Premessa
Dai primi anni ’80 in Italia si è acuito quel processo di: tendenza reazionaria, riforme istituzionali con caratteristiche autoritarie, esecutivizzazione ecc. di cui oggi si iniziano a vedere i “primi” risultati concreti.
Tutti i compagni in Italia si rendono conto di quanto queste tendenze stiano prendendo piede; ma essere d’accordo su questo dato non basta, la storia ci ha dimostrato che si può a volte partire dagli stessi elementi per arrivare a conclusioni diverse. Quel che è certo è che esiste un grosso ritardo di cui il movimento comunista internazionale soffre ormai da tempo; tanti sono i nodi insoluti sul piano teorico, strategico, tattico, politico, e questo crea confusione.
In Italia è ormai da tempo che s’impone un’analisi attenta della borghesia dominante, del grande capitale, dello Stato, dell’opposizione borghese (PCI o Partito Democratico della Sinistra o come si vorrà chiamare la “cosa”, e CGIL), dello sviluppo raggiunto dalla lotta proletaria nei suoi contenuti e forme di espressione, della trasformazione in atto delle classi sociali in un paese avanzato, dei compiti dei comunisti e dei rivoluzionari nell’attuale fase di sviluppo dell’imperialismo. Non è infatti possibile comprendere verso dove andiamo senza affrontare questi nodi.
Ciò che ci interessa in questa sede quindi è iniziare ad introdurre alcuni spunti di riflessione inerenti la natura dell’imperialismo in generale ed il modo in cui si è sviluppato il capitale fino ad oggi.
Negli ultimi tempi si fa un gran parlare nel movimento rivoluzionario di trasformazione della democrazia borghese in autoritarismo, affermarsi della reazione e negarsi del carattere progressista del capitalismo nell’attuale società avanzata, di differenza tra la fase di ascesa del capitalismo e la sua fase di disfacimento iniziata con l’era dell’imperialismo, di modificazioni avvenute e in atto nella forma dello Stato borghese, di distinzione tra fase del liberalismo e fase imperialista, di rapporto tra fase di sviluppo del capitalismo e crescita delle lotte proletarie, di relazione tra il periodo fascista e l’assetto mondiale determinatosi dopo il secondo conflitto. Questioni peraltro tutte importanti perché sono sintomatiche dell’evoluzione avvenuta nella società in cui viviamo. Interpretarle nel modo giusto è quindi fondamentale perché ci pone nella condizione di elaborare una strategia ed una linea politica conseguente; ma per far ciò va fornita a questi dati una giusta collocazione. Diversamente si rischia di cadere nell’estremismo o nel pressapochismo, arrivando o ad assolutizzare un aspetto del problema, e cioè la reazione (che certamente non può essere negata come dato emergente) giungendo a presagire la possibile rinascita (magari sotto altre vesti) di forme di violenza organizzata e legalizzata di tipo fascista dello Stato borghese, dimostrando di non aver compreso la storia e la natura dell’imperialismo; oppure, sempre assolutizzando quell’aspetto, arrivare alla conclusione che la borghesia dominante, essendo arrivata alla sua “ultima spiaggia”, ha creato le condizioni affinché dal secondo conflitto mondiale in poi, si aprisse un nuovo scenario caratterizzato dalla guerra tra le classi nei paesi imperialisti, per poi affermare, sempre guidati da quella logica, che è la “democrazia rappresentativa”, e cioè l’applicazione della massima “democrazia formale”, a informare il progetto di “rifunzionalizzazione dello Stato imperialista”. Chi dà questa interpretazione delle cose dimostra tra l’altro, oltre ad un’enorme confusione, da un lato di non capire neanche che differenza passa tra politica e guerra, da un altro lato di non sapere affatto perché, in che forma e con quali contenuti si produce la lotta e l’unità interborghese finalizzata allo sviluppo della società imperialista, e inoltre di ignorare del tutto le leggi che informano l’andamento ciclico delle lotte proletarie, espressione dell’antagonismo tra le classi; così la propria logica soggettivista raggiunge l’apice e colloca i fautori di queste tesi sempre più al di fuori del campo di analisi ed elaborazione marxista.
Una terza conseguenza degli errori di interpretazione e collocazione cui accennato sopra consiste nell’affermare genericamente che la società borghese con il suo sviluppo ha segnato da una parte la fine della democrazia borghese, tramutatasi in autoritarismo, e dall’altra ha creato le condizioni affinché la democrazia potesse svilupparsi, dimostrando in questo modo semplicemente che si vuole fare uso delle leggi della dialettica, non applicandole però nei fatti fino in fondo, in quanto così procedendo si rischia o di dire tutto e il contrario di tutto oppure di dare un giudizio inesatto di quello che la realtà ci pone dinanzi agli occhi.
Utilizzare il metodo storico e dialettico per analizzare i fenomeni è sempre positivo perché ci permette di vedere le cose in movimento, ci fornisce gli strumenti per comprendere che c’è sempre un aspetto che emerge su un altro e che nella contraddizione un aspetto principale può divenire secondario e viceversa ecc.; ma è pur vero che bisogna mettersi nella condizione di appropriarsi compiutamente di questo strumento per poterlo applicare in modo esatto.
È abbastanza chiaro a questo punto che se si continua a ragionare in modo estremista e/o approssimativo non si potrà né comprendere come combattere i nostri nemici né riuscire a superare questo momento di crisi del movimento rivoluzionario e di stasi del dibattito al suo interno.
Proprio facendo uso del materialismo storico e dialettico possiamo vedere la relazione che esiste tra gli elementi che Marx individua come caratterizzanti il modo di produzione capitalista (MPC) e quelli stabiliti da Lenin come i 5 pilastri dello sviluppo dell’imperialismo. Solo in questo modo si può capire cosa intendeva dire Lenin quando affermava che l’imperialismo è solo un particolare stadio del capitalismo e che politicamente l’imperialismo è «… in generale, tendenza alla violenza e alla reazione», comprendendo che oggi, nella fase di imperialismo maturo, permangono tutte le caratteristiche del capitalismo esposte da Marx e Lenin, anche se alcune sono prevalenti rispetto ad altre.
Qualcuno a questo punto potrebbe obiettare che il marxismo non è un dogma e cioè che i suoi principi devono essere applicati alla realtà concreta. A costoro rispondiamo che i comunisti devono analizzare la società per trasformarla, quindi ne debbono capire l’evoluzione, debbono comprendere cosa si cela dietro un fenomeno, quali sono le leggi che lo guidano, in che senso un aspetto che divenga prevalente può assumere un carattere di “novità”, ma non debbono inventarsi mai nulla: non si può fare politica attraverso i “colpi di scena”.
Certamente è vero che il marxismo-leninismo non ha potuto approfondire tutti gli aspetti, così come è anche vero che esso non ci dice cosa dobbiamo fare negli anni ’90 o dovremo fare nel 2000, ed inoltre è giusto ritenere che l’imperialismo si sia trasformato; ma è anche vero che questa scienza è una guida per l’azione e quindi traccia le coordinate fondamentali relative alle leggi generali di sviluppo della società capitalista da un punto di vista strutturale e sovrastrutturale.
Alcuni potrebbero ancora obiettare che certi aspetti, soprattutto relativi all’ambito politico dell’imperialismo, sono stati analizzati insufficientemente da Lenin, così come egli stesso dice nell’introduzione al I capitolo dell’opuscolo sull’imperialismo: «Nelle pagine seguenti vogliamo fare il tentativo di esporre… la connessione e i rapporti reciproci tra le caratteristiche economiche fondamentali dell’imperialismo. Non ci occuperemo, benché lo meritino, dei lati non economici del problema». Avendo, comunque, precedentemente spiegato che: «L’opuscolo è stato scritto tenendo conto della censura zarista. Per tale motivo sono stato costretto ad attenermi ad un’analisi teorica, soprattutto economica, ma anche a formulare le poche osservazioni politiche indispensabili con la più grande prudenza, mediante allusioni e metafore… Come è penoso rileggere ora… quei passi dell’opuscolo che per riguardo alla censura zarista sono contorti, compressi, serrati in una morsa!». Ma è forse possibile credere che la trattazione che il marxismo-leninismo fa di alcuni elementi generali di politica relativi al carattere “democratico” e “reazionario” dell’imperialismo e dello Stato non siano sufficienti a fornirci i punti di applicazione teorici e strategici per comprendere come si sviluppa la nostra società?
Noi pensiamo che sia più onesto che ogni compagno faccia propri i principi del marxismo-leninismo e riconosca i limiti che il movimento comunista internazionale si porta dietro dal dopoguerra.
L’obiettivo che ci proponiamo con questo scritto è di iniziare a contribuire alla formazione di quadri comunisti, senza i quali non può neanche ipotizzarsi la fondazione di un Partito per il proletariato nel nostro paese. La formazione teorica di ogni compagno e il metodo dialettico storico e logico che ognuno di noi deve acquisire rappresentano la linfa di questo progetto.
Continuare nell’opera di analisi materialistica e scientifica della società borghese significa riuscire ad impadronirsi delle questioni e dei concetti del marxismo-leninismo, affrontare le cose isolatamente per poi pronunciarsi criticamente sulle modifiche avvenute nell’ambito economico, politico e sociale da quando i fondatori del socialismo scientifico da ultimi hanno spiegato l’evolversi della società nei suoi vari aspetti.
Se non si compiono questi primi due sforzi (formazione teorica e ripresa dell’analisi della società borghese, di ogni aspetto importante già visionato nei testi marxisti: per esempio, critica dell’economia politica-imperialismo, funzioni e compiti dello Stato borghese, ecc.) ogni iniziativa tesa alla ricerca dell’unità dei comunisti sarà destinata prima o poi a fallire.
Ottobre 1990
SCHEMA
Per comprendere meglio il problema di cui vogliamo trattare bisogna distinguere:
- A) Da un punto di vista economico:
1 – Il carattere “progressista” del capitalismo e il suo carattere “conservatore”.
2 – I periodi di accumulazione e di crisi del capitale.
3 – La fase di ascesa e la fase di disfacimento del MPC.
4 – Il rapporto crisi-guerra imperialista.
- B) Da un punto di vista politico:
– Il carattere “democratico” della borghesia al potere e la sua espressione “reazionaria”.
- A) Da un punto di vista economico.
L’epoca del capitalismo ha attraversato vari periodi di sviluppo in cui si è “trasformata” la sua esistenza.
1 – Il carattere “progressista” del capitalismo e il suo carattere “conservatore”.
La natura della nascente borghesia affermatasi nella lotta contro il feudalesimo ha assunto un carattere progressista in quanto è stata espressione, a differenza delle classi dominanti che l’hanno preceduta, di un continuo rivoluzionamento della produzione, di una insaziabile nonché inevitabile trasformazione dei mezzi di produzione, quindi dello sviluppo delle forze produttive a cui si accompagnava libera concorrenza, estensione della produzione e dei mercati, ecc.
Essa ha dovuto guidare sempre questo sviluppo sotto l’egida della proprietà privata, alla cui base si pone il rapporto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La borghesia si incarica quindi di informare i Rapporti Sociali di Produzione con la legge dell’accumulazione. Anche questi ultimi, però, vengono oggettivamente spinti verso una trasformazione, a causa del continuo rivoluzionamento delle forze produttive, ed ecco a questo punto fuoruscire l’animo conservatore e quindi reazionario della borghesia paurosa per il suo futuro.
La contraddizione tra carattere sociale della produzione e forma privata della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e di scambio è alla base, oltre che della contraddizione fondamentale del MPC, anche del dualismo che si crea tra carattere “progressista” e “conservatore” del capitalismo in tutte le sue fasi di sviluppo.
L’aumento maggiore del capitale costante rispetto al capitale variabile nella produzione non è altro infatti che l’espressione in termini di valore di un più alto grado di sviluppo delle forze produttive, che da una parte crea riduzione del tempo di lavoro necessario per la riproduzione della classe operaia (ciò che permette di allungare il plusvalore prodotto singolarmente) e consente di dare stimolo e possibilità al capitalista di immettersi sempre in modo nuovo e competitivo sul mercato; dall’altra genera riduzione crescente della massa di plusvalore sociale prodotto, crisi dell’accumulazione, contraddizione tra il carattere sociale della produzione (e cioè, per esempio, di una produzione che si trasforma in produzione per tutta la società) e carattere privato dell’appropriazione, nonché l’impossibilità da parte della maggioranza della popolazione di appropriarsi e godere della stragrande ricchezza prodotta nella società, a causa della continua riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto.
Va anche detto che il progresso tecnico può a volte essere limitato dal monopolio capitalistico in singoli rami industriali, in singoli paesi e per periodi di tempo determinati, in quanto i capitalisti più forti, in condizioni particolari, possono arrivare a monopolizzare alcune fette di mercato e muoversi in questi rami come meglio credono (la concorrenza viene così ostacolata): ciò spiega Lenin nel paragrafo “Parassitismo e putrefazione del capitalismo” dell’opuscolo sull’imperialismo. Ma questo processo, tendenzialmente inevitabile nella nostra società, non agisce a senso unico.
Il monopolio capitalistico porta in sé la tendenza alla massima concentrazione e centralizzazione del capitale, e quindi alla stagnazione, ma produce anche aumento della concorrenza tra i grandi e quindi quel meccanismo che induce ogni capitalista a ridurre continuamente i costi di produzione e ad elevare i profitti operando una costante innovazione.
Ciò dimostra che «i movimenti del progresso tecnico e quindi di ogni altro progresso» possono, in una fase di dominio imperialista, essere paralizzati solo fino ad un certo punto poiché agiscono come tendenze, come processi che quando si producono lo fanno solo transitoriamente, come spiega sempre Lenin nello stesso opuscolo.
Il capitale non può quindi attestarsi ad uno stadio raggiunto dal suo sviluppo, ma deve sempre rimodernare: le sue macchine, le sue tecniche, la sua scienza, il grado di “specializzazione” della forza lavoro ecc., finalizzando il tutto all’estrazione del massimo profitto ed al mantenimento dei rapporti capitalistici di produzione.
Quindi è “innovatore” per natura ma è anche “conservatore” per necessità.
Conclusione
La borghesia se vuole sopravvivere, non può che “trasformarsi” continuamente e sviluppare la società, anche se questo processo deve costantemente essere “piegato”, in quanto genera la sua negazione.
2 – I periodi di accumulazione e di crisi del capitale
I periodi di espansione e quelli di crisi informano l’esistenza di tutto il MPC, dalla sua affermazione fino ai giorni nostri. Abbiamo visto nel primo punto che il sistema capitalista vive in funzione della crescita dell’accumulazione, attraverso la continua valorizzazione del capitale con sempre maggior plusvalore; questa necessità mette in moto quel meccanismo di incremento delle forze produttive tale da generare la caduta del saggio medio di profitto e da provocare la crisi.
Noi sappiamo che le crisi del capitale esprimono il carattere transitorio dell’attuale MPC, indicando il fatto che lo sviluppo delle forze produttive è talmente rapido e sfrenato da arrivare ad un punto tale da entrare in contraddizione con gli attuali rapporti di produzione, che quindi agiscono da ostacolo all’ulteriore sviluppo delle prime.
Ma sappiamo anche che le crisi sono cicliche, così come siamo a conoscenza del fatto che la caduta del saggio medio di profitto è tendenziale, cioè è ostacolata da quell’insieme di controtendenze che agiscono come argine alla legge di caduta.
Marx, nel capitolo del III Libro de “Il Capitale” dedicato alle “Cause antagonistiche”, spiega il fatto che gli stessi elementi su cui il capitale fa leva per generare valorizzazione, agiscono come causa della caduta del profitto, e quindi il capitalista non può che operare principalmente su essi per rallentare la crisi.
Tra queste controtendenze Marx cita: 1) l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro; 2) la riduzione del salario al di sotto del valore della forza-lavoro; 3) la diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante; 4) la condizione di relativa sovrappopolazione (e cioè l’esercito industriale di riserva che aumenta quanto più è sviluppato il paese capitalista in questione; 5) lo sviluppo del commercio estero; 6) l’accrescimento del capitale azionario.
Esse fanno in modo che a periodi di crisi di sovrapproduzione si succedano momenti di ripresa, a dire il vero sempre più brevi e difficili da realizzarsi e al cui seguito si pongono altri periodi di crisi sempre più insidiose, ravvicinate nel tempo ed estese.
Non è quindi la crisi che caratterizza i nostri giorni, visto che già nell’Ottocento il capitale ne ha dovute superare non poche; sono l’ampiezza e la portata della crisi capitalistica che sono diverse: nell’Ottocento si verificano crisi commerciali e industriali abbastanza circoscritte (a parte quella del 1873), nel nostro secolo crisi che o hanno anticipato la guerra (vedi il 1913 e la grande crisi del ’29) oppure hanno avuto ripercussioni in tutti i campi (vedi la recessione del 1963, la crisi del petrolio del 1973-’75, la recessione del 1980 e la crisi dei nostri giorni).
Le crisi sono sempre state accompagnate da misure e circostanze analoghe a quelle che attualmente assumono i connotati specifici di: da una parte, richiesta di massima innovazione (di processo e di prodotto), ricerca, sviluppo; da un’altra parte, sovrapproduzione che ostacola la completa valorizzazione; da un’altra parte ancora, messa in opera di meccanismi controtendenziali relativi alla riduzione del salario operaio (vedi le riforme operate sulla struttura del salario), all’utilizzo della forza-lavoro funzionale alle necessità del capitale (vedi flessibilità, mobilità), all’uso della forza-lavoro giovanile super sfruttata (vedi contratti di formazione), all’aumento dello sfruttamento del capitale sul lavoro (vedi il prolungamento dell’orario e il pieno utilizzo degli impianti attraverso il lavoro festivo, prefestivo e notturno), alla nocività sul lavoro (vedi la mancanza di norme di sicurezza), ai forti finanziamenti dati alle imprese a sostegno dell’accumulazione; e, per finire, dai momenti di relativo respiro che, pur con difficoltà, le imprese più forti riescono ad avere (vedi il brillante bilancio conseguito dalla Fiat nell’89 a seguito di un fatturato in aumento del 18% rispetto all’88).
Ma non basta dire che la crisi economica del capitale non è prerogativa della fase imperialista, oppure soffermarsi sul fatto che la differenza col passato è da ricercare nell’ampiezza e portata della crisi stessa: bisogna capire che relazione si stabilisce tra accumulazione e crisi.
Il processo di accumulazione si prefigge la massima estrazione di plusvalore, ma con l’aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile si ha caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Essa però non comporta una riduzione automatica della quantità dei profitti ottenuti: caduta del saggio medio di profitto ed aumento della massa dei profitti sono le due facce della stessa medaglia. Con il processo di accumulazione si ha quindi accrescimento del saggio del plusvalore, caduta tendenziale del saggio medio di profitto, aumento della massa dei profitti, diminuzione della massa di plusvalore sociale prodotto (queste circostanze, com’è ovvio, si realizzano dialetticamente, con eccezioni che possono riguardare singole imprese o branche della produzione).
Ciò che va osservato è che accumulazione e crisi agiscono insieme, convivono contraddittoriamente. Marx ci spiega che è la stessa legge dell’accumulazione a generare la caduta del saggio di profitto e quindi le crisi: «… le stesse leggi della produzione e dell’accumulazione aumentano in progressione crescente, insieme alla massa, il valore del capitale costante più rapidamente di quanto avviene per la parte variabile del capitale convertita in lavoro vivo. Le stesse leggi producono quindi per il capitale sociale un aumento della massa assoluta del profitto e una diminuzione del saggio di profitto» (“Il Capitale“, libro III).
Se ci soffermiamo un attimo ad analizzare la situazione di alcune grandi imprese noteremo come il loro andamento sia costantemente ondulatorio; da un versante assistiamo ad una continua produzione di capitale eccedente, cioè sovrapprodotto, accompagnata dall’applicazione di misure controtendenziali che permettano alle imprese di rallentare la riduzione del saggio medio di profitto, da un altro versante si verifica un aumento della massa dei profitti e quindi fatturati di fine anno più alti rispetto a quelli precedenti: cioè un bilancio positivo.
Mettendo in relazione i dati attuali con quelli fornitici da Marx in merito agli elementi propri dello sviluppo del capitalismo, ci rendiamo conto della continuità che si afferma nel tempo. Con l’aumento della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione il capitale riesce sempre meno ad avere respiro, di conseguenza finché è in vita è costretto ad usare tutte le “armi” che possiede: da un lato per trovare nuove fonti di profitto, dall’altro per mantenere gli attuali rapporti di produzione.
Il capitalismo infatti non crollerà mai da solo, nonostante la sua sempre più elevata instabilità. Esso è costretto continuamente a trovare il modo per arginare la contraddizione che lo perseguita. L’arroganza che la borghesia esprime con sempre maggior virulenza, manifesta la sua necessità di conservazione dinanzi ad una lotta di classe che, a seguito della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, diviene oggettivamente sempre più preoccupante.
Conclusione
– Durante lo sviluppo del modo di produzione capitalista si sono intervallati periodi di crisi, causati dalla riduzione del saggio medio di profitto, accompagnati da momenti di accumulazione ed espansione.
– Accumulazione e crisi sono due aspetti del medesimo processo: nel mentre si crea aumento del saggio di pv e aumento della massa dei profitti, si crea anche riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto e riduzione tendenziale del saggio medio di profitto.
– Più il capitalismo entra in una fase di putrefazione, quindi si acuisce la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, e più le crisi da cicliche diventano permanenti e insidiose; ma questo non significa che si arresti lo sviluppo delle forze produttive, il capitalismo senza questo sviluppo non potrebbe alimentarsi.
– Inevitabilmente il carattere autoritario, che la borghesia aveva già espresso prima che sorgesse l’imperialismo, si afferma; ma a causa dell’impossibilità di negare lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, questo carattere autoritario non può essere l’aspetto definitivo e assoluto.
– L’autoritarismo e la reazione della borghesia non sono oggi più marcati che nel passato (vedi XIX secolo), oggi si esprimono “semplicemente” con maggiore continuità a causa della crisi e in modo più insidioso a causa dello sviluppo delle contraddizioni che esso stesso genera.
3 – La fase di ascesa e la fase di disfacimento del MPC
Abbiamo già accennato al fatto che il carattere autoritario non nasce con l’imperialismo, anche se in questa fase assume altri connotati.
La borghesia durante il periodo della sua affermazione (e quindi in un’epoca di espansione durante la quale il proletariato comincia a formarsi come classe) determinò degli eccessi enormi di sfruttamento in fabbrica. Le nuove macchine rendevano sempre più precarie le condizioni di vita degli operai, la concorrenza capitalistica e le crisi commerciali rendevano instabile il salario operaio.
Sin dalla sua nascita quindi la classe dei capitalisti non ha riguardi per la forza lavoro: solo i limiti storici e fisici imposti dalla società la costringono ad una relativa ed apparente “ragionevolezza” (nell’Ottocento, per esempio, sul limite della giornata lavorativa).
È evidente che in un periodo ancora di formazione delle due classi principali della società (il proletariato e la borghesia) ciò che anima la classe al potere (e cioè la bramosia di accumulazione) riesce ad affermarsi con poche difficoltà (pur dovendo ancora lottare contro i residui del vecchio modo di produzione).
Proprio per questo motivo, non avendo ostacoli determinanti, essa non pone limiti alla sua sete di dominio, soprattutto a ridosso di crisi.
Scrive Marx nel I libro de “Il Capitale”: «Gli ispettori di fabbrica riferiscono come segue sul periodo della crisi dal 1857 al 1858: “si può ritenere illogico che abbia luogo un qualsiasi sovraccarico di lavoro in un momento nel quale il commercio va così male; ma proprio questa cattiva situazione sprona gente senza scrupoli a trasgressioni; costoro si assicurano così un profitto straordinario… ” Lo stesso fenomeno si ripete su scala minore durante la terribile crisi del cotone del 1861-65».
Dunque a cosa servì e che caratteristiche assunse il progresso che pur si ebbe a quei tempi?
Se da una parte le leggi “liberali” di quel periodo si imposero come “leggi naturali del modo di produzione”, «i fabbricanti non permisero questo “progresso” senza un “regresso” che lo compensasse». Per esempio nel periodo dal 1844 al 1847 «… la giornata lavorativa di dodici ore ebbe validità generale ed uniforme in tutte le branche industriali soggette alla legislazione sulle fabbriche», ma nello stesso tempo sotto la spinta dei fabbricanti «… la Camera dei Comuni ridusse da nove a otto anni l’età minima dei fanciulli da consumare col lavoro, per garantire la “provvista addizionale di ragazzi di fabbrica” dovuta al capitale in nome di Dio e della legge».
Di esempi se ne potrebbero fare tanti – basterebbe citare altre frasi di Marx che troviamo su “Il Capitale” – per mostrare la barbarie naturale della borghesia e il fatto che il suo “progresso” ha sempre dovuto fare i conti con le proprie leggi di sviluppo e con la lotta di classe.
Questa situazione contraddittoria si manifesta, come abbiamo visto, in un periodo di ascesa del capitalismo.
Ciò che quindi distingue la fase di ascesa da quella di disfacimento del MPC non è l’espressione più o meno marcata della “arroganza” borghese, ma il modo in cui si manifestano ed alternano periodi di ripresa con periodi di crisi di sovrapproduzione.
Un’altra distinzione che si afferma con lo sviluppo del capitalismo la troviamo nel modo di estrarre plusvalore.
Fino a che è stato possibile, il capitalista ha operato lo sfruttamento dell’operaio produttivo attraverso il prolungamento della giornata lavorativa, estraendo così plusvalore assoluto; ma con il rivoluzionamento continuo delle condizioni tecniche e sociali del processo produttivo si è arrivati all’estrazione del plusvalore relativo.
Il prolungamento della giornata lavorativa e l’accorciamento del tempo di lavoro necessario rispetto al tempo di pluslavoro, sono entrambi mezzi usati dai capitalisti per aumentare il saggio di plusvalore, ma mentre il capitalista dell’Ottocento pur sfruttando i suoi operai e costringendoli a condizioni di vita e di lavoro disumane, non poteva allungare la giornata lavorativa oltre limiti fisici, storici e sociali – e quindi non poteva estrarre plusvalore all’infinito – il capitalista dei nostri giorni pur ricorrendo a forme di sfruttamento apparentemente più civili riesce ad ottenere un maggior saggio di plusvalore, intensificando i ritmi, aumentando la produttività, ecc.
Non è per caso che Marx definisce l’estrazione di plusvalore relativo come il «modo di produzione specificatamente capitalistico».
Se da un lato quindi i capitalisti, all’inizio, apparivano più barbari per il modo in cui applicavano le leggi del profitto, da un altro lato il loro sfruttare la classe operaia veniva limitato, non potendo svilupparsi oltre un certo grado. L’attuale capitalista invece, pur se appare nella forma più democratico, risulta nei fatti molto più “attrezzato” alla torchiatura della forza-lavoro.
Quanto detto si riferisce al tipo di relazione esistente tra estrazione di plusvalore assoluto e relativo da un lato, e progresso e conservazione, democrazia e reazione, dall’altro.
Se Marx definisce ne “Il Capitale” l’estrazione di plusvalore relativo come la forma specificatamente capitalistica dello sfruttamento, essa è sì meno brutale dell’allungamento della giornata lavorativa, ma più conforme al continuo sviluppo delle forze produttive nell’ambito dei rapporti di produzione capitalistici; quindi è oppressione e violenza di classe come e più dell’estrazione del plusvalore assoluto.
La dominanza dell’estrazione del plusvalore relativo si afferma ben prima dell’imperialismo, ma lo sviluppo di quest’ultimo ne fa in ogni luogo della terra la parola d’ordine di tutte le borghesie e loro frazioni.
La “conquista” dei mezzi per accrescere lo sfruttamento, il plusvalore relativo, è spesso faticosa per i paesi arretrati e portatrice di contraddizioni interborghesi, come è stato da Lenin ben spiegato ne “L’imperialismo” parlando della «… oppressione imperialista e lo sfruttamento della maggior parte delle nazioni della terra per opera del parassitismo capitalista di un pugno di stati ricchi…» e, dopo poche righe, dicendo che «L’esportazione di capitali influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando tale sviluppo. Pertanto… non può non dare origine a una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo» (1).
Nel periodo del tardo capitalismo le crisi, come abbiamo già detto, assumono sempre più un carattere generale, acuto, nonché si riducono i mezzi per prevenirle (tendenza questa che Marx ed Engels avevano già individuato nel “Manifesto del Partito Comunista”). Difatti con il suo avanzare il capitale, per far fronte alle sue difficoltà, si espande facendo assumere alla crisi un carattere mondiale.
«L’imperialismo nasce con la concentrazione della produzione, la formazione dei monopoli capitalistici, la fusione e simbiosi delle banche con l’industria, l’esportazione di capitali, la spartizione della terra tra le grandi potenze» – diceva Lenin. Ma, nello stesso opuscolo sull’imperialismo, egli pone l’accento sul fatto che la storia dei monopoli capitalistici non inizia con il XX secolo, anche se solo nel Novecento essi si sono definitivamente affermati come base del “nuovo capitalismo”.
Lenin spiega che tutte le caratteristiche dell’imperialismo erano già in nuce nella fase nascente del capitalismo. Egli fa riferimento alle opere dove Marx spiega come alla base della tendenza ai monopoli vi sia la spinta alla concentrazione della produzione, creata originariamente proprio da quella libera concorrenza che l’imperialismo tende ad ostacolare.
I monopoli, che nella fase dell’imperialismo sono alla base della formazione del capitale finanziario, sono sostenuti da quel «sistema creditizio, delle società per azioni, ecc. (che) permettono agli individui di trasformare il denaro in capitale senza divenire essi stessi dei capitalisti industriali» (“Il Capitale”, libro III).
Il credito bancario, la speculazione in titoli di borsa, le società per azioni, ecc., di cui Marx ci ha spiegato i meccanismi, dimostrano il parassitismo e l’imputridimento del capitalismo. Aumentano la concentrazione del capitale e le crisi economiche di sovrapproduzione, elementi che con lo sviluppo dell’imperialismo hanno assunto un’importanza eccezionale.
«Il sistema creditizio affretta dunque lo sviluppo delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione» (“Il Capitale”, libro III).
Il credito quindi crea meccanismi contraddittori: permette il rapido trasferimento di capitale da un settore all’altro grazie a prestiti o investimenti; accelera lo sviluppo di quelle società il cui capitale si concentra intorno all’emissione di titoli; aumenta la concorrenza, ecc.
Partendo da ciò che Marx diceva sul sistema delle banche e sulla relazione tra questo capitale e quello industriale, vediamo che rapporto si stabilisce tra i due.
Le banche hanno il compito di assorbire capitali o depositi: cioè avere una forte disponibilità finanziaria, vendere denaro, svolgere e finanziare attività di investimento. Tramite le banche quindi il capitale industriale e commerciale può disporre di tutti i risparmi monetari esistenti in un paese. In questo modo il capitalista può sia ricevere in prestito dalla banca un capitale (rappresentante di una parte di plusvalore prodotto precedentemente) che deve servigli per creare nuovo profitto e che deve essere restituito come capitale realizzato addizionato di interesse ad un saggio non troppo elevato in quanto più questo aumenta e più si riduce il profitto dell’imprenditore in questione; sia investire una parte del suo capitale eccedente in sempre nuove e più contorte attività che possano permettergli di concentrare nelle sue mani una massa sempre più alta di plusvalore prodotto nella società.
La riduzione del saggio medio di profitto causata dal minore impiego di capitale variabile in rapporto al capitale costante crea una produzione eccedente di capitali, in quanto il plusvalore che si ottiene è insufficiente a valorizzare la totalità del capitale; si generano in questo modo attività di speculazione, nuovi investimenti di capitali ecc. al fine di assicurare in un modo o nell’altro un extraprofitto. E si crea un vero caos in campo finanziario.
Il costituirsi di istituzioni bancarie sempre più concentrate e forti da un lato, e di concentrazioni monopolistiche nel campo industriale dall’altro, favoriscono la riproduzione del capitale finanziario e di una oligarchia finanziaria che concentra e centralizza il capitale bancario e industriale. Nella fase dell’imperialismo l’affermazione del capitale finanziario è necessaria e possibile in quanto per le sue caratteristiche (massima concorrenza e quindi concentrazione e centralizzazione, esportazione di capitali su ampia scala, sviluppo dei monopoli, ecc.) permette di rallentare la caduta del saggio medio di profitto anche se i suoi stessi meccanismi producono crisi. È un cane che si morde la coda.
Ciò che emerge dalla formazione del capitale finanziario è che se da un lato si stabilisce una stretta unità d’intenti tra industria e banche, dall’altro il capitale bancario sta dinnanzi al capitale industriale come una classe particolare di capitalisti.
Ma nonostante l’affermarsi del capitale finanziario nell’epoca del capitalismo maturo, ciò che ha importanza ai fini della produzione capitalistica è il capitale industriale che dirige il processo di produzione il quale a sua volta informa il processo di circolazione, senza i quali il capitale finanziario non avrebbe motivo di esistere in questa società (e lo dice anche De Benedetti in un’intervista: «… ho una certa capacità e una certa intuizione per la finanza e l’ho usata a vantaggio delle mie aziende…. Negli anni ’90 ci sarà un ritorno ai problemi industriali concreti, dopo un incredibile sviluppo della finanza che ha permesso di rivoluzionare il sistema industriale»).
Se è vero che con l’imperialismo il capitale finanziario si afferma, è anche vero che la crisi del capitale ha origine dalla produzione, ed è qui che il capitale agisce in primo luogo per arginare la propria caduta. La contrazione della base produttiva che si determina nella nostra società a causa della crisi, non può che produrre da un lato recessione economica, dall’altro riduzione delle entrate dello Stato a causa della compressione dei salari operai in termini reali e della riduzione della forza-lavoro impiegata nella produzione.
Abbiamo visto nei punti precedenti l’importanza che ha la produzione di plusvalore per i nostri capitalisti e quindi per tutta la società borghese e il caos che la sovrapproduzione determina. Abbiamo detto che le recessioni si allungano e divengono sempre più gravi, le “riprese economiche” si hanno con sempre più difficoltà e per brevi periodi; abbiamo inoltre affermato che, così come nel passato, si ha compressione del salario in tutte le forme, diminuzione dell’occupazione, intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro: tutti processi ormai acquisiti e consolidati particolarmente nei paesi avanzati dell’Occidente.
Sullo sviluppo intensivo di questo processo, oggi come ieri, la borghesia poggia la necessità e la possibilità di aumentare la propria competitività sul mercato internazionale, modificando la struttura del salario, subordinando questo alla produttività e quindi al profitto, riformando la contrattazione collettiva e il mercato del lavoro.
È ovvio che nella società capitalistica l’Esecutivo (come entità e non come coalizione) si adoperi per sostenere l’accumulazione e in questo senso orienti le sue politiche.
La riduzione del tempo di lavoro necessario alla riproduzione della classe operaia viene perseguita attraverso tutti i meccanismi che Marx già individuava come controtendenze alla caduta; inoltre – ripetiamo – la riduzione del costo del lavoro (praticata in questi anni attraverso vari meccanismi: attacco alla contingenza, fiscalizzazioine degli oneri sociali, attacco al salario indiretto), riducendo la paga netta dell’operaio, contrae anche le entrate dello Stato, nella misura in cui sono rappresentate anche da oneri sociali e tasse; quindi per controbilanciare questa contrazione diviene inevitabile l’aumento della tassazione diretta e indiretta, la diminuzione delle spese e il ricorso al debito pubblico. Quest’ultima circostanza aziona peraltro nella nostra società un contorto meccanismo anche nel campo finanziario: da un lato le banche investono parte dei loro depositi nell’acquisto di titoli di Stato riducendo così le proprie disponibilità finanziarie, dall’altro la domanda di credito aumenta facendo lievitare il costo del denaro; ciò si riflette negativamente sugli industriali, che dovranno pagare maggiori costi per proseguire nel processo innovativo.
Aumenta perciò il denaro offerto per l’acquisto dei titoli di Stato, ma il restringimento del complesso delle entrate statali, accompagnandosi alla crescente domanda di denaro, sempre da parte dello Stato, si risolve in nuove emissioni di titoli, ricominciando da capo il circolo vizioso.
A questo punto è chiaro che la necessità che il capitale ha di ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione dei mezzi di sussistenza della classe operaia innesca un meccanismo perverso in tutta la società, creando continua riduzione del salario e dei redditi diretti e indiretti, continuo aumento dello sfruttamento operaio, sempre nuovo ricorso al debito pubblico e costante contrazione della base produttiva; a ciò si accompagnano misure di prevenzione delle lotte, attività di controllo dei flussi e riflussi dell’antagonismo e forme di repressione dell’autonomia di classe (vedi per esempio la legge di modifica del diritto di sciopero).
Il quadro descritto dimostra quindi che, più che mai, nella fase di imperialismo maturo:
- a) la massa del plusvalore sociale prodotto è insufficiente a valorizzare l’insieme del capitale, quindi tutto si muove in funzione e per arginare questo limite;
- b) le prime controtendenze utilizzate dal capitale per frenare la sua crisi sono applicate direttamente al processo di produzione di plusvalore;
- c) il ricorso spropositato agli investimenti prettamente finanziari, la concentrazione e la centralizzazione in monopoli capitalistici ecc., sono tutte conseguenze dell’eccedenza di capitali che si determina e della riduzione della massa di plusvalore sociale estratto, ed agiscono anche come controtendenze;
- d) la necessità di stringere alleanze fa nascere il capitale collettivo, che con lo sviluppo dei monopoli acuisce le contraddizioni interborghesi in quanto eleva ed aumenta la concorrenza.
Il capitale quindi fa uso di varie controtendenze di cui alcune, incidendo direttamente sul processo di produzione di plusvalore (vedi le “cause antagonistiche”) assumono un’importanza maggiore rappresentando la base da cui le altre traggono alimento. Ma queste controtendenze agiscono innanzitutto come fondamento dello sviluppo dell’accumulazione.
Le spinte ai processi di integrazione e concentrazione economica, accompagnate alla maggiore competitività delle imprese sul piano internazionale, sono fenomeni quotidiani. Raccogliendo le proprie forze e continuando la lotta al loro interno, i singoli capitalisti possono riuscire a contrastare momentaneamente la riduzione del saggio medio di profitto; ne sono la prova le varie joint-ventures, accordi e fusioni nel settore industriale, in quello della distribuzione ecc., a livello nazionale e internazionale.
La centralizzazione dei capitali permette sostanzialmente ai più forti nei vari settori di divenirlo ancora di più e quindi di acquisire nuove fonti di profitto. Questo grazie al fatto che settori produttivi o commerciali sono inondati da una crisi talmente elevata da non permettere a tutti di fronteggiare la concorrenza, cosicché intere aziende vengono cedute o integrate ad altre gestioni.
Esiste poi una forma di concentrazione particolare che si determina tra capitale pubblico e privato: le “privatizzazioni” di settori quali sanità, trasporti, credito, ecc. Va rilevato che esse non nascono oggi; alcuni dati relativi ad un rapporto del CENSIS dimostrano chiaramente che una combinazione tra gestione privata e pubblica esiste da tempo (ancora sanità e trasporti e poi previdenza, PPTT, pubblica istruzione, ecc.) ma che essa, per come si presenta, è oggi insufficiente per permettere il pieno “risanamento” di questi settori.
Il sistema pubblico, a causa del forte debito in cui versa, non riesce a rendere competitiva la sua attuale gestione maggioritaria. Ma il positivo andamento dell’economia nazionale è nell’interesse di tutta la borghesia (e le privatizzazioni particolarmente interessano il capitale privato) quindi, seppure a malincuore per alcuni, questa ristrutturazione si impone come inevitabile.
La concentrazione e la centralizzazione del capitale si accompagnano alla ristrutturazione finanziaria. Il settore finanziario, unendo il capitale industriale a quello bancario, diviene il luogo ove maggiore è la lotta interborghese finalizzata alla concentrazione e centralizzazione monopolistiche.
Processi tutti molto dolorosi per la borghesia che, pur se da un lato è unita nella definizione dei progetti antiproletari, da un altro lato è in lotta al suo interno, anche se nella lotta è costretta a raggiungere la massima unità per cercare di recuperare quote di plusvalore sociale e utilizzarlo al fine di valorizzare il proprio capitale. Ma ciò crea accumulo di altro capitale eccedente e quindi nuove contraddizioni.
Possiamo a questo punto aggiungere che anche le indicazioni dei vari istituti economici internazionali (FMI, BM) creati dalla borghesia, operano controtendenzialmente alla crisi. Questi organismi, al cui interno convivono unità e lotta, si fanno portatori sul piano internazionale degli interessi antiproletari dell’imperialismo ed amministrano l’economia mondiale in modo ad esso confacente. In questo senso si indirizzano le politiche di queste istituzioni, sia nei confronti di quei paesi avanzati che più di altri attraversano una forte crisi economica e finanziaria (per esempio l’Italia), richiamandoli all’applicazione della politica del “rigore“; sia nei riguardi dei paesi della periferia verso cui il sostegno economico è sì fuori discussione, ma deve essere accompagnato da una gestione interna che si renda responsabile dei propri compiti dinanzi ad un’economia in sfacelo e che sappia quindi adeguatamente far valere la legge dell’accumulazione.
Le proposte di queste strutture sovranazionali indirizzano i governi, a livello mondiale, nella ricerca di un proprio “risanamento” attraverso una ferrea applicazione della regola del profitto, della massima produttività, dell’aumento dello sfruttamento, ecc., in cui la centralità è ricoperta dalla produzione.
L’applicazione delle principali “cause antagonistiche” esposte da Marx come elementi su cui i capitalisti agiscono per favorire l’accumulazione ed arginare, in periodi di crisi, la caduta del saggio medio di profitto, rappresenta un importante fine dei vari accordi stipulati in sede internazionale dai paesi più avanzati che militano in questi organismi.
In questo senso tali istituzioni operano anche in modo controtendenziale alle crisi odierne.
La necessità di trovare nuove fonti di profitto, abbiamo visto, induce i capitalisti ad esportare i propri capitali eccedenti; ciò aumenta su un versante l’integrazione internazionale e la concorrenza, sull’altro la dipendenza economica di alcuni paesi da altri. Questo andamento viene ovviamente guidato dai paesi più avanzati e quindi dai capitali più forti, sia in Occidente che nelle altre aree del mondo.
A parte i paesi avanzati, tra cui si creano monopoli, si stabiliscono concentrazioni e centralizzazioni, si effettuano tutte quelle operazioni che anche sul piano internazionale permettono di arginare la legge di caduta come appena descritto (paesi in cui più lo sviluppo capitalistico è avanzato e più le crisi di sovrapproduzione si fanno sentire), l’imperialismo riguardo alle altre aree si muove in diverso modo.
A questo proposito è il caso di riallacciarci a quanto detto più sopra in merito alle controtendenze alla caduta del saggio medio di profitto. Partiamo dal ragionamento di Marx nel libro III de “Il Capitale”, (cap. XIV sulle “Cause antagonistiche”): «I capitali investiti nel commercio estero possono presentare un saggio del profitto più alto soprattutto in quanto così fanno concorrenza a merci prodotte da altri paesi a condizioni meno propizie; in tal caso il paese più progredito vende i suoi prodotti a un prezzo più alto del loro valore, sebbene più basso di quello dei paesi concorrenti. Fintantoché il lavoro del paese più progredito viene impiegato come lavoro di un peso specifico superiore, il saggio del profitto aumenta, giacché il lavoro che non è retribuito come lavoro di qualità superiore, viene venduto come tale. La stessa situazione può stabilirsi nei confronti di un paese con il quale si abbiano rapporti d’importazione ed esportazione: esso fornisce in natura una quantità di lavoro oggettivato più alta di quella che riceve e ciononostante ottiene la merce ad un prezzo più basso di quanto non potrebbe produrre esso stesso… Del resto, quanto ai capitali investiti nelle colonie ecc., essi possono fornire un saggio del profitto superiore sia in quanto generalmente il saggio del profitto è più alto in questi paesi in seguito all’inadeguato sviluppo della produzione, sia in quanto… il lavoro viene sfruttato in maniera più intensa».
Sulla base di ciò il marxista Lenin ha potuto approfondire il concetto di esportazione di capitali quale dato caratteristico dell’imperialismo, quale ulteriore sviluppo della semplice esportazione di merci. Ma solo analizzando questo dato nella sua natura di “causa antagonistica”, di controtendenza alla caduta del profitto, si può chiarire un importantissimo aspetto economico dell’imperialismo: maggiore gravità e intensificazione delle crisi e conseguente sviluppo delle controtendenze. Ciò premesso riportiamo Lenin: «Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza dei capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse… ma ad elevare tali profitti mediante l’esportazione all’estero, nei paesi meno progrediti (2). In questi ultimi il profitto ordinario è assai alto, poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno vi è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo» (3) (“L’imperialismo”).
Quindi da una parte nei paesi in via di sviluppo l’imperialismo può raggiungere maggiori profitti (paesi che peraltro sono fortemente indebitati con l’Occidente industrializzato ma ai quali, pur se sottoposti ad una forte pressione dagli istituti internazionali al fine di riavere i soldi stanziati, non si riducono i prestiti e non s’impongono grossi interessi, visto che non riuscirebbero mai a pagarli; tutto questo conferma la necessità che ha l’imperialismo occidentale di continuare ad invadere e sfruttare questi mercati, e l’interesse economico che pure muove le borghesie dei paesi arretrati a stipulare accordi con l’Occidente), dall’altra parte nel Sud-Est asiatico e nei paesi dell’Est europeo le potenze occidentali devono agire diversamente.
Per quanto riguarda il Sud-Est asiatico, se è vero che in quest’area ancora non sviluppata completamente è possibile per il “nostro” capitalista raggiungere comunque dei maggiori margini di profitto, avere forza-lavoro a costo minore, “piazzare” il proprio capitale, ecc., va detto che all’interno di questa zona (Corea del Sud, Taiwan, Hong-Kong, Singapore) si sta sviluppando l’industria nazionale ad un ritmo che le permette sempre più di attestarsi ad un livello di progresso capitalistico.
Per quanto riguarda invece l’apertura all’Est, l’Europa industrializzata e tutto l’impero occidentale iniziano a manifestare una particolare attenzione. Non vogliamo qui analizzare ciò che in questa parte del mondo sta avvenendo e perché, vorremmo solo accennare a cos’è che muove l’imperialismo verso Est. È chiaro che questa area geografica e politica è colpita da una grossa e forte crisi economica, quindi è costretta a modernizzare il suo apparato produttivo e renderlo competitivo sul mercato internazionale. Per far questo si agisce su vari fronti: ristrutturazione interna, modifica della struttura produttiva, convertibilità della moneta, allargamento delle esportazioni, creazione di joint-ventures per associare capitale straniero e nazionale.
Lo slancio degli scambi che in particolare l’URSS sta stabilendo con l’Occidente ha origine dal suo bisogno di modernizzazione tecnologica e dalle carenze produttive interne all’agricoltura, e dalla nuova possibilità che si crea in questo modo per i paesi occidentali di poter esportare parte di quel capitale che risulta sovrapprodotto.
È abbastanza chiaro a questo punto il motivo per cui gli occidentali vedono di buon grado l’apertura dei mercati dell’Est; non è un caso che essi si scannino tra loro per cercare di avere il migliore posto nell’invasione e penetrazione di questa area. Sentiamo cosa dice Agnelli al riguardo, e cosa propone: il mercato dell’Est rappresenta «il mercato mondiale che ha la più forte potenzialità di crescita (e) lo sviluppo dell’ECU come moneta europea deve essere visto come contributo all’integrazione dell’Europa occidentale e al tempo stesso come base della ricostruzione di quella orientale».
La recessione mondiale in cui si trovano ad operare i capitalisti, può essere in qualche modo “arrestata” momentaneamente con l’apertura di questi nuovi mercati.
La situazione internazionale fin qui descritta ci permette di tracciare cinque considerazioni:
1) Le potenze imperialiste non possono fare a meno di invadere e sfruttare nuove aree. 2) Tutto il mondo è ormai dominato dal capitalismo, e solo a causa di fattori strutturali interni storici, politici, economici e sociali i vari paesi si collocano su piani diversi. 3) Il MPC operante su scala mondiale rende necessaria ovunque la realizzazione della legge del valore. 4) In queste condizioni il proletariato, ormai esistente su tutto il globo, pur distinto per il modo in cui viene sfruttato, si trova ad avere immediatamente dinanzi un nemico interno da combattere rappresentato dalla propria borghesia, che per quanto in alcune zone possa essere ancora “stracciona”, non è certo da meno – nel suo rapporto con la classe avversa – della borghesia che controlla New York. 5) Il proletariato è quindi destinato a svilupparsi in intensità ed estensione, a livello internazionale, come classe e vedrà aumentare il suo sfruttamento.
Esportazione di capitali, spartizione internazionale del mercato, nascita di monopoli nazionali ed internazionali in tutti i campi, concentrazione e centralizzazione del capitale a livello mondiale, mostrano in definitiva di essere per un verso espressione della bramosia di accumulazione, quindi di sviluppo, e per un altro verso di essere accompagnati da sopruso, violenza, quindi dal regresso.
Abbiamo quindi spiegato sommariamente come la società borghese risulti immersa nelle contraddizioni. La formazione e la riproduzione di una borghesia dominante non significa infatti tranquilla convivenza tra i detentori del potere imperialista, anzi, più si accresce la crisi e più la lotta risulta acuta in seno alla borghesia, per quanto la necessità di rimanere uniti in certe condizioni divenga sempre più pressante.
Qualche compagno a questo punto potrebbe chiedersi se esista, dunque, un cuore nel corpo dell’imperialismo.
La scienza marxista ci insegna che la produzione rappresenta l’anima del capitalismo e quindi che il capitale industriale si distingue qualitativamente da tutte le altre forme di gestione economica (commercio, banche, finanza) e politica della società capitalistica, di cui in ogni modo non può fare a meno. Inoltre, da un punto di vista programmatico, sappiamo che in tutto il mondo capitalista si stipulano accordi, si emanano leggi, si creano cartelli, ecc. al solo fine di aumentare l’accumulazione, e che congiunturalmente esistono progetti di ordine economico e politico (che devono marciare conseguentemente a questo fine) che si pongono al centro di tutte le scelte, le lotte, le coalizioni della borghesia.
Ma sappiamo anche che i progetti sono sottoposti a continue trasformazioni; quindi, per quanto sulla base di obiettivi strategici da raggiungere emergano, a livello congiunturale, degli aspetti centrali – intorno ai quali si concentra l’attenzione dell’intera classe dominante in un dato paese – diciamo anche che questi aspetti: primo, non possono mai rappresentare da soli tutte le speranze di tutta la borghesia; secondo, pur avendo un’oggettiva centralità, essa non potrà che essere transitoria. Non esiste quindi un cuore dell’imperialismo.
Sempre riguardo al significato che si attribuisce al termine “borghesia dominante”, vogliamo dire due parole su quella parte di borghesia che esprime il proprio potere economico e politico attraverso l’illegalità. La formazione di questa borghesia si distingue dalla gestione centrale del potere economico, politico e finanziario.
La sua formazione e la sua esistenza derivano prevalentemente da quella divisione storica nel nostro paese, che neanche con l’unità d’Italia si è superata, che ha dato origine alla cosiddetta “questione meridionale” e che ha prodotto lo sviluppo separato (economico e politico) del Centro-Sud da una parte e del Nord dall’altra (con l’insediamento delle grandi industrie nell’Italia settentrionale).
La crisi generale del sistema capitalistico, la ricerca frenetica di sempre nuove strade per accaparrarsi profitti, la necessità – che si è imposta in alcuni periodi – di prevenire e reprimere movimenti proletari di lotta e fenomeni rivoluzionari nel nostro paese, hanno sicuramente favorito lo sviluppo di forme illegali entro cui venivano e vengono coinvolte varie frazioni di borghesia, e attraverso cui si è potuta svolgere una lotta intestina senza esclusione di colpi.
Tutto ciò invece che attenuarle, aumenta le contraddizioni in seno alla classe dominante, dove il grande capitale ha la parte del leone.
Nella lotta interborghese, insomma, quella che si afferma o si riafferma come borghesia dominante rappresenta, e continuerà a rappresentare, gli interessi del grande capitale.
Conclusione
– Il marxismo come scienza rivoluzionaria ci fa comprendere pienamente che l’imperialismo non rappresenta altro se non la degenerazione del capitalismo. Periodo in cui le contraddizioni si acuiscono, la crisi avanza, le controtendenze riescono sempre meno a porre rimedio alla legge di caduta.
– Ciò che distingue la fase di ascesa da quella di disfacimento del capitalismo è l’entità delle crisi economiche e finanziarie, tale da indurre il capitale nei suoi diversi periodi di sviluppo a far sempre più leva sulle controtendenze in suo possesso per poter sopravvivere. Questi mezzi però generano sempre più altra crisi, rilanciando ad un livello superiore quelle stesse contraddizioni che, ad un livello inferiore, avevano ostacolato.
– Tutti i meccanismi adoperati dall’imperialismo in funzione controtendenziale, si basano sulla necessità di porre un freno alla riduzione della massa di plusvalore sociale prodotto, quindi le controtendenze che il capitale privilegia sono quelle che incidono direttamente sul processo di formazione del plusvalore.
– La crisi, la nascita e la crescita dei monopoli, i giochi di borsa, la spartizione dei mercati, generano da una parte alleanza tra capitalisti, dall’altra lotta interborghese a livello nazionale e mondiale.
– La necessità del sostegno all’accumulazione produce unità nella distinzione tra capitale bancario, capitale industriale e Stato. Cosicché la borghesia dominante presenta il suo interno interessi omogenei, ma contraddittori nella misura in cui gli interessi della singola parte sono messi in discussione dalle altre.
– Nella unità e lotta che si genera nella borghesia solo gli interessi del grande capitale hanno la supremazia (interessi che peraltro sono sottoposti alle leggi della dialettica e quindi della continua trasformazione).
– La presenza dell’imperialismo nelle aree della periferia e l’apertura dell’Est all’Europa occidentale agiscono in modo controtendenziale alla crisi e quindi sono favorite e sviluppate ovunque siano possibili.
– La dominanza nell’imperialismo, proprio in quanto fase di sviluppo del MPC, è costituita dal rapporto che si crea tra: estrazione di plusvalore/crisi che questo genera/“cause antagonistiche” e ulteriori controtendenze che si affermano sul piano economico, finanziario, politico, informate però dalle prime (le “cause antagonistiche”).
– La contraddizione principale nel mondo è quella tra proletariato e borghesia.
4 – Il rapporto crisi/guerra imperialista
Le crisi del capitale possono essere quindi arginate con l’utilizzo di varie controtendenze. Ma arriva il momento in cui l’uso delle controtendenze fin qui esaminate diviene insufficiente allo scopo.
Nella società capitalistica la riduzione del tempo di lavoro necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza operaia, la compressione del salario al di sotto del loro valore, l’invasione di nuovi mercati, la concentrazione, ecc., si affermano con sempre maggiore difficoltà a causa delle contraddizioni del capitale e dell’inevitabile lotta di classe che si genera.
Questa tendenza già operante induce gli Stati e i governi borghesi, ad un certo punto, a “far politica con altri mezzi”.
Le guerre imperialiste permettono di distruggere capitali e di rigenerare una nuova fase di accumulazione ed espansione. Le guerre capitaliste hanno sempre sancito sul piano economico l’instabilità di un paese, di un regime, di un sistema.
La storia è costellata di guerre continue; la guerra imperialista rappresenta l’ultima controtendenza a cui il capitale ricorre per poter ricominciare la corsa verso lo sviluppo e l’accumulazione. Le guerre sono sempre state anticipate da invasioni coloniali o imperialiste, penetrazioni di mercati da parte di capitali, ecc. (basti pensare alle espansioni coloniali inglesi nel Mediterraneo, in Africa e in Asia, o a quelle francesi, tedesche e russe dell’Ottocento, o all’invasione italiana della Libia e così via).
Vediamo ad esempio che alla prima grande guerra imperialista si accompagna un periodo molto ampio di depressione economica e di ristagno, nonché un forte contrasto tra gli imperi tedesco, francese e inglese; così come la grande crisi del ’29 e le invasioni mondiali accompagnarono il conflitto del 1939-’45. Che la borghesia lo voglia o meno, il superamento della crisi attraverso la guerra diviene inevitabile.
Abbiamo detto che le guerre imperialiste servono al capitale per aprire nuovi periodi di ripresa dell’accumulazione, la quale solo in periodi di relativa pace può svilupparsi pienamente (infatti solo alcuni settori – come quelli bellici – possono accentuare la propria produzione nei periodi di guerra). Il capitale vive in funzione dell’accumulazione e quindi le guerre imperialiste, proprio perché devastanti e distruttrici di capitali, non possono durare in eterno.
L’obiettivo per la borghesia dominante è il profitto e non la distruzione di capitali, quindi è la guerra che è funzionale allo sviluppo e non il contrario, sviluppo che perciò non può che affermarsi compiutamente in periodi di pace borghese.
Abbiamo detto che le guerre imperialiste ad un certo punto divengono inevitabili: aggiungiamo che la tendenza oggi operante è quella alla guerra imperialista; essa dovrà distruggere una quantità di capitali eccedenti spropositata.
Le guerre imperialiste si sono sempre accompagnate a periodi di grossa violenza; gli Stati borghesi, dinnanzi alle dimensioni che assumerà questo nuovo conflitto, dovranno quindi predisporre gli strumenti idonei per dirigerlo e per contrastare gli inevitabili “colpi di testa“ dei concorrenti, nonché la contrapposizione operaia e proletaria.
Se è vero che in un periodo di “pace”, in cui comunque aumentano le contraddizioni oggettive, la reazione del capitale si esprime in modo sempre più intensivo, è pur vero che questa reazione dovrà a sua volta trasformarsi a ridosso di un conflitto mondiale interborghese o alle porte di un conflitto tra proletariato e borghesia.
Se è vero che l’unità tra gli imperialisti cresce, e che contemporaneamente aumenta la divisione creata dalla lotta tra diversi interessi al loro interno, nel sistema imperialista si determinano aree più deboli, aree dove la contraddizione tra rapporti di produzione e forze produttive vive e si sviluppa pienamente, paesi in cui la lotta tra proletariato e borghesia assume dimensioni rilevanti, dove – in parole povere – si concentrano tutti i problemi legati all’imperialismo; questi paesi è quindi ipotizzabile che inneschino il futuro conflitto mondiale, per le forti contraddizioni e l’alta instabilità sociale che li attanagliano.
Se pur l’interesse dell’imperialismo sarà quello di distruggere in ultima istanza masse consistenti di capitali per rigenerarsi, nessuno vorrà pagare anche le conseguenze in negativo di una guerra mondiale; quindi le potenze imperialiste cercheranno, così come hanno fatto nel passato, di circoscrivere materialmente l’area ove avrà luogo il conflitto.
Noi non possiamo certo sapere quale sarà, nè dove si verificherà la scintilla che darà via al terzo conflitto mondiale – se nel Centro Europa, in Medioriente o altrove – ma possiamo sicuramente affermare tre cose: primo, che la guerra mondiale si configurerà come una guerra interimperialista e quindi come una guerra che vedrà in campo paesi eguali tra loro, ove la crisi imperialista sarà acuta e forte la necessità di darle soluzione; secondo, che l’“eguaglianza” tra le potenze imperialiste belligeranti non esclude le differenze al loro interno e, in particolare, l’esistenza di un “anello debole della catena imperialista”; terzo, che lo scatenamento di una guerra mondiale dovrà essere preceduto da forti contraddizioni tra i paesi dell’Occidente industrializzato, accompagnate da un’enorme recessione e da altri grossi fattori di crisi, economici e non, ai quali non potrà darsi soluzione pacifica.
Conclusione
– I conflitti nella storia delle società divise in classi sono sempre esistiti, e continueranno a prodursi fino a che esisterà il capitalismo.
– La guerra è la “continuazione della politica con altri mezzi” e rappresenta l’ultima ed inevitabile controtendenza per il capitalismo per poter rilanciare l’accumulazione.
– Durante i periodi di guerra imperialista si ha distruzione di capitali, quindi le guerre non possono essere perenni; la guerra è funzionale alla creazione di condizioni che permettano una maggiore estrazione di plusvalore. Quest’ultima però può ottenersi nelle migliori condizioni solo in periodi di “pace”.
– La tendenza oggi vigente è quella alla guerra interimperialista. I paesi che vi saranno direttamente coinvolti dovranno prepararsi ad affrontare questa situazione, premesso il dato che comunque la guerra non può essere pianificata, così come nulla può esserlo nella società borghese.
– La guerra, indipendentemente da dove si innescherà, vedrà in campo paesi che pur con delle differenze si configureranno come eguali tra loro, in quanto imperialisti.
– La violenza imperialista, che pure oggi emerge, non ha paragone nella forma e nell’entità, con quella che si esprimerà nel contesto di un conflitto.
– Ancora una volta la guerra imperialista avrà come teatro prevalentemente quei paesi imperialisti “anelli deboli” della catena. Ma è pure vero che proprio in questi paesi maturano più facilmente le condizioni affinché, ancora una volta, la tendenza alla guerra imperialista dia origine alla guerra rivoluzionaria. L’Italia è sicuramente uno di questi paesi.
- B) Da un punto di vista politico
«La repubblica democratica contraddice “logicamente” al capitalismo, perché “ufficialmente” eguaglia il ricco e il povero. È questa una contraddizione tra la struttura economica e la sovrastruttura politica. Nel mondo imperialista si ha la stessa contraddizione, approfondita e aggravata dal fatto che la sostituzione della libera concorrenza con il monopolio rende ancora più “difficile” la realizzazione di tutte le libertà politiche» (Lenin, “Intorno a una caricatura del marxismo”).
Il quesito si pone tra due termini, quello economico e quello politico.
– Il carattere “democratico” della borghesia al potere e la sua espressione “reazionaria”.
Nei vari punti sopra esposti abbiamo constatato come il capitalismo sia, da un punto di vista economico, “progresso” perché non può che proiettarsi in avanti, ma anche “conservazione” perché deve mantenere a tutti i costi gli attuali rapporti di produzione.
Ora cerchiamo di capire che influenza eserciti l’andamento economico sull’espressione politica del capitale nelle sue varie forme. Se infatti politicamente l’imperialismo esprime in generale reazione (anche perché, a causa della crisi, si muove guidato dalla volontà di sopraffazione, di rapina, ecc.), in particolare le forme di espressione politica dell’imperialismo possono, anzi debbono, far leva sulla massima “apertura democratica” tale da permettergli il più ampio movimento. Ed anche qui si crea una contraddizione inevitabile.
La democrazia borghese, che pure è stata espressione del progresso della società, del passaggio dal Medioevo ai giorni nostri, è formale: esprime cioè da una parte la libertà di pochi di arricchirsi, lucrare, ecc., e dall’altra “la libertà” per molti di vendere la propria forza-lavoro, di farsi sfruttare. Le conquiste che si sono ottenute sotto l’egida della borghesia (dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, riduzione della giornata lavorativa per tutta la forza-lavoro occupata nell’Ottocento, suffragio universale nel 1848, ecc.) sono state sempre il risultato di due elementi ugualmente importanti e complementari tra loro: le leggi proprie dello sviluppo del capitale e la pressione esercitata dalle lotte proletarie sull’andamento della società. Lotte che ovviamente all’inizio non erano espressione di una classe organizzata ma che con il tempo lo sono divenute.
Dicevano Marx ed Engels: «Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione; la sua lotta contro la borghesia incomincia colla sua esistenza». Se il carattere democratico della borghesia è dunque formale, è anche vero che le lotte proletarie possono modificare l’andamento delle cose, naturalmente in modo relativo fintanto che permangono gli attuali rapporti di produzione.
Se è vero che la reazione è un aspetto emergente dell’imperialismo, è anche vero che la reazione in politica non è solo prerogativa di questo stadio di sviluppo del capitalismo. Guardando indietro, infatti, possiamo vedere che proprio alle spalle della nostra storia si verificano eventi che confermano questo dato. In un periodo in cui per esempio il liberalismo si affermò in politica, dopo l’unità d’Italia, si succedettero nel nostro paese coalizioni di destra e di sinistra.
Qui non ci interessa analizzare la differenza esistente tra la natura reazionaria, legata allo sviluppo e alle contraddizioni del capitalismo, che in politica l’imperialismo assume e le forme di espressione sovrastrutturali che si manifestano nelle varie forme dello Stato borghese. Ma possiamo dire che solo in alcuni periodi, e per ragioni ben precise, il suo carattere per natura reazionario si tramuta in violenza aperta. Il fascismo è in questo senso emblematico, esso ha rappresentato e rappresenta solo una forma della reazione imperialista.
Il fascismo si è manifestato in vari modi nella storia. Una cosa è stato quello nato prima del secondo conflitto mondiale e terminato con la guerra, un’altra cosa sono le dittature che anche dopo il ’45 hanno dominato in alcuni Stati. Non è questa la sede in cui vogliamo esprimerci in merito a tali differenze, anche se ciò sarebbe necessario, vogliamo qui soltanto sottolineare alcune cose.
Innanzitutto che nel primo caso la nascita così come il declino del fascismo sono stati funzionali alle esigenze delle diverse fasi di sviluppo dell’imperialismo in quei paesi collocati in una posizione geografica strategica, e che solo potenzialmente potevano affermarsi come vere e proprie potenze capitaliste.
Nel secondo caso queste dittature perpetuatesi nel tempo si sono rese necessarie per le borghesie di questi paesi a causa delle condizioni di arretratezza economica, di sottosviluppo della struttura produttiva, di miseria in cui era ridotta la maggioranza della popolazione, delle contraddizioni sociali molto forti.
Ma l’obbligo di ricorrere alla dittatura fascista era anche una forma di schiavitù per queste borghesie: se da un lato infatti la forma autoritaria di gestione statale era per loro l’unica possibile date le circostanze, dall’altro lo sviluppo interno ne veniva rallentato e le aspirazioni di crescita in senso imperialista risultavano così ostacolate fintanto che permaneva quella forma di potere statale.
Riprendendo il discorso sui diversi modi in cui si è manifestata la dittatura fascista, possiamo distinguere:
1) paesi centroeuropei (quindi con una posizione strategica) come l’Italia e la Germania, ove il fascismo si è imposto a fronte di una forte crisi (ad esempio la depressione del ’29 colpì in modo particolare la Germania), di eccessivi ritardi nell’industrializzazione (l’Italia, pur capitalista, era ancora un paese arretrato e diviso al suo interno; la disoccupazione e la miseria si aggravarono in Italia e in Germania dopo la crisi del ’29), di forti sommovimenti proletari e contadini, alimentati dalla povertà crescente e fortemente influenzati dalla recente e vicina rivoluzione bolscevica.
Tutte le conseguenze della grande depressione del ’29 e della crisi di sovrapproduzione di capitale erano presenti in quest’area (ove tra l’altro, con la guerra che seguì, si distrusse capitale eccedente) ma ciò non fu in contraddizione con lo sviluppo di nuove forze produttive in questi paesi ancora poco industrializzati. I dati parlano da soli: in Italia in quel periodo si ebbe uno sviluppo dell’industria nazionale, e in particolare del settore metallurgico; la costituzione dell’IRI; l’ultimazione dell’acquedotto pugliese; bonifiche integrali, soprattutto nella zona pontina; la creazione di infrastrutture; la battaglia del grano che portò ad un aumento della produzione cerealicola; e, contemporaneamente a ciò, diminuzione dei salari del 30% e dei redditi del 20%; aumento della disoccupazione, ecc.
Quindi con il fascismo da un lato si svilupparono le forze produttive e si determinò un progresso, dall’altro ci fu un immiserimento delle masse, repressione, distruzione (guerra).
2) Paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo che si collocano ai margini dell’Europa e la cui arretratezza economica è testimoniata anche dalla composizione di classe interna. Questi paesi vengono investiti dalla dittatura fascista con tempi e modi differenti rispetto ad altri e vedono ripristinata la democrazia formale in tempi abbastanza recenti (metà degli anni ’70). Oggi Spagna, Grecia e Portogallo sono paesi imperialisti appartenenti alla CEE, e ciò si è reso possibile proprio grazie alla caduta di quei regimi autoritari che contrastavano con le necessità dello sviluppo imperialistico al loro interno.
Troviamo poi regimi totalitari che si sono stabiliti in aree geografiche della periferia. Queste zone sono esattamente quelle cui l’imperialismo è solito rivolgersi per sfruttare forza-lavoro, risorse ed esportare capitale. L’oppressione qui stabilitasi, generata dal grande immiserimento e dalle forti contraddizioni sociali (vedi America Latina), ha portato l’imperialismo, finito il colonialismo, a sostenere quelle dittature che permettevano all’Occidente industrializzato di assoggettare economicamente e politicamente quest’area, e quindi di poter intervenire senza essere “disturbato” da concorrenti interni o da lotte (non represse) proletarie e contadine.
Se volessimo essere esaustivi fino in fondo dovremmo considerare anche quelle zone del mondo ove lo sviluppo industriale si accompagna a varie forme di Stato facente uso della violenza (Sud Africa e Medio Oriente) (4); ma in questa occasione vorremmo solo delineare degli elementi sintetici.
Se è vero che ad un certo grado di sviluppo l’imperialismo entra in crisi acuta e a ciò si accompagnano regimi violenti, è anche vero che ove si afferma il capitalismo al suo stadio più maturo non può darsi dittatura fascista senza entrare in contraddizione con esso: il fascismo è utile alle borghesie dominanti di quei paesi ove lo sviluppo in senso imperialista viene sì perseguito, ma stenta ancora ad affermarsi.
La democrazia borghese anche in periodi di “pace” può trasformarsi in violenza aperta, ma la storia dei nostri tempi ci dimostra che ciò può verificarsi solo in quei paesi della periferia più o meno industrializzati che attraversano forti crisi economiche, con inflazione assai elevata, alti indici di povertà, ecc. (vedi ad esempio le giunte militari, quali forme particolari di fascismo, attuatesi nel Cile di Pinochet e nelle Filippine di Marcos).
La tendenza operante ai nostri giorni, che vede l’imperialismo occidentale spingere affinché si instaurino regimi “democratici” (ancora Cile e Filipine), è la conseguenza da una parte dello sviluppo interno di questi paesi e quindi dell’esistenza di una borghesia nazionale che può elevare la propria posizione nel mondo capitalista, e dall’altra di una situazione di instabilità sociale che anni di dittatura hanno generato.
I paesi imperialisti ovviamente non vanno contro i propri interessi e quindi non vedono di buon occhio l’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti, ma ciò non viene ostacolato nella misura in cui: a) si creano nelle aree di provenienza di questi nuovi concorrenti misure di concentrazione, monopoli, ecc. ove i capitali più forti hanno la supremazia; b) si favorisce la “pace sociale” interna e quindi, indirettamente, l’insediamento di capitale straniero.
Insomma la reazione fascista, direttamente espressione dello sviluppo in senso imperialista, che caratterizzò paesi come l’Italia e la Germania, deve essere distinta da quella affermatasi in altre aree europee e non, e più o meno industrializzate, colpite da crisi economiche devastanti. Ad esempio il fascismo italiano ha ben poco in comune con il “bonapartismo”, termine che i trotskisti nel nostro paese usarono scorrettamente durante la seconda guerra mondiale – distorcendo alcune affermazioni di Marx ed Engels – arrivando ad identificare il fascismo (espressione diretta dello sviluppo in senso imperialista) con il dispotismo personale.
Il fascismo nell’Europa centrale era guidato dalla grande borghesia quindi non poteva che prodigarsi per lo sviluppo industriale del paese in cui si era affermato. Invece la dittatura dei generali perpetrata nelle aree più arretrate, sia nei paesi capitalisti che in quelli della periferia, ha frenato lo sviluppo industriale nazionale aumentando la miseria.
Inoltre il fascismo centroeuropeo (e in questa occasione evitiamo di considerare quei paesi fascisti, come Polonia e Romania, che circondarono la Russia rivoluzionaria a cavallo delle due grandi guerre) non va assolutamente confuso con le forme di “democrazia violenta” esistenti in zone dell’Africa ecc., ricche di risorse naturali e quindi destinate ad una potenziale accelerazione dello sviluppo interno, ma dove ciò viene ritardato dalla situazione sociale.
Il fascismo è, come la democrazia, una forma di conservazione: una forma politica che assicura la conservazione dell’ordine e quindi il suo necessario sviluppo.
Un’ultima precisazione s’impone a questo punto per non creare inutili confusioni. La reazione che l’imperialismo esprime in mille modi è ben distinta dalla reazione connaturata alle classi intermedie esistenti nella società capitalista. Queste classi, che a causa dell’andamento del capitale continueranno ad oscillare tra proletariato e borghesia, sono conservatrici per natura, in quanto devono ostacolare costantemente il restringimento dei loro privilegi operato dalla borghesia. Per naturale reazione questi settori si oppongono allo sviluppo, cioè a quel meccanismo che genera crisi e quindi restrizioni sociali anche per loro; nel mentre (vista l’impossibilità per essi di frenare l’andamento oggettivo) provano ad ostacolare la propria caduta in uno stato di proletarizzazione cercando i riversare i loro costi sui ceti più deboli della società. Contrapponendosi in questo modo e alla borghesia e al proletariato.
La loro reazione “a doppio senso” è diversa dalla reazione imperialista della classe dominante, anche se è vero che l’imperialismo non disdegna mai di agire sulle contraddizioni, che peraltro esso stesso genera, in seno alle altri classi sociali per raggiungere i suoi fini. Anche l’uso che l’imperialismo fece del “movimento” fascista, espressione del malcontento piccolo borghese e sottoproletario in Italia, rientra a pieno titolo in questa attitudine. Del resto in quegli anni tali fasce sociali vedevano, in quella forma particolare di sviluppo imperialista del paese, la possibilità di elevarsi socialmente.
Oggi la situazione è completamente diversa: la crisi del capitale toglie alla piccola borghesia i privilegi passati, così come costringe il sottoproletariato a condizioni di vita sempre più precarie; è impensabile quindi che questi settori si rivolgano ad una qualsiasi componente della borghesia imperialista dominante per vedere risolti i propri “problemi”.
Per sintetizzare: con la degenerazione del capitalismo, da un parte il sistema dominante non può che fare uso in politica dell’autoritarismo, dall’altra la borghesia al potere non può annullare la sua “anima democratica” proprio perché altrimenti verrebbe meno la possibilità di affermarsi economicamente come modo di produzione ancora operante.
Il carattere democratico che esprime in politica è quindi legato alla spinta dello sviluppo economico; il carattere reazionario e autoritario all’aumento delle contraddizioni e alle difficoltà che la borghesia incontra nel riprodurre la sua società.
Conclusione
– Il fatto che politicamente l’imperialismo, in generale, esprima reazione vuol dire che la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione esistenti è arrivato al suo massimo culmine; oltre il quale il capitalismo non può che cercare di procedere “controcorrente”.
– Quanto sopra non significa che la forma particolare di espressione del dominio borghese coinciderà con la dittatura fascista, tutt’altro. Le attuali condizioni impongono la massima apertura e quindi democrazia formale, entro cui si possono formare o sviluppare monopoli, alleanze internazionali, esportazione di capitali, ecc.
– Leggi oggettive del capitale e lotte proletarie sono i due fattori che provocano cambiamenti all’interno della società borghese.
– Reazione e democrazia formale non rappresentano le prerogative rispettivamente dell’imperialismo la prima e del capitalismo nascente la seconda. La storia dimostra che esse si intersecano, anche se con forme ed intensità diverse.
– La reazione dell’imperialismo è cosa diversa (e ciò vale anche in relazione ai periodi in cui si espresse nella forma di dittatura fascista nei paesi capitalisti del Centro Europa) dalle dittature delle giunte militari, o dal tipo di reazione che per natura alcune classi intermedie sono solite esprimere nell’epoca dell’imperialismo.
Riassumendo:
– Il MPC si fonda sull’accumulazione e quindi sull’estrazione del plusvalore, che deve essere tanto più elevato quanto più deve valorizzare un capitale crescente.
– Lo sviluppo della società e delle forze produttive viene informato da un lato dalla necessità che ha il capitale di trovare sempre nuove fonti di profitto, di innovarsi, di competere con altri; dall’altro dalla sua necessità di ridurre il tempo di lavoro necessario alla riproduzione del salario operaio, aumentando così il plusvalore estorto e quindi il profitto.
– Lo sviluppo delle forze produttive e la spinta alla riduzione del tempo di lavoro necessario (quindi l’estrazione del plusvalore relativo) fanno aumentare in proporzione maggiore il capitale costante su quello variabile impiegati nella produzione, per cui risulta un aumento del plusvalore prodotto da ogni singolo operaio e la riduzione della massa di plusvalore sociale, quindi la caduta tendenziale del saggio medio di profitto e le crisi di sovrapproduzione di capitale (pur crescendo la massa dei profitti).
– Lo sviluppo delle forze produttive non può arrestarsi, anche se “piegato” ai fini del mantenimento dei rapporti di produzione capitalistici; cresce quindi continuamente la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione.
– I periodi di accumulazione e quelli di crisi si sono sempre alternati ciclicamente nella società borghese; così come la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione ha sempre fatto convivere il carattere progressista con quello conservatore propri del capitale, in tutte le fasi del suo sviluppo.
– La riduzione della massa di plusvalore sociale atta a valorizzare l’intero capitale rende le crisi sempre più insidiose; la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione aumenta; il capitale entra in una fase di “sofferenza” profonda. Si accentua così la sua reazione; esso vorrebbe accrescere il suo dominio, ma dovrebbe anche ostacolare il suo proprio sviluppo, il quale genera crisi.
– Progresso e conservazione, democrazia e reazione, pur essendo tutte caratteristiche del capitalismo, entrano sempre più in contraddizione, facendo emergere con maggior evidenza la vera natura dell’imperialismo.
– Nell’andamento del capitale si alternano periodi di ripresa a periodi di crisi; alla basa di ciò è il fatto che la caduta del saggio medio di profitto è tendenziale, e cioè ostacolata da controtendenze. Prime fra queste troviamo le “cause antagonistiche”, che agendo sui meccanismi della valorizzazione informano tutte le altre controtendenze messe in opera dai capitalisti sul piano economico e politico.
– La natura e il funzionamento delle “cause antagonistiche” dimostrano tra l’altro che le controtendenze, prima di agire come tali, agiscono a favore dello sviluppo capitalistico.
– Con l’imperialismo il capitale, a causa della sua “bramosia“ di accumulazione e della crisi, si organizza in monopoli, aumenta d’importanza le sue componenti che operano come capitale finanziario, si concentra e centralizza come non mai, viene esportato ovunque, invade nuovi mercati determinando la spartizione del mondo.
– Viene così a formarsi una borghesia dominante che si muove spinta dalle leggi dell’accumulazione del capitale (all’interno di essa il grande capitale ha la parte del leone, naturalmente) e che a causa di queste stesse leggi e delle crisi conseguenti, è sempre più divisa ed impegnata in lotte di frazione, tese ad affermare, nel collettivo, l’interesse di una parte contro le altre.
– La legge dell’accumulazione capitalistica è quella dominante e che informa l’andamento di tutta la società borghese, generando e riproducendo in continuazione la contraddizione principale nel mondo, tra proletariato e borghesia.
– Quando le contraddizioni dell’accumulazione capitalistica avranno portato la crisi al massimo grado di tollerabilità, la borghesia non potrà che ricorrere all’estrema controtendenza, la guerra imperialista: quel mezzo che le permetterà di distruggere masse elevate di capitali eccedenti, rivitalizzando così l’accumulazione in un nuovo ciclo.
– Una guerra imperialista non può essere stabilita a tavolino, né il suo andamento può essere controllato oltre un certo grado. Ogni potenza imperialista cercherà, domani come ieri, di combattere la guerra al di fuori dei propri confini, giacché le enormi distruzioni che ne conseguono possono portare la nazione ove ha luogo ad un “arretramento”, ridimensionando il potere economico e politico della borghesia ivi dominante e aumentando la dipendenza dalle altre potenze.
– È ipotizzabile che la guerra abbia luogo prevalentemente nell’ambito dei paesi più deboli della catena imperialista (pur essendo una guerra mondiale), ove maggiori sono le contraddizioni e i conflitti sociali. La guerra imperialista potrà quindi trasformarsi in guerra rivoluzionaria.
– La tendenza alla guerra interimperialista è oggi vigente. La distruzione che provocherà sarà senza precedenti. La borghesia dominante dovrà essere, nella misura del possibile, preparata all’evento e in grado di governare lo stato di cose che si genererà. La reazione che attualmente la borghesia esprime non è paragonabile a quella che si manifesterà a ridosso e durante un conflitto.
– La guerra imperialista è funzionale all’accumulazione, e non viceversa, quindi non può e non potrà che essere limitata nel tempo; anche se più acute sono le contraddizioni, più lunga e distruttrice sarà la guerra.
– La reazione propria dell’attuale imperialismo, che può esprimersi in modo anche molto violento, è cosa ben diversa sia dalle dittature fasciste, che dalle democrazie che ricorrono apertamente e direttamente alla violenza statale. In uno dei paesi imperialisti l’instaurazione di siffatti regimi, contrasterebbe con gli interessi della borghesia dominante.
– Dal lato economico il capitalismo non può che essere favorevole sia al suo progresso che alla conservazione dello stato di cose presenti. Dal lato politico il capitalismo non può che essere democratico (e quindi favorevole alla libertà di sfruttare, invadere, farsi sfruttare, ecc.) e autoritario nella misura in cui deve ostacolare l’eccessiva concorrenza al suo interno e tutte le spinte che possano portare alla trasformazione dei suoi rapporti sociali di produzione.
– I mutamenti interni alla società borghese si verificano sempre per l’azione di due elementi, entrambi importanti e che si informano a vicenda: le leggi proprie del capitale e la lotta di classe (che non a caso Marx qualificava come il motore della storia). I comunisti e i rivoluzionari debbono costantemente tenerne conto.
Una doverosa precisazione sulla nostra firma.
Conformemente al nostro obiettivo, che è di contribuire alla formazione dei quadri comunisti che fonderanno il Partito, adottiamo una sigla che richiama il pilastro fondamentale per la costruzione di ogni comunista. Si tratta della data in calce alla Prefazione di Marx alla prima edizione del primo libro de “Il Capitale”, scritta nel 1867.
“25 LUGLIO”
Novembre 1990 (a cura di un gruppo di compagni detenuti nel carcere di Cuneo)
Note
- Oggi vediamo pienamente confermata questa tesi e possiamo dire che alcuni aspetti dell’imperialismo come l’oppressione delle borghesie forti sulle nazioni deboli, sono solo la forma che ricopre il nocciolo: lo sfruttamento operaio, l’estrazione di plusvalore, che sempre più si confermano la vera identità dell’imperialismo, fase ultima del capitalismo. L’assolutizzazione delle contraddizioni Nord/Sud oppure Est/Ovest è fumo negli occhi; la priorità assegnata agli aspetti appariscenti ed esteriori, sottovalutando quelle che sono le vere cause, conduce ad un vano tentativo di riformare l’imperialismo.
Nell’attuale grado di sviluppo solo i proletari, nella contrapposizione con la propria borghesia (ricca o stracciona) e unendosi ai proletari degli altri paesi e a chi si riconosca nel programma della rivoluzione proletaria, possono condurre la lotta all’imperialismo.
- Ciò ovviamente nulla toglie al fatto che la stessa funzione venga svolta anche dall’esportazione nei paesi di pari progresso, ove con altre modalità possono essere realizzati extraprofitti derivanti dal controllo monopolistico. (NdA)
- Sappiamo poi che la destinazione degli extraprofitti, oltre a quella di funzionare da controtendenza, consiste anche nel corrompere una elite del proletariato.
Questo aspetto è tuttavia legato alla grandezza e incisività della crisi, e lo stesso Lenin ce lo insegna; le famigerate “briciole” sono soggette all’andamento ciclico, e attualmente più che l’elevazione economica di aristocrazie operaie vige il peggioramento degli strati collocati immediatamente sopra il proletariato. (NdA)
- Questi ed altri paesi sono detentori di prodotti fondamentali come petrolio, minerali radioattivi, minerali preziosi, ecc.; prodotti che, costituendo parte del capitale costante – in quanto materie prime – e operando come capitale produttivo (oppure per altri motivi), ricoprono una funzione strategica nel mondo delle merci.
L’imperialismo occidentale che ha grossi interessi in queste aree (poiché il controllo delle fonti di quei prodotti può direttamente incidere sulla riduzione del prezzo degli elementi del capitale costante, operando così in modo controtendenziale alla legge di caduta) vorrebbe dirigere il monopolio di queste merci. Ma si vede costretto a fare i conti con la relativa autonomia in cui operano questi paesi da un punto di vista economico e politico, forti del monopolio che essi ne detengono e consapevoli della collocazione particolare che hanno nel mondo.