LA PACE IMPERIALISTA È GUERRA! Roma, processo d’appello Moro-ter – Documento allegato agli atti del Collettivo comunisti prigionieri Wotta Sitta

Crisi e guerra

«La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue più delle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.»(Marx-Engels)

  1. Gli ultimi anni hanno visto intensificarsi il dominio di classe della borghesia imperialista nel mondo intero sotto la spinta del capitale monopolistico, che cerca di superare la crisi mai risolta degli anni ’70 con l’accelerazione del processo di concentrazione, centralizzazione e internazionalizzazione dei capitali.
    Questo processo, che porta con sé una profonda mutazione delle forme del dominio di classe, genera, da una parte, contraddizioni crescenti ed esplosive tra capitali già di per sé multiproduttivi e multinazionali, tra Stati, tra aree economiche, mettendo a nudo i limiti intrinseci dell’epoca della globalizzazione e della interdipendenza economica; dall’altra, si risolve in un attacco diretto alle condizioni di vita di miliardi di proletari e di interi popoli in tutto il mondo, attraverso la politica spietata decisa e controllata dagli organismi sovranazionali del capitalismo, dal G-7 all’ONU, al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale fino alla NATO.
    La guerra nel Golfo è stata la dimostrazione più chiara e visibile di questo dominio di classe intensificato e della determinazione imperialista a non accettare alcuna messa in discussione dei suoi interessi e del suo assetto di potere internazionale. Gli anni ’90 si sono aperti con lo scenario più logico e concreto dell’imperialismo di questa epoca: la guerra e il rapporto di guerra che caratterizza lo scontro oggi e, di conseguenza, gli effetti tragici del dominio della barbarie sulla vita umana.
    La potenza dell’occidente non si è tradotta in un “nuovo ordine mondiale”, ma in un periodo di grandi sconvolgimenti, di conflitti e di instabilità crescenti. La fine dell’ordine stabilito a Yalta si rivela più traumatica e complessa del previsto. Se quello di Yalta è costato i morti della II Guerra Mondiale, quello che le potenze imperialiste, USA in testa, vanno cercando di imporre sembra che non chiederà costi minori. Sarebbe idealistico pensarlo, d’altra parte, e lasciamo ai riformisti e revisionisti le loro pericolose illusioni e fandonie, preferendo ricordarci delle lezioni della storia, che ha sempre dimostrato come, crollato un equilibrio di potere sia inevitabilmente necessaria una nuova guerra per costruirne un altro. Da Versailles a Yalta, a…
    L’imperialismo è guerra. La guerra è sempre stato il modo attraverso cui la borghesia ha cercato di risolvere le sue crisi scaricando in modo distruttivo sul proletariato i costi della sua riproduzione.
    C’è da aggiungere che oggi la guerra non può certo dirsi esaurita con la vittoria della coalizione occidentale nel Golfo, perché quest’ultimo decennio del secolo ha già visto lo scoppiare incessante di una moltitudine di guerre nelle varie aree geopolitiche del mondo. La guerra è tornata, di nuovo, anche in Europa con vasti e crescenti conflitti armati e guerre civili, che scuotono in particolare l’ex territorio yugoslavo e quello della ex Unione Sovietica.
    Questo scenario che scorre davanti a tutti noi con quotidiana tragicità assume una fisionomia precisa e in sviluppo proprio in quest’area che costituisce il vero centro nervoso dell’intero pianeta, perché attraversato dall’insieme delle contraddizioni di questa epoca. Da quella principale e oggi dominante tra proletariato e borghesia, a quella esplosiva tra Nord e Sud, a quella generata dai conflitti economici e politici interimperialistici già esistenti e che tendono a svilupparsi tra le potenze mondiali nella spartizione e dominio dell’intero pianeta.
    La borghesia imperialista europea sta accelerando i passi necessari ed irrinunciabili, pur nel loro realizzarsi contraddittorio, per far avanzare il processo di integrazione economica, politica e militare degli Stati europei e “farsi blocco”, cioè soggetto politico capace di stabilire politiche omogenee vincolanti al suo interno e di proiettarsi significativamente verso il resto del mondo.
    Il “1992” non vuole essere la semplice celebrazione formale della nascita della “Unione Europea”, ma il momento della realizzazione pratica dell’insieme dei passaggi fondamentali e di non ritorno per esserlo concretamente. In questa direzione l’“Unione Europea” è un avanzamento del dominio di classe nell’intero territorio continentale e della sua proiezione imperialista nelle altre aree del mondo a cominciare da quella contigua e inscindibilmente legata del Mediterraneo-Medio Oriente, come ha già dimostrato il suo coinvolgimento attivo nella guerra del Golfo.
    L’Europa partecipa e vuole partecipare da protagonista al “nuovo ordine mondiale”.
    Per restare all’Italia basti ricordare le azioni di guerra contro il popolo iracheno degli “eroi” Bellini e Cocciolone e dei loro altri compari dell’aviazione un anno fa, i ponti aerei per liberarsi dei profughi albanesi e per controllarli nel loro paese ormai sottoposto ad un nuovo protettorato italiano, e le missioni politiche e militari in crescendo in Yugoslavia, vero e proprio cortile di casa di De Michelis e soci, o nel lontano Salvador.
    Ovviamente le mire della “Grande Germania”, dell’Inghilterra, della Francia e della resuscitata Spagna non sono da meno e possono contare su di un ben più rilevante patrimonio di colonizzazione mondiale. Il “1992” vede gli Stati Europei tesi alla conquista e allo sfruttamento delle risorse e dei popoli del mondo come 500 anni fa.
    I proletari in Europa e nel mondo intero hanno percepito da tempo la nuova qualità dello scontro e la loro resistenza contro strategie capitalistiche sempre più indirizzate al profitto e sempre più distruttive non è mai cessata. Le lotte proletarie, i processi di emancipazione e di liberazione devono fare i conti con un avanzamento micidiale della controrivoluzione preventiva, che ha inciso pesantemente su molte esperienze rivoluzionarie, e che cerca di colpire anticipatamente il coagularsi di nuove. Tuttavia si possono già individuare molti aspetti del passaggio ad una nuova epoca rivoluzionaria segnata da uno scontro più profondo in cui le lotte proletarie nel mondo si trovano sempre più connesse e legate contro il nemico comune. La mobilitazione di massa e le iniziative delle forze rivoluzionarie nelle aree dei centri imperialisti e in quelle della periferia durante la guerra nel Golfo, ha indubbiamente contribuito a rafforzare il terreno dell’antimperialismo e dell’internazionalismo proletario. Nella stessa direzione si muovono le molteplici forme di resistenza proletaria e le diverse iniziative rivoluzionarie che cominciano a colpire e sabotare l’insieme dei processi che caratterizzano il “1992” e che sono visti dai proletari come un punto di svolta capitalistica sotto il segno della “deregulation” e della reazione.
    Una tendenza che vede l’intensificarsi dello sfruttamento proletario, l’ampliarsi della disoccupazione e della marginalizzazione, il peggiorare delle condizioni di vita, l’affermarsi di una esistenza sempre più alienata nei centri metropolitani e l’imporsi di politiche sempre più repressive, razziste e fasciste contro i popoli che premono alle frontiere della “fortezza Europa”.
    Cinquecento anni fa la “conquista dell’America” fu l’inizio di una nuova epoca e di una politica europea di oppressione nei confronti dei paesi e dei popoli che possedevano risorse e ricchezze che avrebbero consentito al capitalismo nascente, e alla classe emergente che lo sosteneva, di stabilire una colonizzazione e un dominio mondiale.
    Non solo. L’impoverimento progressivo di quei popoli – base del progresso della “sviluppata e civile Europa” – si accompagnò spesso al loro sterminio.
    Come scrive Marx su «Il Capitale»: «La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Occidentali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali della accumulazione originaria.»
    I dati della ricerca storica misurano la qualità di questi “procedimenti idillici“: nel 1500 la popolazione del globo era dell’ordine di 400 milioni di abitanti, 80 dei quali residenti in America. Cinquanta anni dopo, di questi 80 milioni ne restavano 10. Limitando il discorso al Messico, alla vigilia della “Conquista” la popolazione era di 25 milioni di abitanti, nel 1600 erano ridotti a un milione.
    Questo è il senso storico del processo che il capitalismo vuole celebrare con le infinite manifestazioni per il “Quinto Centenario della scoperta dell’America”. Se i paesi europei sono ancora una volta alla testa di queste iniziative non è per semplice spirito celebrativo quanto per rilanciare le ragioni attuali dell’accumulazione capitalistica a vantaggio dei grandi monopoli mondiali. Un neocolonialismo che vede protagonista la CEE nello sforzo di aggiudicarsi risorse e spazi crescenti nello sfruttamento del Tricontinente in competizione con i capitali statunitensi e giapponesi. La penetrazione dei capitali europei è la forma della “Conquista” di oggi: una nuova spartizione del mondo.
    Il filo delle lotte proletarie che si vanno intrecciando nelle diverse aree geografiche contro l’imperialismo statunitense, europeo e giapponese sta concretizzando un nuovo internazionalismo proletario che mette radicalmente in discussione e combatte i presupposti di fondo su cui è nata e si è sviluppata la formazione sociale capitalistica.
    Le strategie economiche e politiche che da anni guidano la ristrutturazione capitalistica stanno producendo contraddizioni di classe e sociali crescenti, che definiscono e misurano la guerra di classe di questa epoca. Un processo di proletarizzazione di dimensioni vastissime, in conseguenza del modificarsi della divisione del lavoro a livello planetario, caratterizza la seconda metà del secolo. L’avanzata del capitalismo ha gettato nella condizione di proletari la maggior parte della popolazione mondiale, a cui viene progressivamente impedita ogni possibilità di sussistenza non capitalistica. Nelle aree del centro come in quelle della periferia, nel Nord come nel Sud e nell’Est. Sempre più ogni essere umano si trova direttamente di fronte alla “nuda legge del profitto”, agli effetti disumani di un processo di oppressione e distruzione dell’uomo, della natura e dell’ambiente, di proporzioni mai viste, perché il capitalismo interviene ormai direttamente su di essi per le sue necessità di valorizzazione, riproduzione ed espansione.
    Questo complesso di fattori giunti a completa maturazione a questo stadio di sviluppo avanzato del capitalismo metropolitano, non fa che espandere ed ingigantire le tensioni ed i conflitti sociali proiettando sempre più donne e uomini in una immediata dimensione di lotta di classe. Contemporaneamente stabilisce un terreno di connessione oggettiva delle lotte dei proletari e dei popoli del mondo, quello contro il sistema economico, politico e militare che si è storicamente affermato e che ruota attorno agli USA e al nuovo dispiegamento che lo caratterizza negli ultimi anni.
    Lottare in Europa contro l’insieme di politiche che spingono in avanti la dinamica di integrazione europea e che ad un tempo estendono la sua proiezione imperialista nel mondo, significa avere la consapevolezza che in Europa Occidentale, oggi più di ieri, convergono molte delle linee di scontro tra imperialismo e rivoluzione, tra neocolonialismo e lotte di liberazione nel mondo. Significa anche essere concretamente a fianco della “campagna di resistenza indigena e popolare” che i campesinos, gli indigeni e le forze rivoluzionarie hanno lanciato contro la celebrazione del “Quinto Centenario” per fare sentire la loro voce di fronte alla «ignominia dell’oppressione coloniale, neocoloniale ed imperialista. Allo scopo di consolidare la nostra identità e di rafforzare la nostra lotta di liberazione in tutto il continente». (Dichiarazione di Quito, delle Organizzazioni Campesino-Indigene).

 

  1. Gli ultimi anni hanno visto approfondirsi la crisi del capitalismo e le contraddizioni che essa ha prodotto in ogni area del mondo, perché la crisi generatasi nei centri imperialisti occidentali si è riversata pesantemente nel Sud e nei paesi dell’Est, per il livello di interdipendenza dell’economia mondiale.
    La borghesia imperialista oggi deve fare i conti con una situazione generale di recessione economica e moltiplicare gli interventi per rimettere in moto un sistema produttivo bloccato, incapace di produrre profitti sufficienti a valorizzare l’intera massa di capitali e di garantire un respiro adeguato, tra una crisi e l’altra, per rilanciare l’economia. Il susseguirsi dei Vertici del G-7 ha consentito di tenere sotto controllo gli effetti più devastanti attraverso una gestione sovranazionale degli interventi più urgenti da adottare, scaricando i costi più pesanti della crisi sui paesi del Sud e dell’Est. Ma è evidente che non si è ancora realizzata una seria possibilità di superamento della crisi in cui l’intero sistema si dibatte dagli anni ’70.
    In questa situazione solo i grandi monopoli riescono a trovare i capitali e i mercati per svilupparsi da veri pescecani vincenti nella guerra della concorrenza. Con strategie planetarie cercano di contrastare la caduta dei saggi di profitto, intensificando il processo di concentrazione e di internazionalizzazione, tentando di aumentare la massa di plusvalore attraverso continui salti tecnologici ed una riorganizzazione planetaria della produzione. Ma ciò non basta a risolvere la crisi di sovrapproduzione di capitali che attraversa il sistema mondiale, questi sono interventi che tendono semplicemente a rinviare nel tempo le conseguenze più gravi, a concentrare ulteriormente i capitali a spese di quelli più deboli, che vengono assorbiti dai monopoli più forti, e a scaricare i costi più pesanti sui paesi delle aree dominate. E, in definitiva, non fa che creare le condizioni per un ulteriore calo del saggio di profitto, e rendere la crisi sempre più complessa e meno risolvibile, nonostante gli organismi sovranazionali che cercano di tenerla sotto controllo con interventi di politica finanziaria concertati.
    Con la crescita dei monopoli multinazionali si accelera la caduta delle barriere nazionali e si sviluppa l’unità e l’integrazione internazionale del capitale. Come dice Marx: «Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo in tutti i paesi… ha tolto all’industria le basi nazionali». Lo stadio monopolistico del capitalismo già analizzato da Lenin all’inizio del secolo, ha raggiunto oggi un livello incomparabile, comportando enormi modificazioni negli assetti di potere e nelle relazioni interne agli Stati e tra gli Stati nel segno della globalizzazione ed interdipendenza economica.
    Questo processo è tutt’altro che lineare: l’interdipendenza non fa che sviluppare un livello più alto di contraddizioni capitalistiche ed estendere la crisi su scala mondiale. Sviluppa, in definitiva, la tendenza alla guerra, che è insita oggettivamente nella stessa dialettica tra concorrenza e concentrazione dei capitali, come unica soluzione alla crisi.

 

  1. Alla fine degli anni ’70 diventa evidente che l’eccezionale movimento di ristrutturazione e di ridispiegamento con cui la borghesia imperialista mira a stabilire la sua egemonia mondiale non basta per superare la crisi.
    «Quando il modello di accumulazione capitalistica fordista e il rapporto imperialista di tipo neocolonialista crollano, diventa chiaro agli occidentali che non ci sarà nessun superamento durevole senza una messa in discussione fondamentale della divisione di Yalta e senza una riunificazione-riorganizzazione del mercato mondiale sotto il dominio dei monopoli. Rompere la contraddizione Est/Ovest, con la sua eliminazione a medio termine superare questo vecchio ordine considerato come limite per una nuova fase di monopolizzazione.» (Prigionieri di Action Directe, dicembre 1991).
    L’aggressività della politica di Reagan prima e di Bush poi, che hanno spinto ad un livello mai raggiunto la “guerra fredda” assediando letteralmente l’URSS e i paesi del Patto di Varsavia sul piano politico, economico e militare, nasceva da questa esigenza intrinseca del capitalismo occidentale ormai impossibilitato a trovare soluzioni alla crisi al suo interno.
    Va ribadito con chiarezza, d’altra parte, che l’attacco del capitalismo occidentale trovava spazio nelle profonde modificazioni che nel corso degli anni avevano cambiato il volto della formazione sociale sovietica e il ruolo dello “Stato socialista” con l’abbandono della lotta di classe e con la progressiva apertura al mercato mondiale.
    Le necessità poste dal processo di industrializzazione accelerata hanno richiesto una pianificazione economica centralizzata in funzione di una rapida accumulazione capitalistica e hanno fondato un modello di sviluppo delle forze produttive centrato sul capitalismo di Stato. Si è andata così formando progressivamente una burocrazia di Stato e di partito a cui era delegato l’insieme dei processi decisionali e il potere reale. Parallelamente si è formata una vasta classe operaia e fasce sempre più ampie della popolazione si sono proletarizzate entrando a far parte della struttura produttiva capitalistica. La continua mobilitazione interna contro l’aggressione imperialista, la massiccia sovrastruttura ideologica e la garanzia a questa classe proletaria di condizioni di vita “dignitose”, attraverso una serie di interventi di politica sociale, sono stati per anni elementi fondamentali dello sviluppo del capitalismo di Stato sovietico, che hanno potuto contenere, finché hanno retto, la dinamica in espansione del conflitto di classe.
    In questo contesto i burocrati sovietici, e dell’intero COMECON, preso atto dell’unità del mercato mondiale, e dell’impossibilità dell’autosufficienza dal capitalismo occidentale, fin dagli anni ’60 avevano aperto i loro paesi alle importazioni occidentali e avevano cercato sbocchi nel mercato mondiale, dimensionandosi necessariamente rispetto alla divisione internazionale del lavoro esistente. Avevano consentito, inoltre, a varie multinazionali occidentali, di impiantare comparti e segmenti di produzioni all’interno dell’Unione Sovietica e degli Stati del COMECON. In questo modo non avevano fatto che aggravare la crisi complessiva del sistema sovietico, finendo per importare al suo interno gli effetti devastanti della crisi capitalistica generatasi in occidente; ponendo così l’economia sovietica in una situazione di forte dipendenza che la indeboliva ancora di più nei confronti delle strategie dei monopoli occidentali e la spingeva verso un pesante indebitamento finanziario nei confronti del FMI e della Banca Mondiale.
    La competizione con il complesso militar-industriale occidentale, portata all’estremo con il progetto statunitense delle “guerre stellari”, ha indebolito e dissestato ulteriormente l’economia sovietica nel suo complesso.
    In questo quadro i processi di efficientizzazione e razionalizzazione produttiva, la riforma complessiva della formazione sociale sovietica per adeguarla pienamente alle leggi del mercato capitalistico, messi in atto con la Perestroika di Gorbaciov, non potevano certo frenare in tempi brevi la crisi dell’URSS. Hanno approfondito, invece, le contraddizioni all’interno dei diversi settori della borghesia di Stato e di partito e, contemporaneamente, con il taglio delle spese sociali, la mobilità della forza-lavoro, l’innalzamento della produttività, hanno messo a nudo profonde contraddizioni di classe facendo saltare per sempre il “patto classe-Stato” su cui si reggeva il sistema di potere sovietico.
    Per tutti gli anni ’80 abbiamo assistito, in URSS, al micidiale intrecciarsi degli effetti della crisi economica e sociale interna, di cui il polarizzarsi dello scontro di classe e il sorgere delle spinte centrifughe dei nazionalismi sono gli aspetti più evidenti, con quelli prodotti dalla competizione/aggressione economica degli USA e dell’intero Occidente scatenata per favorire la disgregazione dell’area economica dell’Est e per costruire rapidamente le condizioni per la sua completa integrazione nel mercato mondiale e per la penetrazione incontrollata dei capitali occidentali.
    Oggi il crollo dell’area COMECON e la disgregazione dell’URSS sanciscono la fine del “bipolarismo” stabilito a Yalta come sistema di equilibrio planetario post-Seconda Guerra Mondiale e aprono un periodo caratterizzato da una profonda instabilità a livello mondiale.
    All’interno del territorio della ex URSS vanno intensificandosi le dinamiche contraddittorie.
    In primo luogo, il processo di riconversione verso una economia di “libero mercato” e di privatizzazione capitalistica delle strutture monopolistiche di Stato esistenti accelera la tendenza all’integrazione nel sistema economico occidentale e nelle sue istituzioni-cardine (dal FMI/BM al GATT e, seppure non a breve termine, alla NATO e al G-7). Ciò sta portando alla completa sparizione del sistema sociale sovietico per consentire i margini di accumulazione necessari allo sviluppo delle imprese private e di monopoli economici in grado di predisporsi alla competizione sull’intero mercato mondiale. La politica che lo zar Eltsin persegue concretamente per rafforzare la “Grande Russia” è l’aspetto più esemplare della tendenza antiproletaria in atto.
    L’estendersi della penetrazione delle multinazionali occidentali, alla ricerca di condizioni di valorizzazione più vantaggiose e per stabilire posizioni privilegiate di sfruttamento e controllo degli enormi mercati dell’ex-URSS, velocizza ulteriormente la trasformazione radicale dei rapporti di produzione favorendo lo sviluppo del processo di concentrazione e internazionalizzazione dei capitali e, ad un tempo, la concorrenza interimperialista. Già ora, ad esempio, l’amministrazione USA, di fronte alle maggiori possibilità di penetrazione all’Est aperto ai monopoli CEE e giapponesi, non esita ad ostacolare ogni intesa che possa, anche indirettamente, favorire l’affermarsi di una “area economica di libero scambio dall’Atlantico agli Urali” (per non parlare dell’avanzata giapponese verso l’area asiatica dell’ex URSS…).
    L’insieme di questi mutamenti della formazione sociale sovietica si traduce in un approfondimento delle contraddizioni di segno capitalistico e in una intensificazione della lotta di classe in Russia e in ciascuna delle repubbliche della neonata Confederazione di Stati Indipendenti (CSI). Il drammatico peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari fino al loro puro e semplice affamamento, il manifestarsi e il moltiplicarsi delle proteste e delle lotte proletarie in tutta la CSI, si accompagnano ad una pesante ridefinizione autoritaria degli Stati, degli assetti di potere nella Russia e nelle altre repubbliche, per consentire la ristrutturazione produttiva e controllare/contenere le esplosioni sociali che ne derivano.
    Questo insieme di profonde trasformazioni aprono all’interno della CSI un nuovo significativo scontro di classe, di enormi proporzioni, in una situazione già sconvolta dall’espandersi dei conflitti etnici e dall’affermarsi crescente dei nazionalismi.
    Questo ingresso di milioni di uomini e donne nella lotta di classe e il radicarsi della contraddizione tra proletariato e borghesia nell’intero territorio dell’ex URSS, dimostra quanto il progetto imperialista di “nuovo ordine mondiale”, che dovrebbe sorgere dalle ceneri del “bipolarismo”, sia utopico e di improbabile realizzazione.
    Il crollo del “blocco dell’Est” non significa affatto la “fine del comunismo”. Tutt’altro. L’entrata di centinaia di milioni di proletari sull’aperto terreno dello scontro di classe riafferma ancor più l’esigenza della rivoluzione comunista e di un rilancio dell’internazionalismo proletario.

 

  1. Con gli anni ’90 si apre un periodo di riorganizzazione mondiale e di ridefinizione della divisione internazionale del lavoro di difficile valutazione al momento, e di nuove contraddizioni e competizioni capitalistiche nel quadro di un equilibrio di forze mutato a favore dei paesi occidentali.
    Questa fase è attraversata da tempo da una contraddizione storica causata dall’agire di due fattori contrastanti. La perdita di egemonia USA, che aggrava la crisi capitalistica in quanto con essa viene meno il centro di un sistema di rapporti imperialisti sempre più complessi e, nello stesso tempo, la politica militare sempre più aggressiva degli Stati Uniti, che cercano di porre un freno al loro declino imponendo ovunque la pax americana.
    Tutto questo non fa che accrescere l’instabilità del sistema mondiale e moltiplicare i conflitti e le spinte centrifughe: accelerare oggettivamente la tendenza alla guerra.
    Oggi gli USA stanno spingendo al massimo livello il loro ruolo di gendarme mondiale, sia per far fronte ad ogni possibile sviluppo progressista e/o rivoluzionario nel Sud del mondo, sia per cercare di assestare la loro leadership in rapporto alle altre potenze interne al sistema imperialista.
    Dagli anni ’70, infatti, la perdita di egemonia USA è una spina nel fianco delle amministrazioni statunitensi, che dai tempi di Carter e Reagan si sforzano di riconquistare una centralità all’economia e al sistema di potere USA, contro l’emergere delle nuove potenze Giappone e CEE. La guerra USA è una scelta generale e strategica delle amministrazioni statunitensi perché essi sono ormai costretti a muoversi sul terreno della guerra per riaffermare una centralità e riconquistare un’egemonia perduta da anni.
    «Per gli USA questa guerra (quella del Golfo) è l’occasione opportuna per legare la questione del ruolo di leadership all’interno del blocco occidentale ancora di più alla forza militare. Nello stesso tempo con questa guerra vogliono naturalmente risanare la loro economia sfasciata. Attualmente nel Golfo ha luogo anche la lotta di concorrenza degli Stati-cuore imperialisti, cioè del centro, l’uno contro l’altro, per il potere futuro e l’influenza nella regione medio-orientale e l’egemonia all’interno del campo imperialista.» (RAF, Commando Ciro Rizzato, 15/2/1991).
    Fin dalla guerra nel Golfo, gli scopi statunitensi sono stati espliciti. Vinta la guerra le dichiarazioni per riaffermare l’egemonia USA sono diventare continue ed aggressive.
    Da quelle dei generali del Pentagono: «L’importante è capire che noi non smobilitiamo come dopo la Seconda Guerra Mondiale o dopo la Corea. Il mondo è ancora un posto veramente pericoloso… L’ultima lezione che dobbiamo trarre da questa operazione è che è importante rimanere impegnati in tutto il mondo. Non è il momento di tornare a casa. Dobbiamo rimanere in Europa, nel Sud-Est asiatico, in Medioriente così come nel Pacifico.» (Colin Powell, intervista del 18/4/1991).
    A quelle di Bush di fronte alla grave recessione interna in USA nel post-guerra: «Noi siamo l’indiscusso e rispettato leader del mondo… La guerra fredda è finita e noi dobbiamo rimanere impegnati oltre oceano per guidare la ristrutturazione economica, costruire liberi mercati. Noi vinceremo la guerra della competizione economica». (Discorso alla Nazione, febbraio ’92).
    Ma questa guerra alla recessione interna, per gli USA, sembra già persa in partenza, di fronte all’avanzare della crisi e ai disastri economici interni prodotti negli anni ’80 dalle politiche reaganiane degli armamenti e oggi dall’intervento nel Golfo. I dati della crisi USA restano confermati nel tempo e tendono ad aggravare tre aspetti principali.
    Gli USA sono il paese con il più elevato debito estero ed esso continua ad aumentare. Sono il paese più colpito dalla recessione economica: le industrie statunitensi di alta tecnologia sono sempre meno competitive rispetto a quelle giapponesi ed europee, e controllano sempre di meno le loro quote di mercato. Nel complesso si allarga il fossato tra USA-Giappone-RFT sul piano della crescita industriale (il tasso di crescita dell’anno 1989/’90 è rispettivamente: -0,5%, +6,8%, +5,6%!). Infine i livelli di disoccupazione e povertà all’interno dell’impero sono in continuo aumento e tali da fare ricordare gli scenari della depressione degli anni ’30.
    L’insicurezza del posto di lavoro e di un reddito garantito ha colpito fasce crescenti della popolazione statunitense, diffondendo un panico generalizzato in stridente contrasto con il ruolo di superpotenza mondiale, ma comprensibile di fronte alla bancarotta di imprese-simbolo per l’“american way of life”, come PANAM, TWA, MACI’S, e alla crisi di giganti planetari come IBM, General Motors, Ford… Per non parlare dei timori incontrollabili generati dai ricorrenti rischi di crolli finanziari a Wall Street! Gli afro-americani, i portoricani, gli ispanici, i nativi americani e settori sempre più vasti di classe operaia, sono le fasce di popolazione più direttamente colpite tanto dalla recessione prolungata quanto dalle misure economiche adottate dall’amministrazione Bush.
    L’acuirsi della lotta di classe segna sempre di più il conflitto sociale anche nel cuore dell’impero.

 

  1. Il rapporto Nord-Sud oggi è un rapporto di guerra su tutti i fronti perché le necessità di sfruttamento delle risorse e di controllo del mercato a favore delle strategie di espansione planetaria dei monopoli mondiali impongono di stroncare ogni forma di potere autonomo nelle aree del Sud.
    L’imperialismo occidentale non solo cerca di impedire che si affermino le lotte di liberazione e di autodeterminazione dei popoli e contribuisce attivamente, con le sue strategie sovranazionali (direttive del FMI in testa), le sue operazioni speciali, alle politiche di repressione del proletariato in ogni angolo del Tricontinente, ma non consente più ad alcuna borghesia nazionale di raggiungere quella soglia di potere economico-politico-militare che possa porla nelle condizioni di svolgere un ruolo guida nell’area geopolitica in cui è inserita e di manifestare una qualche autonomia dall’impero e dalle sue esigenze.
    Se il modello imperialista della “guerra a bassa intensità” aveva già portato alle occupazioni militari di Grenada, Panama, all’assedio decennale del Nicaragua sandinista fino al suo crollo, all’intervento in Salvador contro la guerriglia e alla “guerra alla droga” come modello operativo contro le lotte di liberazione in Perù, Colombia e in tutta l’America Latina, la guerra contro l’Iraq degli USA e della coalizione occidentale sotto l’ombrello ONU, chiarisce il nuovo significato del diritto internazionale e del “nuovo ordine mondiale” che si vuole costruire.
    La sconfitta dell’Iraq deve costituire un monito e una lezione per tutti i paesi del Tricontinente e per le borghesie nazionali arrivate al potere nei diversi paesi con la dissoluzione degli imperi coloniali.
    Di fronte ai processi di ricompradorizzazione, di pacificazione forzata e di guerra messi in atto dall’imperialismo in ogni area del mondo deve diventare chiaro ad ogni borghesia nazionale che nessuna opposizione verrà più tollerata. Le borghesie nazionali non solo non riescono più a mantenere un ruolo progressista verso il cambiamento, ma devono trasformarsi direttamente in cinghie di trasmissione degli interessi imperialistici nei paesi del Tricontinente.
    Questa nuova realtà dello scontro pone milioni di proletari del Sud direttamente a contatto con la dimensione internazionale del loro nemico – nulla è più chiaro dell’esempio fornito dalla guerra nel Golfo – e crea le condizioni oggettive di un antagonismo sempre più forte contro l’imperialismo e il suo sistema di sfruttamento, affamamento e distruzione del Sud.
    Nell’area mediorientale, in particolare, l’aggressione imperialista ha come scopo quello di frantumare anche la sola idea della Nazione Araba, costruendo divisioni e schieramenti contrapposti all’interno delle borghesie arabe fino al consolidamento di un fronte di alleanze con l’imperialismo statunitense ed europeo.
    Nello stesso tempo USA e CEE hanno riaffermato il ruolo strategico, in funzione occidentale, dell’entità sionista nell’intera area con continui aumenti degli aiuti economici e militari e con l’aperto sostegno politico a livello internazionale. Parallelamente hanno affidato alla Turchia un ruolo-cardine nella regione, dotandola di strumenti e basi militari che la rendono un vero avamposto della NATO anche negli interventi contro i popoli del Medio Oriente.
    Con questo significativo salto di qualità l’imperialismo cerca di stabilizzare l’area mediorientale liquidando il ruolo della rivoluzione palestinese, controllando l’espandersi della lotta di liberazione del popolo curdo e facendo arretrare l’intero fronte della lotta del popolo arabo.
    Ma si trova sempre più di fronte al carattere esplosivo delle contraddizioni aperte dalle questioni palestinese e curda, diventate ormai i principali catalizzatori delle aspirazioni antimperialiste nella regione, e dell’estendersi delle lotte proletarie in molti paesi arabi.
    La strategia di guerra contro il Sud è guidata dagli USA, ma vede necessariamente un ruolo attivo della CEE e del Giappone, che non possono non partecipare alla creazione del “nuovo ordine mondiale” per le loro esigenze strategiche. Pur nelle divergenze di interessi, essi sono uniti agli USA nella guerra imperialista contro il Sud del mondo. Ieri contro l’Irak, oggi contro la Libia…
    Questo scenario definisce nettamente il ruolo dell’“Unione Europea” e della stessa Italia, e ha già portato a nuove e concrete decisioni e ridislocazioni dei centri di comando e delle forze NATO, in quanto è la strategia dell’alleanza ad essere cambiata, diventando planetaria, dotandosi di una forza di rapido intervento capace di essere protagonista a fianco degli USA nelle “operazioni di polizia internazionale” in particolare contro il Sud. Intorno agli USA i gendarmi del mondo si sono moltiplicati e vanno attrezzandosi per il futuro come dimostra il dibattito in corso in Europa e in Giappone per dotarsi di una politica e di una forza militare autonoma.
    La nuova epoca aperta dalla fine del “bipolarismo” e segnata dal persistere della crisi di egemonia USA, vede una profonda ridefinizione degli assetti di potere e delle strategie imperialiste mondiali, come dimostrano le decisioni che i vertici del G-7 sono costretti ad adottare per adeguarsi ai cambiamenti in atto. Con il vertice di Londra (luglio ’91) «il G-7 si è evoluto in una specie di direttorio politico globale di Europa, USA, Canada, Giappone… Il mondo si sta muovendo verso un nuovo tipo di superpotenza; una coalizione la quale riconosce che nessuno, inclusi gli USA, è in grado di risolvere i problemi contando esclusivamente sul proprio peso. Ma non lo possono fare neppure le Nazioni Unite senza una potente e determinata leadership.» (International Herald Tribune, 25/7/’91). Questo direttorio mondiale sta agendo di fatto da tempo ed ha trasformato l’ONU in un suo braccio politico e il “diritto internazionale” in uno strumento di legittimazione di ogni intervento. Lo si è visto con le risoluzioni ONU adottate prima, durante e dopo la guerra del Golfo e con quelle che sono state decise recentemente contro la Libia. Si è affermata così – come dice De Michelis – «la grande idea-forza, il vero concetto nuovo di questo scorcio di secolo… sospendere la sovranità (di uno Stato) se essa è esercitata in modo criminale».
    In questo modo la vocazione principale dell’ONU diventa il diritto di ingerenza negli affari interni di singoli Stati e di intervento “a fini umanitari”, fino all’idea di predisporre una “forza militare internazionale” sempre pronta, come è emerso nel Consiglio di Sicurezza del febbraio ’92, che ha visto la prima significativa presenza della Russia, aspirante nuova potenza al posto della scomparsa URSS. Su queste basi e con questi strumenti l’imperialismo ha costruito le premesse per intensificare ed estendere la guerra al Sud.
    Nell’epoca dell’interdipendenza planetaria il diritto imperialista di ingerenza ed intervento è generalizzato: «L’idea statunitense del nuovo ordine mondiale è che ogni situazione in ogni parte del mondo porterà a tensioni in altri paesi della stessa regione e da qui comporterà disordine nel mondo. Così gli USA hanno avanzato certi principi per ristabilire l’ordine nel mondo.» (Forward, luglio 1991).

 

  1. La spinta alla mondializzazione dell’economia come risposta alla crisi capitalistica ha portato ad un mondo caratterizzato da processi di globalizzazione ed interdipendenza economica, che attraversano ormai ogni area del centro e della periferia generando violentissime contraddizioni a livello planetario. Dentro questo orizzonte si sviluppa la tendenza alla concentrazione e internazionalizzazione dei capitali portando all’estremo la concorrenza tra monopoli multinazionali e multiproduttivi e la polarizzazione tra ricchezza e miseria, tra borghesia e proletariato. Un processo che non fa che alimentare le contraddizioni e moltiplicare gli scontri interimperialistici nel mondo intero.
    Oggi assistiamo ad una tappa intermedia – molto più avanzata di quella analizzata da Lenin – di questa spinta alla mondializzazione: la regionalizzazione, cioè l’aggregazione economica in aree continentali per creare le condizioni attraverso cui i capitali più forti si uniscono, costruendo monopoli regionali continentali, per raggiungere le dimensioni necessarie a vincere la concorrenza e a valorizzarsi. Questo è il punto di equilibrio attualmente raggiunto dal capitalismo per sopravvivere alla crisi, ma è anche un processo che in prospettiva aggraverà e moltiplicherà i conflitti e gli scontri tra i diversi blocchi regionali, alimentando ancora di più la tendenza alla guerra, di fronte alla crisi dell’intero sistema e alla competizione spietata tra monopoli economici regionali con urgenza di profitto e di mercato sempre più grandi.
    Ciò significa, semplicemente, che la dinamica unitaria che spinge ed accelera i processi di aggregazione economica continentale e regionale approfondisce, contemporaneamente, la dinamica contraddittoria all’interno del sistema capitalistico, per la proiezione planetaria dei monopoli, degli Stati e dei blocchi regionali. Già oggi la battaglia da tempo in atto a livello del GATT (Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e Commerciali) mette a nudo le reciproche politiche protezionistiche a livello di area e, quindi, la vera e propria guerra economica che si va addensando. Come altrettanto evidente è l’aggressività dei monopoli più forti, e degli Stati che li sostengono, al di là delle loro aree di riferimento e mercato. Queste sono soprattutto delle piattaforme/fortezze dentro cui rafforzarsi per proiettarsi con più successo verso l’esterno.
    La tendenza a superare la crisi con la costituzione di “blocchi regionali”, in realtà, ripropone ad un livello diverso e più alto la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Se da una parte la regionalizzazione porta con sé il superamento delle forme di dominio e di rapporti produttivi ad ambito nazionale, dall’altra crea un’altra gabbia per le forze produttive, destinata a trasformarsi in una nuova catena per il loro sviluppo. Di fatto è l’impronta “cosmopolita”, mondiale, data alla produzione dalla borghesia fin dal sorgere del capitalismo, che non accetta barriere di alcun genere alla sua espansione. L’ambito regionale, in prospettiva, si rivela altrettanto asfittico e limitante di quello nazionale, per le stesse politiche protezionistiche e di difesa adottate a livello di area!! Alla fine, irrimediabilmente, «questi rapporti (di produzione) da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene.» (Marx).
    Assieme al consolidarsi e potenziarsi nel corso degli anni del polo economico-politico-militare europeo, con la sua proiezione naturale nell’area mediorientale-mediterranea-africana, ha preso vita la formazione di un’area di libero scambio nel Nord-America, dall’Alaska al Messico, attorno agli USA, con proiezione nell’area Caraibica e Latino-americana, come anche un terzo processo nel Sud-Est Asiatico intorno al Giappone, con proiezione nell’intera area dell’Oceano Pacifico.
    Questo potente processo di concentrazione in poli economici regionali investe l’intero centro imperialista e assesta la tendenza in atto alla definizione di un’area del dollaro intorno agli USA, di una dello yen attorno al Giappone e di una terza dell’ECU intorno all’“Unione Europea”. Essi si presentano come i principali processi di stabilizzazione del nuovo ordine economico e della nuova divisione internazionale del lavoro.
    Anche nelle aree del Tricontinente hanno cominciato a prendere forma diversi processi di aggregazione in blocchi economici regionali. Da quello nell’area mediterranea dell’“Unione del Maghreb Arabo” (HUMA), a quello nell’America Latina del MERCOSUR, a quello nell’area del Sud-Est Asiatico attorno all’Indonesia.
    Questa tendenza alla regionalizzazione si rivela dominante a questo stadio dello sviluppo capitalistico.

 

Il polo imperialista europeo

«La borghesia sopprime sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica, province indipendenti, quasi appena collegate tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale».
(Marx-Engels)

Gli anni ’90 si aprono in un clima di grande instabilità, determinata dalla fine del “bipolarismo”, dall’approfondirsi della crisi di egemonia USA e dalla recessione economica che ormai investe l’intero mondo capitalistico.

In questo contesto, il processo di integrazione economica che ha portato in questi anni alla costituzione del “Mercato Unico Europeo”, subisce una ulteriore accelerazione verso l’unione economica e politica.

Come la costruzione del “Mercato Unico” ha dato forte impulso alla integrazione europea, determinando il trasferimento/centralizzazione di molti poteri dagli Stati-nazione verso strutture e organismi sovranazionali, la nuova tappa, l’“Unione Economica e Politica Europea”, intensifica il processo di ridispiegamento del sistema di potere borghese sia all’interno dell’Europa che sullo scenario mondiale.

Negli organismi CEE che in tutti questi anni hanno assolto il compito di coordinare le diverse politiche economiche dei singoli Stati, si sono venuti a sviluppare nuovi assetti politici istituzionali, che a loro volta hanno determinato profonde modificazioni su questo piano in tutti i 12 paesi della CEE.

A dare corpo a questo processo sono i passaggi concreti – che caratterizzano il formarsi del polo imperialista europeo – per dotarsi di una politica industriale e commerciale comune, di una unione economica e monetaria, di una politica interna e di “sicurezza sociale”, di una politica estera e difesa comuni.

La realizzazione di questi passaggi e di questi obiettivi segna l’attuale fase del processo di integrazione comunitaria dei 12 Stati europei, e della loro proiezione imperialista in ogni area del mondo.

 

  1. La crisi capitalistica è sempre anche crisi delle forme economiche, politiche e militari di dominio. Quanto più si sviluppa il processo di integrazione/omogeneizzazione della formazione economico-sociale europea, tanto più la funzione degli Stati nazionali subisce profonde modificazioni. La crisi-sviluppo del modo di produzione capitalistico ha rotto la separazione tra le diverse formazioni sociali nazionali europee. Ha dato luogo a fenomeni economici, politici e sociali che non possono più essere regolamentati, diretti e governati in ambito nazionale.
    Alla fine degli anni ’70, questo problema si impone in modo improrogabile e dirompente.
    Sull’asse franco-tedesco si accelera la fase dell’integrazione europea. Si costituisce il “Sistema Monetario Europeo”, e si avvia concretamente la fase del “Mercato Unico” che, passando per l’“Atto Unico” dell’84, si concluderà entro la fine del 1992.
    Queste scelte danno respiro strategico alle politiche industriali e finanziarie dei grandi trust oligopolistici multinazionali, facendo convergere intorno ad essi, ai loro processi di ristrutturazione e di rilancio del profitto, tutte le risorse e le politiche economiche e sociali degli Stati europei. Ciò determina profonde trasformazioni nel rapporto capitale-lavoro, nella pubblica amministrazione, nella spesa pubblica, nel sistema legislativo, ecc., in tutti i paesi CEE, tese a garantire il massimo profitto e ad imporre una nuova qualità del dominio di classe.
    La costituzione del “Mercato Unico”, è anche la risposta della borghesia imperialista europea alla svolta “neoliberista” che, a partire dalla politica dell’amministrazione USA negli anni ’80 ha teso ad affermarsi in tutto il sistema capitalistico mondiale, per far fronte all’aggravarsi della crisi economica.
    Per i grandi trust monopolistici multinazionali diviene di vitale importanza poter agire incontrastati e senza vincoli sull’intero mercato capitalistico mondiale, così da potersi comunque garantire un tasso di crescita, seppure su basi sempre più ristrette.
    L’insieme di questo movimento porterà al definitivo crollo del welfare-state. La “deregulation” economica e sociale si estende a tutti i paesi, i quali fanno della riduzione dei salari, dell’aumento della produttività, e della riduzione della spesa pubblica, un fattore determinante per la competitività internazionale.
    In nome del “libero mercato” e della “difesa della concorrenza” cadono le barriere tariffarie e i confini doganali, viene fortemente ridimensionato il ruolo e l’intervento dell’industria pubblica a vantaggio dei trust multinazionali privati che penetrano e divorano tutti i settori privatizzati.
    La legislazione sulla concorrenza comunitaria accelera i processi si concentrazione capitalistica a livello continentale, annullando progressivamente qualsiasi struttura o norma che non siano funzionali alla libera circolazione delle merci, dei capitali, e ad ottenere il massimo profitto.
    La Commissione e la Corte di Giustizia CEE, in tutti questi anni, hanno sviluppato una vera e propria strategia per lo smantellamento dei monopoli pubblici, dei settori protetti e della legislazione del lavoro in tutti i paesi europei… Attualmente è in atto una deregulation progressiva che ha aperto una breccia nei monopoli energetici pubblici nazionali; nel campo degli apparecchi terminali, delle telecomunicazioni e dei servizi postali, a favore degli oligopoli multinazionali privati.
    Su questo terreno in Italia si sta da tempo giocando un aspro scontro tra partiti di regime, apparati dello Stato e altre forze borghesi. Privatizzare le “Partecipazioni Statali” significa infatti incidere pesantemente su uno dei pilastri che hanno sorretto il potere dei partiti di governo – Democrazia Cristiana in testa – dai primi anni ’50 in poi.
    Ma la recessione, le pressioni dei monopoli privati, il disastro del bilancio pubblico e le direttive della CEE, hanno portato di fatto il governo a prendere una decisione irreversibile, collocandosi nella stessa direzione degli altri paesi europei.
    La recente approvazione della legge sulle privatizzazioni avvia la trasformazione in “Società per Azioni”, da collocare sul mercato, della maggior parte delle aziende di Stato. Per citare le più importanti, l’IRI, l’ENI, l’EFIM, l’ENEL, le Ferrovie, le Poste e Telecomunicazioni…
    Un processo che comporta una gigantesca ristrutturazione e “razionalizzazione” produttiva con il consueto corollario di tagli, chiusure di stabilimenti e migliaia di licenziamenti.
    La liquidazione del siderurgico pubblico negli anni scorsi è stata una esemplare anticipazione di questa dinamica; di come la ristrutturazione di questo settore in tutta Europa sia stata diretta in modo centralizzato dagli organismi della CEE.

 

  1. La costituzione del “Mercato Unico Europeo” (come d’altra parte quella di altri mercati regionali di libero scambio: quella tra USA-Canada-Messico e quello tra Giappone e paesi industrializzati del Sud-Est Asiatico…) riflette la necessità di una maggiore concentrazione dei capitali e di agire su aree economicamente integrate e di grande ampiezza. Una dinamica tutt’altro che lineare perché la concorrenza e concentrazione di capitali sono poli inseparabili della stessa contraddizione.
    Al di là del tanto sbandierato “libero mercato mondiale”, stiamo assistendo alla formazione di aree continentali sempre più integrate al loro interno e sempre più protette e aggressive verso l’esterno. All’accrescersi dell’interdipendenza economico-commerciale tra le maggiori potenze mondiali, come USA, Europa, Giappone, corrispondono nuove forme di protezionismo, che sfociano puntualmente in vere e proprie guerre commerciali che investono tutti i settori produttivi.
    L’esigenza di fondo che muove il processo di costruzione dell’Unione Europea, e che allo stesso tempo ne costituisce la specificità, risiede nel fatto che l’Europa non è una nazione unica come gli USA, e, oltre a ciò, non c’è in Europa un paese che abbia la forza sufficiente per imporsi da solo, in quanto potenza egemone, come nel caso del Giappone nei confronti dell’area del Sud-Est Asiatico.
    È senza dubbio vero che la rinata “Grande Germania” occupa in questo processo un posto fondamentale come maggiore potenza economica europea, cosa che le fa assumere un ruolo crescente sul piano della politica industriale e monetaria e della politica extra-comunitaria. Ma è altrettanto vero che essa non può fare a meno di legarsi saldamente alla formazione del polo economico-politico europeo, che solo nel suo insieme può garantire la forza e il peso per collocarsi adeguatamente nella nuova configurazione del sistema imperialista che si sta delineando.
    Per questo, qualsiasi visione di ritorno ad una “Europa delle Patrie”, per quanto presente nelle tendenze inevitabilmente innescate da questo grande processo, siano esse “Quarto Reich” o altre, è in realtà in contraddizione con le oggettive dinamiche imposte dalla crisi capitalistica.
    Il soggetto che si sta consolidando in questo contesto è, nei fatti, una vera e propria borghesia multinazionale europea, a cui sono subordinati tutti gli interessi particolari.
    Per la borghesia imperialista europea, la costruzione del “Mercato Unico” non si può limitare ad una “zona di libero scambio”, di circolazione di merci e capitali. Nei fatti l’Europa è già terreno di battaglia per i maggior oligopoli multinazionali di USA e Giappone. Di qui la spinta della borghesia imperialista europea affinché all’integrazione economica corrisponda quella politica, ed ogni ritardo su questo terreno rischia di far saltare l’intero processo e di frenarne la proiezione mondiale come polo imperialista.

 

  1. L’approfondirsi della crisi-recessione, che a diversi livelli investe l’intero mondo capitalistico, è il fattore fondamentale che sta cambiando gli equilibri di potere esistenti fin dal dopoguerra tra le maggiori potenze mondiali. Essa ha determinato il crollo del blocco COMECON, ha approfondito la crisi di egemonia degli USA, ha ridefinito i rapporti di potere tra l’imperialismo occidentale e le aree del Tricontinente e nell’intero assetto del dominio di classe della borghesia verso il proletariato.
    Tutto questo ha, a sua volta, contribuito a spingere l’integrazione europea verso l’unione economica e politica.
    Il vertice intergovernativo di fine ’91 a Maastricht, che ha portato alla firma del nuovo trattato sull’“Unione Europea”, ha aperto la “terza fase” (dopo il Trattato di Roma e l’Atto unico) dell’integrazione economica e politica dei paesi CEE e ne ha accentuato la proiezione esterna ponendo questo processo come polo di attrazione dell’Europa intera, compreso l’ex blocco orientale.
    Alla progressiva omogeneizzazione della formazione economico-sociale europea, corrisponde un processo di centralizzazione dei poteri a livello sovranazionale che si impone oggi come movimento dominante rispetto alla struttura di potere dell’ambito nazionale. Una riarticolazione sempre più complessa del dominio borghese che svela, allo stesso tempo, in maniera chiara, una svolta autoritaria nei sistemi politici dei paesi europei, e che fa emergere più che in passato la reale natura di classe dello Stato e della democrazia borghese, in quanto strutture di oppressione verso il proletariato.
    La crisi economica porta inevitabilmente allo smantellamento dello “Stato sociale”, al ridimensionamento di tutte le conquiste della classe operaia e del proletariato e dunque alla riduzione drastica di ogni spazio di autorganizzazione e di rappresentanza autonoma di classe in tutta Europa. Sta qui, per inciso, la base principale del crollo di ogni ipotesi e apparato riformista.
    Grandi campagne di guerra psicologica borghese da anni ammorbano l’area occidentale, sulla “fine del comunismo”, sulla “nuova era di pace”, sul “nuovo ordine mondiale”. In realtà le dinamiche della crisi stanno rapidamente spazzando via tutta questa cortina fumogena, mettendo allo scoperto la natura distruttiva del capitalismo e dei suoi rapporti sociali, e allo stesso tempo, l’impossibilità di un suo sviluppo equilibrato e pacifico.
    Le lacerazioni aperte dalla crisi capitalistica nell’assetto di potere della borghesia imperialista sono terreno di contraddizione e dunque di lotta, di resistenza proletaria, di sviluppo dell’autonomia di classe, di costruzione della coscienza e dell’agire rivoluzionario a livello internazionale.
    Ed è proprio attorno alla necessità di far fronte a questa nuova qualità dello scontro che la borghesia imperialista europea si è mossa per tutti gli anni ’80 verso una ridefinizione della sua struttura di potere a livello continentale.
    Così il processo di formazione del polo imperialista europeo, con al centro i grandi oligopoli multinazionali, si è sviluppato in un duplice movimento: sul piano interno, verso una maggiore integrazione/centralizzazione degli apparati di potere e del dominio di classe, finalizzati all’esigenza di governare i conflitti sociali nella formazione sociale europea; sul piano esterno come proiezione delle strategie, interessi e rapporti di potere imperialisti dei paesi CEE a livello mondiale.
    È intorno all’emergere di una formazione sociale capitalistica europea che nasce e si concretizza la ridefinizione dell’assetto di potere della borghesia imperialista; dalla costituzione degli organismi sovranazionali nel quadro dell’“Unione Europea”, al processo di rifondazione politico-istituzionale in atto negli stati europei.
    Lo Stato «non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l’esterno che verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi» (Marx-Engels). I suoi assetti istituzionali, di potere, e i piani di intervento mutano in stretta dialettica con gli interessi della classe di cui è espressione, questo per fare in modo che le sue strutture non si trasformino in “gabbie“ che impediscono alla borghesia di far fronte alle necessità imposte dalla crisi economica e dal conflitto di classe.
    In Europa è il processo di integrazione che ha innescato questa dinamica in ogni stato del continente.
    Così in Italia, il progetto di “riforme istituzionali”, lungi dall’esprimere solo una rideterminazione tecnica degli apparati politico-istituzionali, implica una profonda ridefinizione dell’assetto di potere, incorporando in questo movimento quanto su questo piano è stato sancito in precedenza (come ad esempio le “forzature” operate durante la guerra nel Golfo, vere e proprie sperimentazioni di un modello di imposizione autoritaria di decisioni e scelte politiche a tutto il paese). In sostanza una riarticolazione verticale dei poteri e degli apparati dello Stato a partire dai centri di comando più importanti, in primo luogo all’Esecutivo, che garantisca alla classe al potere la possibilità di decisioni politiche rapide, in linea con gli oneri e compiti che comporta la collocazione dell’Italia nel processo di integrazione europea. Una scelta strategica che il potere borghese italiano intende portare avanti in un quadro di governo delle contraddizioni sociali dove il “consenso” delle masse non è da esso ritenuto condizione indispensabile.
    Questa dinamica ha i suoi corrispettivi qualitativi praticamente in ogni stato europeo. Dalla Francia, dove la retorica di Mitterrand sulla VI Repubblica accompagna un concreto mutamento politico istituzionale di cui il governo Cresson è battistrada; alla Germania, dove è in atto, tra l’altro, una revisione costituzionale per permettere la formalizzazione dell’interventismo militare pantedesco.
    Questi mutamenti, dovendosi misurare con condizioni preesistenti e storicamente determinate, si realizzano, nelle situazioni specifiche, in tempi e con forme diversi da ricondurre comunque sempre ad una unica qualità.
    Il fattore dominante in questa complessa ridefinizione del sistema di potere imperialista in Europa, sono gli interessi dei grandi oligopoli multinazionali che ormai fanno il bello e il cattivo tempo sull’intero continente, i processi di ristrutturazione e concentrazione capitalistica finalizzati al rilancio dell’accumulazione, come pure la proiezione e la salvaguardia dei loro interessi in ogni area del mondo.

 

  1. Tre sono i pilastri si cui si basa la nuova tappa verso l’“Unione Europea”: l’“Unione Economica e Monetaria”; la “Politica degli Interni e della Giustizia comune”; la Politica estera e di Difesa comune”.
    Questi tre pilastri, nella loro interazione, rappresentano i passaggi centrali della formazione del polo imperialista europeo. In questo la unificazione economica e monetaria precede e sollecita il processo complessivo. C’è un nesso di distinzione dialettica tra il momento del governo economico e monetario e l’intero riassetto politico-istituzionale del potere politico che, dagli organismi CEE si estende fino allo stato nazionale e alle diverse istituzioni e organismi regionali.

 

4.1 L’unione economica e monetaria, dà una ulteriore accelerazione al processo di convergenza economica perseguita ormai da anni dalla borghesia europea per dotarsi di una Banca Centrale e una moneta unica, entro la fine degli anni ’90. Ciò determinerà il trasferimento definitivo della “sovranità monetaria” di ogni singolo Stato alla Banca Centrale, che opera indipendentemente dal potere politico. Sono direttamente i grandi trust bancari-finanziari-industriali a spingere la centralizzazione delle politiche monetarie attorno alle loro esigenze.
Un processo iniziato negli anni ’70 con la crisi degli accordi di Bretton Woods, che nel ’70 porta alla fondazione del “Sistema Monetario Europeo” (SME), e alla liberalizzazione dei capitali aperta nel ’90. Una ulteriore tappa, legata ai tempi necessari ad una maggiore convergenza economica, è stata fissata per il gennaio del ’94, e prevede la costituzione di un “Istituto Monetario Europeo” (IME).
Tutti questi passaggi stanno portando alla costituzione di un sistema europeo di banche centrali imperniato sulla Banca Europea e l’ECU come moneta unica. Una dinamica resa possibile da una già esistente convergenza economica e monetaria realizzata attraverso il processo di “disinflazione” degli anni ’80, che nel concreto ha significato il drastico taglio delle spese sociali in ogni singolo Stato, e politiche di contenimento del costo del lavoro in tutta Europa. Un attacco che oggi e per tutti gli anni ”90 è condizione per realizzare le tappe fissate dalla borghesia nella prospettiva dell’Unione economica e monetaria.
Questo è il punto di riferimento per la Banca d’Italia, che sta già sviluppando profonde trasformazioni nella sua struttura per renderne irreversibile l’autonomia e predisporsi all’interno del nascente “Sistema Europeo di Banche Centrali” (SEBC) con al centro la futura Banca Centrale Europea.

 

4.2 Al processo di costruzione dell’unione economica e politica corrisponde un riadeguamento delle strutture di potere della borghesia. Un riadeguamento che ha la sua finalità principale nella necessità di garantire la riproduzione dei rapporti sociali capitalistici nel quadro attuale della crisi.
Quindi, questo nuovo assetto di potere non si definisce solo attorno alle esigenze politiche derivanti dalla concentrazione-centralizzazione capitalistica, ma trova la sua ragione d’essere anche nel governo delle contraddizioni e dello scontro di classe.
A ciò corrisponde la necessità di una politica degli Interni e della Giustizia comune a livello europeo, e un complesso di trasformazioni politico-istituzionali dello Stato in ogni paese.
Tutta la propaganda borghese sul passaggio alla cosiddetta “II Repubblica” qui in Italia, non è altro che il rivestimento massmediato di una serie di mutamenti nel sistema politico di potere, in cui emerge chiaramente la volontà di sancire lo spostamento dei rapporti di forza a favore della borghesia per un più adeguato governo del conflitto di classe. Ciò si inquadra in quel processo di strutturazione autoritaria della “democrazia” da tempo in atto in tutti i paesi del centro imperialista.
È a questo disegno che vanno ricondotti i ripetuti attacchi alle conquiste operaie e proletarie, succedutisi per tutti gli anni 80 in Italia. Questi attacchi, condotti dall’Esecutivo e dal grande padronato, non hanno il solo obiettivo di liquidare le conquiste, essi sono finalizzati infatti a stabilire meccanismi istituzionalizzati che limitino ogni possibile sbocco e forma di lotta di classe. In pratica si vuole porre sul piano dell’illegalità qualsiasi istanza di classe e proletaria che sfugga alla cooptazione sociale istituzionalizzata. Una dinamica resa possibile anche dall’opera di svendita del patrimonio di lotta operaia da parte dei sindacati e partiti riformisti, i quali, facendo proprie le necessità della borghesia e del grande capitale, si stanno muovendo a livello internazionale, con i loro consimili degli altri paesi, per impedire che le lotte del proletariato in Europa esprimano coscientemente la loro qualità unitaria e i loro processi di organizzazione autonoma.
Al processo di integrazione europea degli anni 80 ha corrisposto un progressivo spostamento di poteri verso gli organismi sovranazionali e una conseguente delega di sovranità, su molti piani, degli Stati nazionali. Parallelamente si è imposta una supremazia giuridica sull’intero territorio europeo. I “trattati istitutivi” CEE rappresentano ciò che le “leggi istitutive” sono per gli Stati, e insieme agli accordi UEO, TREVI e Schengen, come pure alle molteplici sentenze della Corte di Giustizia comunitaria, stanno uniformando le “carte costituzionali” e la legislazione di ogni singolo Stato. Allo stesso tempo i loro emendamenti, sganciati da ogni autorità politica parlamentare, hanno determinato un “deficit democratico” che crea non poco imbarazzo ai tecnocrati degli organismi comunitari, provocando su molti piani un esautoramento dei poteri parlamentari, spesso ridotti a pura ratificazione delle loro direttive.
La legislazione comunitaria sviluppa ulteriormente l’integrazione e la rifunzionalizzazione istituzionale degli Stati intorno agli interessi della borghesia monopolistica sovranazionale. In questo modo, ogni singolo Stato incorpora in sé il livello più alto dato dalla dimensione sovranazionale dei rapporti di forza sull’intero proletariato e l’insieme della sua strategia controrivoluzionaria.
L’omogeneizzazione della legislazione e delle politiche comunitarie di controllo e repressione, si è venuta sviluppando a partire dagli organismi CEE (Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia Europea…) e con la affermazione di una molteplicità di strutture come TREVI, Schengen, etc., fino alla costituzione di un vero e proprio spazio giuridico europeo.
Queste diverse istituzioni e apparati sovranazionali, forti dell’esperienza accumulata ai massimi livelli dello scontro di classe, attraverso trattati, codici, statuti, leggi, etc., hanno sviluppato una politica di pianificazione sull’intero territorio europeo, omogeneizzando un personale imperialista e rispettivamente strategie collocati ad alto livello su tutti i piani dello scontro.
L’insieme degli apparati di controllo e repressione a livello nazionale (polizie, magistrature, servizi segreti…), hanno sviluppato in questa dinamica una strutturazione sempre più integrata e coordinata in ogni paese e sul piano continentale.
La recente scelta operata in Italia per razionalizzare e coordinare l’intervento di polizia, carabinieri e finanza, risponde a una duplice esigenza: riorganizzare le forze in campo per ottenere un controllo più capillare del territorio; usufruire di un forte strumento centralizzato in grado di partecipare efficacemente alle strutture integrate e di coordinamento operanti e con requisiti necessari alla prevista formazione della “Europolizia”.
È sempre in riferimento al processo di integrazione che si devono inquadrare quelle mutazioni – attualmente allo stadio di proposte e oggetto di aspri scontri tra i partiti e forze borghesi – quali la ridefinizione della magistratura inquirente (che prevede fra l’altro la subordinazione all’Esecutivo dell’iniziativa della “Pubblica Accusa”), e in genere del ruolo stesso della magistratura e dei suoi organi di governo (in particolare il Consiglio Superiore della Magistratura).
Tra i passaggi già operati c’è la riforma del “codice di procedura penale” che avvicina la politica penale italiana al modello legislativo nord-europeo, e che incorpora la sostanza della cosiddetta “legislazione d’emergenza”, prodotta in 20 anni di attacchi violenti alle avanguardie rivoluzionarie, alla guerriglia e alla lotta di classe nel suo insieme.
Migliaia di licenziamenti, aumento della disoccupazione, riduzione del costo del lavoro, aumento dello sfruttamento, riduzione di ogni spesa per l’assistenza, militarizzazione capillare del territorio, razzismo, distruzione attiva e preventiva di ogni forma di autorganizzazione e opposizione di classe e rivoluzionaria, attacco a tutte le conquiste della classe operaia e dei lavoratori dei servizi, fino al diritto di sciopero; uso della tortura, delle carceri speciali, fino all’annientamento psicofisico dei prigionieri rivoluzionari attraverso l’isolamento.
È questo il quadro di riferimento su cui si è venuta sviluppando e omogeneizzando la politica interna e la legislazione comunitaria, all’interno della rifondazione autoritaria dei singoli stati.
È così ad esempio che il “Gruppo TREVI” e su un altro piano gli accordi di Schengen, si impongono come pilastri della controrivoluzione integrata tra i 12 Stati europei.
“TREVI-Schengen significa l’unificazione e la standardizzazione giuridico-poliziesca e militare dell’insieme dei compiti e dei metodi di inchiesta, di procedure e legislazione preventiva e repressiva che superi le attuali frontiere… Ma, ancora, la messa in atto del controllo delle popolazioni attraverso una banca dati integrata e l’identificazione informatizzata. Così, lo spazio giuridico si afferma, simultaneamente, nella ridefinizione del reato politico, nelle procedure di estradizione, e nella soppressione del diritto di asilo, fino alle nuove legislazioni che regolano l’ingresso e il soggiorno dei lavoratori immigrati” (Prigionieri di Action Directe).
Con il nuovo Trattato di Maastricht, la nascente “Unione Europea” estende i propri poteri in materia di immigrazione, giustizia, interni, in una dimensione sempre più integrata e gestita dalle istituzioni comunitarie. Queste centralizzeranno materie come: politica comune di immigrazione, diritto di asilo, lotta alla droga, cooperazione giudiziaria e soprattutto tra le polizie, con il progetto di una polizia europea (Europol) sul modello del FBI americano.
Questa è una delle nuove competenze in materia di “affari interni e giustizia” che la riforma del trattato CEE ha attribuito all’“Unione Europea”, come pure in materia di immigrazione, di visti e diritto di asilo (in Italia l’ormai famosa “legge Martelli” ha costituito il passaggio necessario per aderire a “Schengen” e omologare il quadro legislativo alla ridefinizione autoritaria delle politiche europee sul terreno del controllo dei flussi migratori), di cooperazione giudiziaria, civile e penale. In sostanza una struttura europea di controllo e repressione per la “prevenzione e lotta al terrorismo“ e altre “forme di criminalità internazionale”.
L’“Unione Europea” si dispone così a far fronte alla massa di immigrati che preme ai confini mediterranei e orientali della CEE, e alle lotte di resistenza e rivoluzionarie del proletariato metropolitano europeo.

 

4.3 Il Trattato di Maastricht prevede che gli “orientamenti generali” di politica estera e di difesa siano votati all’unanimità dal Consiglio Europeo (capi di Stato e di Governo), che le “linee di azione” siano votate all’unanimità dal Consiglio dei Ministri degli Esteri, che le “modalità di attuazione” vengano decise dal Consiglio dei Ministri degli Esteri a maggioranza qualificata. La Commissione potrà formulare proposte in materia di politica estera, di sicurezza comune, mentre i poteri reali dell’Europarlamento saranno di semplice consultazione, se sarà ritenuta necessaria.
Si tratta di fissare, sul piano economico, le nuove coordinate della sua proiezione internazionale, del peso e del ruolo che il polo imperialista europeo intende assumere in una rinnovata divisione internazionale del lavoro, in competizione con le altre potenze imperialiste USA e Giappone, entro cui garantire gli interessi dei grandi gruppi multinazionali europei. E di ricollocare in questa organica prospettiva tutta la fittissima rete di accordi e relazioni bilaterali e multilaterali che la CEE ha sottoscritto in tutto il mondo, di integrare definitivamente in questi il sistema di relazioni economiche e politiche internazionali dei singoli Stati europei, di ampliare sempre più la sua penetrazione e la sua opera di influenza nelle altre aree del mondo.
Sul piano politico-militare, l’“Unione Europea”, superando il terreno della semplice “cooperazione intergovernativa” tende a diventare una vera e propria potenza internazionale, all’interno di un nuovo “equilibrio di potere”.
Questo significa, da un lato collocarsi in maniera sempre più diretta a fianco degli USA (e del Giappone), per mantenere il proprio dominio sul proletariato e i popoli di tutto il mondo, dall’altro ritagliarsi e garantirsi un suo proprio ruolo e peso sempre più autonomi nella gestione dei conflitti e delle “aree di crisi”.
Nei confronti delle altre potenze imperialiste, USA e Giappone in testa, il polo europeo si trova impegnato in una vera e propria guerra commerciale, fatta di tariffe protezionistiche, sovvenzionamenti, politiche monetarie, diretta a salvaguardare le proprie aree di mercato e a penetrare quelle avversarie, a garantire la propria produzione industriale dalla concorrenza delle merci e dei capitali americani e giapponesi.
D’altra parte il polo imperialista europeo è sempre più proiettato verso un ampliamento delle sue aree di diretta influenza politica.
In ambito continentale, l’“Unione Europea” punta alla costruzione di accordi di integrazione/subordinazione con gli altri paesi europei. Uno è l’accordo per lo “spazio economico europeo” che nei fatti altro non è che l’estensione/imposizione ai 7 paesi EFTA delle normative, legislazioni e istituzioni dell’Unione europea. Su un piano diverso sono gli accordi firmati in questi mesi da Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia di “super-associazione” per la costruzione di un’area di libero scambio per la totale apertura di quei paesi alla penetrazione delle multinazionali europee, garantendo la totale liberalizzazione del mercato del lavoro, delle merci, dei capitali.
Ma è tutta l’area europea che i tecnocrati della CEE considerano “naturale orizzonte” per l’imperialismo europeo. Basta vedere il ruolo che la “Unione Europea” intende giocare nelle trasformazioni che investono tutta l’area ex COMECON e la rete di accordi stipulati con i nuovi gruppi dirigenti di quei paesi. Le vicende yugoslave mostrano in modo esemplare tutta la forza di incidenza e pressione raggiunta dall’“Unione” sul piano economico, politico e militare, ma anche la diretta volontà politica di intervento che ha acquisito maggiore organicità con le direttive del vertice NATO di fine ’91 a Roma, che ne ha orientato il livello di autonomia rispetto alle politiche USA e alle decisioni dell’ONU.
Tutto il Tricontinente è, nel suo complesso, obiettivo della penetrazione imperialista dei grandi oligopoli multinazionali europei, nella loro esigenza imprescindibile di allargare il loro campo d’azione all’intero mercato mondiale. Basti pensare all’America Latina o all’Africa.
Ma è principalmente nell’area mediterraneo-mediorientale che la pressione e l’iniziativa europea hanno assunto una rilevanza e una caratteristica evidentissima. Spazzate via tutte le chiacchiere sulla “integrazione tra le due sponde del Mediterraneo” o sull’“area di pace”, l’imperialismo europeo sta concretamente mostrando sul suo “Fronte Sud” cosa intende per “rapporto Nord-Sud”.
Dal tentativo, patrocinato dai ministri degli esteri CEE, di stringere tutti i paesi del Mediterraneo in un sistema di relazioni (la “Helsinki del Mediterraneo”…) che doveva sancire e formalizzare in tutta l’area lo strapotere assoluto dei paesi CEE, della NATO e di “Israele”, si è passati alla guerra di aggressione nel Golfo, fino a ritagliarsi uno spazio nell’impostazione della cosiddetta “Conferenza di pace di Madrid”, fino alle attuali minacce contro la Libia.
Il Trattato della “Unione Politica Europea” definisce esplicitamente la UEO (Unione Europeo-occidentale) come nucleo di costruzione/elaborazione di una difesa comune. L’UEO attuerà le decisioni della “Unione Europea” in un quadro di complementarità con la NATO. Una posizione di mediazione tra le posizioni anglo-italiane (che sottolineano il ruolo insostituibile della NATO) e quelle franco-tedesche (che spingono per affidare alla UEO la difesa autonoma dell’Europa).
Queste scelte vanno inquadrate in rapporto alla ridefinizione già operata &emdash; a fronte dello scioglimento del Patto di Varsavia e all’emergere di nuove esigenze – della strategia NATO, dalla “difesa avanzata” alla costruzione delle “forze multinazionali di rapido impiego”, capaci di fronteggiare anche le emergenze del Fronte Sud. Questa ridefinizione sta comportando una riduzione quantitativa delle forze USA e una loro sostituzione con truppe europee.
Nei fatti il potenziamento della UEO è un rafforzamento del “pilastro europeo dell’Alleanza” che tuttavia non segna un netto sganciamento della “difesa europea” dagli USA.
Ma nello stesso tempo l’accordo di Maastricht prevede la possibilità di nuovi sviluppi a partire da una maggiore integrazione delle forze armate europee. È ancora una volta l’asse franco-tedesco a rilanciare il piano per la creazione di una forza militare europea pienamente indipendente sotto il comando UEO, in grado di agire in piena autonomia. Questo piano prevede la piena subordinazione della forza europea al Comando Atlantico in caso di aggressione al territorio NATO, ma il suo impiego indipendente in caso di crisi fuori area (tipo guerra nel Golfo). Si parte dall’embrione della brigata Franco-Tedesca per dar vita ad una forza militare integrata a quella anglo-italiana e sviluppare una forza di intervento rapido che operi nelle aree di crisi fuori dal territorio NATO.
Infine tutti i paesi membri della CEE dovranno aderire alla UEO (non ne fanno ancora parte Grecia, Danimarca e Irlanda) la quale ingloberà nelle sue attività anche la Norvegia e la Turchia membri della NATO ma non della CEE).
È in questo quadro che lo Stato italiano, in stretto rapporto con gli altri Stati CEE, per coordinare i progetti di integrazione della “difesa europea” e NATO, sta approfondendo la riforma e ristrutturazione delle proprie forze armate.
Con l’elaborazione di un “Nuovo Modello di Difesa” punta ad adeguare il dispiegamento di Esercito, Marina e Aeronautica, della “forza di rapido intervento”, attorno a tre funzioni strategiche:
– la presenza e sorveglianza del territorio in tempo di pace;
– la difesa integrata del territorio in periodi di guerra;
– la proiezione fuori area, cioè la “protezione degli interessi italiani all’estero” e la “protezione della sicurezza internazionale”.
Per l’esercito, il progetto di ristrutturazione prevede la riduzione della componente di leva per arrivare alla costituzione di un esercito professionale forte di 50.000 effettivi, integrato da 80.000 soldati di leva con l’appoggio dell’Arma dei Carabinieri che, oltre alla funzione all’interno delle Forze Armate, ha quella di polizia e sicurezza interna.
Una dottrina che per quanto riguarda il suo ambito territoriale, abbiamo visto all’opera quando hanno scagliato migliaia di soldati di leva a fianco dei Carabinieri contro gli immigrati albanesi a Bari.
La “Forza di Rapido Intervento” in questo quadro è costituita per essere pronta in permanenza ad operare fuori area. L’Italia, inoltre, contribuisce alla Forza di Reazione Rapida della NATO con 5 brigate.
Per la Marina e Aeronautica, nell’ottica di gestione unitaria delle forze e mezzi aeronavali, lo Stato ha articolato un piano di potenziamento per farne una componente integrata con compiti di intervento in tutto il bacino del Mediterraneo e nel Vicino-Medio Oriente in funzione delle necessità di sicurezza e difesa NATO-UEO-nazionali.
Strettamente interessato a questi sviluppi è naturalmente il “complesso militar-industriale” che è da tempo uno degli elementi costitutivi di quella borghesia imperialista che è il motore della formazione del polo imperialista.
Il “mercato unico delle armi” è affidato da tempo al “Gruppo Europeo Indipendente di Programmazione” al quale aderiscono tutti i paesi CEE che fanno parte della NATO. Esso si muove per raggiungere una maggiore efficienza dell’apparato bellico europeo, un aumento della cooperazione del complesso militar-industriale comunitario, la liberalizzazione degli appalti pubblici degli armamenti, la costruzione di consorzi e fusioni tra le maggiori industrie belliche europee. A questo stesso scopo la CEE ha elaborato uno “statuto della compagnia europea” per incoraggiare la costituzione di associazioni internazionali europee di produzione. Attività questa che integra e coordina quella dei singoli paesi europei che finanziano ed incentivano le proprie industrie militari nell’espansione sui mercati internazionali.
È evidente come proprio intorno alla costruzione di una “difesa europea” si darà un enorme sviluppo di questo settore che, come è già accaduto per il complesso militar-industriale negli USA, potrà funzionare come volano nelle economie durante le fasi di crisi.

 

  1. La scomparsa del “bipolarismo” e gli ultimi radicali e repentini mutamenti hanno accelerato l’emergere del polo europeo come un fondamentale soggetto politico del “nuovo ordine mondiale”.
    Al centro di questo complesso movimento, che abbiamo schematicamente delineato, c’è il formarsi di una borghesia multinazionale europea.
    Sono le dinamiche di concentrazione finanziaria, di dislocazione produttiva, l’esigenza di realizzare profitti su tutta l’area europea e in tutte le aree di penetrazione raggiungibili, che spingono i gruppi finanziari e industriali europei a farsi incessantemente promotori della definizione di indirizzi politici omogenei e di strutture economiche, politiche e istituzionali adeguate alla loro traduzione concreta. Politiche che agevolino questi processi di concentrazione, liberalizzino il mercato del lavoro, garantiscono una adeguata politica monetaria, permettano il rilancio dei progetti di Ricerca & Sviluppo comuni, la pianificazione di grandi progetti economici di scala (da quelli del complesso militar-industriale, a quelli della produzione e distribuzione energetica, a quelli delle comunicazioni telematiche, alla costruzione di un sistema integrato di infrastrutture e trasporti).
    È in questo processo che la borghesia multinazionale si rafforza e si riproduce come protagonista del nascente polo imperialista europeo.
    Ma la stessa dinamica di crisi-concentrazione-internazionalizzazione capitalistica che porta alla costituzione e consolidamento di una frazione di borghesia monopolistica multinazionale su scala continentale, e il processo di integrazione/proiezione imperialista che essa promuove, conducono anche, conseguentemente e inevitabilmente alla formazione del soggetto che ad essi è irriducibilmente antagonista: il proletariato metropolitano europeo.
    Concretamente la dimensione continentale dei processi capitalistici determina l’omogenea qualità delle contraddizioni che investono i proletari europei; le caratteristiche del modo di produzione, del livello tecnologico e dell’organizzazione del lavoro sono comuni all’interno dei 12 Stati, e in tendenza in tutta l’area. Le strategie di ristrutturazione, innovazione e dislocazione di interi fondamentali cicli produttivi, la regolazione e composizione della forza-lavoro, dell’esercito industriale di riserva sono concepite e organizzate a livello dell’intero polo europeo. La comune qualità metropolitana dei rapporti sociali e le politiche “neoliberaliste” (incremento dello sfruttamento/marginalizzazione ed emarginazione/taglio delle spese sociali…), rendono sempre più omogenee le contraddizioni vissute da centinaia di milioni di proletari europei.
    Tutto ciò si pone come solida base materiale della costituzione in classe del proletariato metropolitano come soggetto politico omogeneo su scala continentale.
    Ciò non si traduce automaticamente in una già consolidata coscienza di classe dei proletari europei, sebbene questa consapevolezza vada sempre più concretamente crescendo. Significa però che è questo proletariato metropolitano il soggetto politico dello scontro di potere tra le classi in Europa.

 

PER IL COMUNISMO!

«In certi momenti della lotta rivoluzionaria, le difficoltà prevalgono sulle condizioni favorevoli; (…). Tuttavia mediante gli sforzi compiuti dai rivoluzionari le difficoltà sono gradualmente superate, viene creata una nuova situazione vantaggiosa e la situazione sfavorevole cede il posto a quella favorevole.»
(Mao Tse-tung)

 

  1. Come abbiamo visto, il quadro generale dello scontro di questa epoca è segnato in modo determinante dall’accelerarsi della dinamica di integrazione delle economie su scala mondiale per grandi aree regionali, e dall’intensificarsi del movimento di concentrazione dei capitali in grandi oligopoli multinazionali con proiezione planetaria.
    Questi processi avvengono in un contesto, sotto la direzione e con strumenti capitalistici, e perciò non possono che determinare l’esplosione violenta di contraddizioni tra tutto l’arco delle forze coinvolte.
    Non siamo dunque all’inizio di quella “era di pace, sviluppo e stabilità” di cui parla ad ogni piè sospinto la borghesia occidentale.
    Al contrario, conflitti “vecchi” e “nuovi” si vanno velocemente moltiplicando ad ogni livello della formazione sociale capitalistica.
    – Le aree metropolitane del centro imperialista sono attraversate in lungo e in largo da strategie capitalistiche sempre più integrate ed omogenee: la ristrutturazione industriale, la ridefinizione del mercato del lavoro, la deregulation economica e sociale accrescono come non mai la polarizzazione tra ricchezza e povertà, tra sviluppo e sottosviluppo nelle stesse aree, spingendo verso il basso il potere d’acquisto dei salari, aumentando il costo dei servizi e inasprendo in generale le condizioni di vita minime delle classi subalterne?
    In questo contesto saltano rapidamente i livelli di mediazione sociale e si acuiscono le contraddizioni di classe. In tutta Europa il proletariato metropolitano si trova sempre più a scontrarsi in ogni situazione con l’attuale assetto di potere della borghesia imperialista.
    – Il dispiegarsi delle strategie di penetrazione dei monopoli capitalistici occidentali nel Tricontinente genera la marginalizzazione di intere economie preesistenti e la crescente proletarizzazione della maggior parte delle popolazioni in quelle aree, provocandone al contempo la pauperizzazione e affamamento con la distruzione di ogni condizione autonoma di sussistenza.
    La necessità per i poli capitalistici del centri di disporre in permanenza di un esercito industriale di riserva determina una dislocazione della forza-lavoro lungo le direttrici della dinamica di sviluppo e sottosviluppo, con massicci movimenti migratori dalle aree del Tricontinente verso le metropoli del centro. Tutto ciò pone sempre più i popoli del Tricontinente in un rapporto di scontro diretto con la borghesia imperialista.
    – Grandi monopoli multinazionali, blocchi imperialisti, singole nazioni, stanno dando vita ad uno scontro a tutto campo nel quadro della concorrenza/competizione capitalistica per determinare la gerarchia di potere nel sistema imperialista.
    – La borghesia dei centri imperialisti, assillata dall’esigenza di profitto, nella perdurante crisi capitalistica, accresce la propria aggressività sul piano economico in ogni angolo del Tricontinente, togliendo ogni margine di manovra e di esistenza propria alle frazioni d borghesia nazionale che continuano a riprodursi in quelle aree.
    Il riflesso politico di tutto ciò è che esistono oggi ben pochi spazi per politiche e strategie che non siano strettamente subordinate alle necessità del sistema imperialista occidentale. Ne è una diretta conseguenza lo scompaginamento del “campo non allineato” che, nel venir meno dell’equilibrio “bipolare” non ha più trovato un proprio ruolo autonomo, come si è visto molto chiaramente, durante la guerra del Golfo.
    Parliamo di esplosione violenta di contraddizioni perché esse oggi si traducono non solo in termini di distruzione economica, immiserimento, alienazione e oppressione di classe, ma anche – e in questa epoca sempre di più – in concreti processi di guerra. E non è il caso qui di ripercorrere lo stillicidio di guerre “a bassa” o “a media” “intensità” – come le chiamano i boia tecnocrati dell’imperialismo – che in questi ultimi 10 anni hanno preceduto il massacro del popolo iracheno.
    Con questo noi vogliamo mettere in evidenza come oggi meno che mai esista possibilità di uscita da questo quadro di crisi capitalistica, al di fuori di una radicale rottura con l’intero assetto imperialista in ogni area del mondo, e della riaffermazione della prospettiva comunista attraverso la rivoluzione mondiale nella sua forma di guerra di lunga durata.
    La sequenza delle ristrutturazioni innovative della formazione sociale capitalistica hanno proiettato masse crescenti di uomini e donne in una dimensione universale della loro esistenza e della loro lotta, ponendole immediatamente di fronte alla distruttività del capitalismo.
    Questa nuova qualità dello scontro informa il processo rivoluzionario di questa epoca e va affermato dalle forze comuniste per suscitare e connettere energie e tensioni emancipative e di liberazione sociale in ogni area del mondo.

 

  1. I mutamenti in atto nella formazione sociale capitalistica a livello mondiale determinano nuove configurazioni e condizioni dello scontro sul piano generale, con cui da tempo i movimenti e le forze rivoluzionarie si stanno misurando nelle principali realtà di lotta.
    – La fine del “bipolarismo” Est/ovest è uno di questi fattori di mutamento. Da tempo il blocco degli stati ad economia centralizzata aveva cessato di essere punto di riferimento ideologico per i processi rivoluzionari, data la natura di classe che era venuto ad assumere, ma la sua contrapposizione con gli USA aveva di fatto potuto costituire per una lunga fase terreno di sviluppo per numerosi movimenti rivoluzionari e di liberazione soprattutto nel Tricontinente.
    Oggi la realtà delle cose mostra come questo spazio sia venuto meno per tutti.
    Il persistere e il radicalizzarsi della contraddizione di classe tra il proletariato metropolitano e la borghesia imperialista nelle metropoli del centro; il crollo del Patto di Varsavia come sistema politico-militare e lo sviluppo di un aperto scontro di classe tra il proletariato e le frazioni di borghesia negli Stati dell’ex COMECON; i processi di proletarizzazione sempre più accentuati nel Tricontinente, fanno emergere sempre più la contraddizione tra il proletariato internazionale e la borghesia imperialista come il cuore di ogni strategia e prospettiva rivoluzionaria in questa epoca.
    Questo non significa la scomparsa di specificità e caratteristiche peculiari nelle lotte delle varie aree geopolitiche, dovute alle differenze di composizione di classe o ai diversi tempi e forme di esplicitazione delle contraddizioni con la borghesia imperialista.
    Vogliamo però dire che l’elemento strategico su cui i rivoluzionari possono oggi fondare la loro prospettiva è il processo di unità, ricomposizione e costituzione in classe del proletariato internazionale.
    – L’esigenza di concepire e costruire concretamente una nuova dimensione dell’internazionalismo proletario vive da tempo nella prassi delle forze rivoluzionarie più avanzate. Gli sviluppi di questi anni nello scontro generale con il formarsi di aree regionali integrate (come in Europa e in altre parti del mondo); la pressione e l’iniziativa delle potenze imperialiste per subordinare ad esse le aree del Tricontinente, legando così indissolubilmente le sorti del processo rivoluzionario nel centro e nella periferia; l’unitarietà delle strategie capitalistiche che i proletari si trovano a dover fronteggiare in ogni area del mondo e che tende ad omogeneizzarli come classe, danno all’esigenza di un nuovo internazionalismo proletario concrete basi oggettive e un’importanza fondamentale in una prospettiva rivoluzionaria.
    – Nel quadro attuale della crisi capitalistica, la riduzione dei margini di manovra dei capitalisti nella ricerca del profitto e quindi la loro esigenza di invadere sempre più ogni ambito della vita sociale, la dinamica violenta delle contraddizioni che rischiano di mettere in discussione il suo assetto di potere, portano l’imperialismo a scatenare una controrivoluzione dispiegata e preventiva.
    Questo non è certo un dato nuovo. Sono 20 anni che la lotta di classe deve fare i conti con la controrivoluzione preventiva. Ma è evidente che siamo di fronte ad un salto di qualità nelle forme, nell’intensità, negli strumenti messi in campo.
    Dalla crescente militarizzazione del conflitto sociale, determinatasi col restringimento dei margini di compatibilità e mediazione tra proletariato e potere borghese; alla depoliticizzazione, ossia la sistematica opera di svuotamento nei contenuti di classe di ogni movimento o lotta sociale; all’annientamento di ogni movimento o forza di classe che mantenga un’identità antagonista e rompa il quadro di compatibilizzazione sociale.
  1. La prospettiva rivoluzionaria attuale non può fondarsi sull’obiettivo di impedire lo sviluppo dei processi di integrazione e concentrazione capitalistica in atto; essi esprimono la tendenza storica alla mondializzazione delle forze produttive. Per i rivoluzionari si tratta invece di mettersi all’altezza di questa nuova qualità dello scontro; per determinare la rottura di un ordine imperialista che si rivela sempre più come il cappio che soffoca le forze produttive e la dimensione sociale dell’uomo. Costruire dunque le condizioni per distruggere il potere imperialista nelle forme che esso assume in questa epoca.
    Adeguare la progettualità rivoluzionaria a questo livello e con questa qualità, non è un processo semplice né lineare; la complessità e la profondità stesse dei cambiamenti in atto rendono difficile per le avanguardie misurarsi con questo compito. Non è un caso che oggi il dibattito su ciò è tutto aperto. Ma l’esperienza della guerriglia in Europa Occidentale ha già concretamente posto i primi elementi per la necessaria rifondazione della strategia rivoluzionaria.
    Noi pensiamo, con la guerriglia europea, che collocarsi in una prospettiva rivoluzionaria significa sempre costruire ed affermare la pratica di potere proletario al reale livello in cui si giocano i rapporti di potere tra le classi.
    Questo oggi si traduce nel concepire da subito la propria lotta come parte dello scontro rivoluzionario a dimensione internazionale.
    La prospettiva di un processo rivoluzionario nella nostra area, dunque, non può che svilupparsi in riferimento alla costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria del proletariato europeo e della guerriglia europea, in dialettica con i movimenti e i processi rivoluzionari dell’area Mediterraneo-Mediorientale e più in generale del mondo.
    Non solo perché i rivoluzionari oggi devono contrastare una controrivoluzione integrata sul continente europeo. Ma, ancor prima, perché la dinamica della lotta di classe e della composizione del proletariato, strettamente integrate e tendenzialmente omogenee a livello europeo, rendono possibile e necessario porre a questo grado e con questa qualità la dialettica con i movimenti di lotta e resistenza e la costruzione e organizzazione del potere proletario. Perché i processi di concentrazione capitalistica e le interrelazioni tra dimensione nazionale e sovranazionale del sistema di potere imperialista rendono possibile e necessario collocare a questo livello la capacità di disarticolazione.
    Le forze rivoluzionarie oggi si stanno misurando con questi compiti e nodi politici, e con ciò esse partono dai punti più avanzati della loro esperienza di guerriglia e dall’intero percorso del movimento rivoluzionario qui in Europa Occidentale.
    Oggi è il momento di valorizzare pienamente i contenuti che hanno caratterizzato il processo del Fronte Rivoluzionario Antimperialista fin dal suo sorgere e la pratica delle Organizzazioni rivoluzionarie che gli hanno dato vita. E contemporaneamente le molteplici esperienze del movimento di resistenza rivoluzionaria che hanno dimostrato come la nuova qualità dello scontro tra proletariato internazionale e borghesia imperialista possa e debba essere fatta vivere nel quadro allargato delle lotte di massa.
    Unire le diverse lotte del proletariato nel continente e rivolgerle in un’unica strategia contro il potere imperialista, legando lo scontro qui nel centro con le lotte dei proletari e popoli del Tricontinente. Questo è il concetto di fondo che ha caratterizzato la pratica del Fronte.
    È un contenuto vitale perché coglie l’aspetto essenziale dello scontro di potere tra proletariato internazionale e borghesia imperialista in questa epoca: la dimensione internazionale del processo rivoluzionario.

Lottare insieme!

Roma, febbraio 1992

Collettivo comunisti prigionieri Wotta Sitta

Un pensiero su “LA PACE IMPERIALISTA È GUERRA! Roma, processo d’appello Moro-ter – Documento allegato agli atti del Collettivo comunisti prigionieri Wotta Sitta”

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