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi sono fra i pochi paesi dell’OPEC che negli anni ’80 riescono ad avere una situazione economica non troppo dissimile, anche se in genere peggiorata, rispetto a quella del decennio precedente.

Le condizioni diventano difficili per la maggior parte dei paesi dell’OPEC specialmente quando, dalla metà degli anni ’80 ed a partire dagli USA, emergono nell’area OCSE diversi sintomi di una crescita economica oscillante verso la stagnazione e/o verso la recessione, quei sintomi che fra l’altro provocano i crolli delle borse mondiali nell’ottobre 1987 e nell’ottobre 1989, i nuovi cali del dollaro e le nuove difficoltà per la Borsa di Tokio nella prima metà del 1990.

In questo caotico teatro dell’economia capitalistica internazionale, pertanto, si accumulano le contraddizioni sul mercato mondiale, si acutizzano nel Tricontinente le contraddizioni fra i paesi OPEC e i paesi produttori di petrolio non aderenti a tale organizzazione (soprattutto per la crescita delle quote di mercato dei “nuovi produttori” come l’Angola e l’Egitto) e poi esplodono le contraddizioni all’interno dell’OPEC fra i paesi – come l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi – che puntano ad aumentare molto l’estrazione del petrolio e quelli che invece – come l’Irak, l’Iran e la Libia – puntano a non farla aumentare troppo per evitare prezzi del petrolio troppo bassi ed inadeguati rispetto alle esigenze delle proprie economie.

Per questo motivo, a cui si aggiunge il vecchio desiderio di avere un significativo sbocco nel Golfo Persico, l’oligarchia autoctona dell’Irak giunge alla decisione di occupare il Kuwait.

Dopo aver ricevuto per anni, dagli stessi paesi a capitalismo avanzato e dagli stessi paesi OPEC più ricchi, quelle montagne di crediti (e di armi) utilizzate per condurre la guerra contro il “pericolo iraniano“ e per reprimere la locale parte della popolazione curda, l’Irak arriva al punto di rendere operativa la decisione di invadere il ricco sceiccato del Kuwait.

Con la “crisi del Golfo” apertasi ad agosto si alza così il sipario per una nuova ondata di rialzi del prezzo del petrolio e per un clima politico ed economico strumentalizzato soprattutto dagli USA e, con particolare sciacallaggio, dalle principali compagnie petrolifere del mondo: Exxon (USA), Royal Dutch (Olanda), Mobil (USA), British Petroleum (Gran Bretagna), Texaco (USA), Chevron (USA) ed Amoco (USA).

La “questione petrolifera” torna quindi alla ribalta della cronaca internazionale e con essa emerge di nuovo e con gravità il più generale problema del rapporto di dominio economico dei paesi a capitalismo avanzato rispetto ai paesi del Tricontinente.

Dopo il 1973 i paesi a capitalismo avanzato danno vita all’Agenzia Internazionale per l’Energia (allo scopo di contrastare e di addomesticare le politiche dell’OPEC) e cominciano a prendere misure per approfondire la diversificazione delle fonti energetiche da utilizzare. La “questione petrolifera”, comunque, continua a mantenere una propria specifica importanza ed il petrolio, che nel 1989 copre il 40% del mercato mondiale dell’energia, mantiene ancora lo scettro della principale fonte energetica mercificata.

L’URSS, l’Arabia Saudita e gli USA sono i principali paesi produttori di petrolio. Un ruolo significativo è svolto anche dalla Gran Bretagna, in particolare dal 1975 con l’estrazione del petrolio del mare del Nord. Ad ogni modo, i principali riflettori della “questione petrolifera” sono puntati sul Medio Oriente, un’area in cui si trovano i 2/3 delle riserve conosciute di petrolio e da cui oggi viene garantito il 20% circa delle esportazioni mondiali petrolifere.

I paesi del centro del sistema capitalistico internazionale hanno molteplici interessi in Medio Oriente, ad esempio, attraverso determinate articolazioni di proprie banche e di proprie imprese, fra cui determinate articolazioni di proprie compagnie che estraggono e/o raffinano il greggio. Inoltre i paesi a capitalismo avanzato, compresi gli stessi Stati Uniti d’America, sono grandi importatori di petrolio. Per questi motivi economici a cui si affiancano determinati interessi politico-militari da molto tempo chiariti dal Pentagono e dalla NATO, il Medio Oriente viene considerato come un territorio di “interesse vitale” dagli USA e dall’intero blocco dei paesi capitalisticamente sviluppati.

Non per niente, infatti, l’attuale politica degli USA e degli altri paesi a capitalismo avanzato rispetto al Medio Oriente punta a mantenere e rafforzare il controllo dei flussi petroliferi, ad approfondire l’addomesticamente delle scelte dell’OPEC, a comprimere il peso complessivo (proprietà e rendite) degli Stati locali nei confronti delle rispettive economie, a porre un argine contro lo sviluppo del “fondamentalismo islamico“, ad indebolire il sostegno arabo ed internazionale alla lotta dei palestinesi, ad isolare e distruggere le forze rivoluzionarie, e ad indebolire l’influenza effettiva dell’URSS nel mondo arabo ed in particolare rispetto ai paesi arabi moderati e/o reazionari con cui dalla metà degli anni ’80 Mosca mantiene regolari rapporti diplomatici o migliora le relazioni. Tutto ciò è collegato anche alla considerazione che diversi paesi dell’Est europeo (come Polonia, Cecoslovacchia ed Ungheria), mentre diventano più aperti alla penetrazione delle imprese capitalistiche transnazionali, continuano a richiedere petrolio sovietico, ma a differenza del passato lo devono pagare a prezzi di mercato (dal primo gennaio 1991 con dollari o altre valute convertibili) ed hanno intenzione di aumentare i propri rifornimenti petroliferi dall’area mediorientale.

Se questi sono gli scopi politici comuni dei paesi a capitalismo avanzato rispetto al Medio Oriente, è altrettanto vero che la “crisi del Golfo“ risulta strumentalizzata soprattutto dagli USA. Infatti, proprio con la scusa della “crisi del Golfo“, gli USA foraggiano il proprio complesso militar-industriale-scientifico anche per dare una risposta all’avanzamento della recessione economica interna a quell’avanzamento della dinamica recessiva iniziato nella prima metà del 1990 e provocato dalla sovraccumulazione capitalistica (e dalla connessa caduta del saggio di profitto) determinatasi nel 1989 all’interno della propria economia. Inoltre, sempre con la stessa scusa, gli USA puntano particolarmente a rendere duratura e stabile la propria influenza politico-militare in Arabia Saudita ed a costituire una «struttura di sicurezza regionale che garantisca pace e prosperità nel Medio Oriente» (dichiarazione di James Baker, segretario di Stato degli USA del 5 settembre 1990), cioè un’organizzazione, finanziata da diversi paesi, simile alla NATO e sostanzialmente integrata alla NATO stessa.

In pratica, dopo il 1989 dell’Europa dell’est, le condizioni internazionali dischiudono nuovi spazi di manovra all’arroganza degli USA e degli altri paesi capitalisticamente sviluppati.

Mentre il “blocco dell’est” risulta drasticamente ridimensionato e l’URSS, sconvolta da gravi problemi interni, conduce politiche estere di compromesso a tutti i costi con i paesi a capitalismo avanzato rispetto alle crisi internazionali e regionali, il “blocco dell’ovest” guidato a livello politico-militare dagli USA si sente più libero di sviluppare la propria politica imperialista nell’area mediorientale e tende a far leva su tale politica anche per lanciare un messaggio di fermezza contro chi nel Tricontinente e nel resto del mondo non accetta di mettere o di mantenere la propria testa sotto il tallone dell’imperialismo e soprattutto contro chi lotta per liberarsi da esso.

Dalla fine della seconda guerra mondiale l’arroganza della borghesia imperialista e dei suoi rappresentanti politici non è mai stata grande come adesso, come in questo inizio degli anni ’90.

Questa arroganza, però, è suscettibile di far nascere, proprio di contro ad essa, una maggiore consapevolezza della grande barbarie generata dal modo di produzione capitalistico e dei limiti storici verso cui si incammina tale modo di produzione.

In questa situazione, infatti, si approfondiscono i motivi che rendono importante lo sviluppo di adeguate ed unitarie sensibilità di segno rivoluzionario nelle fila del proletariato internazionale e dei popoli oppressi.

In questa situazione, inoltre, diventa possibile e necessaria una maggiore coscienza che le cause fondamentali delle contraddizioni internazionali trovano le proprie radici più profonde nei paesi in cui il modo di produzione capitalistico è più sviluppato, cioè negli USA e negli altri paesi del blocco dei paesi a capitalismo avanzato.

Queste radici si trovano quindi anche nell’Europa Occidentale che tende a costituire un unico mercato per merci e capitali e che, attraverso una crescita della coesione monetaria, militare e politica, cerca di aumentare il proprio specifico potere nello scenario internazionale.

Queste radici si trovano allora anche in quell’Italia che tende a costituire una “Seconda Repubblica” caratterizzata da un maggior potere dell’Esecutivo per “governare” i conflitti sociali e da una politica estera di maggior impegno del “bel Paese” in quanto pilastro fondamentale del “fianco sud” della CEE, della UEO e della NATO.

In definitiva, è negli USA, negli altri paesi del blocco dei paesi a capitalismo avanzato, quindi nella stessa Europa Occidentale e nella stessa Italia che ci sono le radici più profonde delle contraddizioni internazionali, cioè le radici più profonde di un sistema sociale che cerca di conservare e rafforzare il tallone imperialista sul Tricontinente, sul proletariato internazionale, sui popoli oppressi ed in genere sul mondo d’oggi.

Il militante delle BR-PCC Sandro Padula.

Carcere speciale di Novara, Blocco B

Settembre 1990

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