Questa è la posizione rispetto al tribunale, al procedimento e ai fatti.
Come militanti prigionieri delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente riaffermiamo la validità dell’impianto strategico e della linea politica della nostra organizzazione rivendicandone per intero l’attività politico-militare, il ruolo di direzione e organizzazione nella conduzione del processo rivoluzionario in Italia. Un ruolo sempre svolto all’interno dei nodi centrali che caratterizzano lo scontro di classe intervenendo di volta in volta con l’attacco della guerriglia nella contraddizione dominante che oppone il proletariato allo Stato e all’imperialismo.
È questa attività rivoluzionaria, operata in stretta dialettica con i contenuti espressi dall’autonomia di classe, dentro l’indirizzo strategico della lotta armata, a costruire l’alternativa di potere del proletariato.
Coerentemente con questa concezione ribadiamo la rivendicazione dell’esproprio in via Prati di Papa come azione politico-militare finalizzata a reperire i mezzi necessari per portare avanti il programma rivoluzionario, un’azione tutta interna alla logica della guerriglia, al portato storico e strategico della lotta armata e in particolare al patrimonio di esperienza delle Brigate Rosse.
La fase politica e sociale in cui le Brigate Rosse rilanciano in questo paese la propria proposta strategica nello scontro generale tra le classi è profondamente diversa da quella in cui 30 anni fa avviarono la lotta armata contro lo Stato e l’imperialismo. In quegli anni le condizioni di impetuoso avanzamento generalizzato delle lotte proletarie e dei movimenti rivoluzionari e di liberazione dall’imperialismo in tutto il mondo ponevano concretamente alle avanguardie scaturite dal movimento di classe dei paesi del centro imperialista la questione di dare soluzione teorico-pratica al problema della presa del potere da parte del proletariato metropolitano mentre tutte le aspettative e le posizioni revisioniste storicamente presenti nel movimento operaio dimostravano di avere solo contribuito a consolidare e perpetuare il dominio della borghesia. Nella prospettiva storica del superamento del modo di produzione capitalistico e dell’estinzione della società divisa in classi, il programma dei comunisti ha sempre indicato le tappe della distruzione dello Stato borghese, della conquista violenta del potere politico e dell’instaurazione della dittatura proletaria come passaggi necessari e inevitabili del processo di liberazione della classe operaia dalla sfruttamento del lavoro salariato. Solo l’esercizio del potere politico da parte del proletariato in armi, organizzato come classe dirigente, può determinare infatti le condizioni per il compiuto sviluppo della trasformazione in senso comunista dei rapporti sociali. È precisamente su questo punto fondamentale che nelle alterne vicende del movimento operaio si è costruito il discrimine fra strategia rivoluzionaria e posizioni conciliatrici, compromissorie o gradualiste comunque destinate a ribadire la subordinazione del proletariato agli interessi della borghesia: evitare o rifiutare il terreno politico dello scontro per il potere eludendo la questione della natura di classe dello Stato ha sempre condotto il proletariato a sicura sconfitta. Con la nascita delle Brigate Rosse la lotta armata per il comunismo assolveva una funzione di sbocco politico e di avanzamento per le istanze di potere che maturavano nello scontro di classe verso una prospettiva rivoluzionaria i cui termini non venivano definiti solo in relazione all’andamento congiunturale della lotta, ma ai caratteri storici dello Stato e dell’imperialismo, quindi dell’approfondirsi dei termini della controrivoluzione in relazione alla situazione complessiva dello scontro e all’estensione e al radicamento della stessa lotta armata. Veniva superata una visione manualistica che riduceva il processo a due sole fasi, quella dell’accumulo delle forze e quella del loro disgregamento nella guerra civile e si comprendeva il carattere non lineare della successine delle fasi con il continuo riferirsi alle modificazioni indotte dagli esiti concreti dello scontro e quindi la necessità di conseguire la tappa storica della presa del potere attraverso un processo di guerra di classe di lunga durata.
Aver compreso, praticato e sviluppato la concezione strategica della lotta armata in uno Stato imperialista, aver unificato nel combattimento il piano politico e quello militare e, insieme, l’analisi di classe con la sua applicazione concreta sono conquiste irreversibili, punti di non ritorno acquisiti nel vivo dello scontro dal patrimonio rivoluzionario della storia delle Brigare Rosse.
La fase politica attuale, pur nel precisarsi dell’aggravamento delle condizioni strutturali di crisi del capitalismo, non si caratterizza per la disposizione generalizzata delle istanze proletarie sul terreno della lotta di potere né per lo sviluppo del movimento rivoluzionario. Oggi perciò la lotta armata rappresenta il piano su cui sostanziare il ruolo di avanguardia rivoluzionaria che parte dalla compiuta acquisizione dei termini politici e strategici elaborati dal patrimonio delle BR perché indispensabili per impattare adeguatamente le forme politiche con cui lo Stato si rapporta all’antagonismo proletario e adottare gli strumenti con cui operare la frattura soggettiva richiesta dalla consapevole assunzione del terreno di lotta per il potere. Per questo assume rinnovata importanza la chiarezza dei termini strategici su cui in ogni fase l’avanguardia può far avanzare lo scontro e che inducono anche a ricentrare correttamente la natura stessa del processo rivoluzionario, librandolo dalle incrostazioni spontaneiste e revisioniste, restituendogli funzione orientativa della prassi rivoluzionaria. In generale: i termini teorico strategici che impostano la strategia della lotta armata per il comunismo muovono dalla concezione marxista della necessità storica della rivoluzione comunista ad opera della classe operaia e del proletariato, come un processo che nasce dalle contraddizioni del capitalismo e della sua funzione nella storia sociale, per svilupparsi in continuità con la concezione leninista dell’imperialismo quale fase suprema del capitalismo, del ruolo che adempie lo Stato nella società divisa in classi antagoniste, e del rapporto tra Stato e rivoluzione che costituiscono la base teorica dei termini generali della conduzione della guerra di classe e della concezione strategica dell’attacco al cuore dello Stato, combattimento che caratterizza la guerra di classe di lunga durata nelle democrazie mature.
La strategia della lotta armata è la politica rivoluzionaria con cui le avanguardie comuniste organizzate nella guerriglia praticano obiettivi politicamente offensivi, cioè rivolti all’indebolimento dello Stato nella sua azione di dominio sulla classe nella prospettiva della sua completa distruzione e facendo avanzare l’antagonismo proletario sul terreno della lotta per il potere. La guerriglia, con l’attacco militare contro l’azione dello Stato di governo della crisi e del conflitto, disarticolandone gli equilibri politici che la sostengono, agisce da partito per costruire il partito, opera la trasformazione dello scontro di classe in scontro per il potere, in guerra di classe, costruendo e disponendo le forze proletarie e rivoluzionario che si dialettizzano alla linea e al programma politico proposti dalla guerriglia.
Con la strategia della lotta armata le avanguardie e il proletariato rivoluzionario immettono nello scontro di classe gli obiettivi dello scontro per il potere che costituiscono il programma politico intorno a cui costruire la guerra di classe di lunga durata, in funzione e relativamente alle diverse fasi che essa attraversa, sia quando sono connotate prevalentemente dal ripiegamento delle forze e dall’arretramento del proletariato, sia quando lo sono dall’attestamento di avanzamenti dello scontro rivoluzionario, aprendo il rapporto di guerra “fin da subito” e cioè in qualunque condizione storica, anche a partire dai nuclei esigui di avanguardie rivoluzionarie che lo assumono soggettivamente come proprio obiettivo, proponendolo alla classe.
La guerra di classe è condotta nell’unità del politico e del militare, tanto nell’iniziativa politica che nell’organizzazione delle forze, perché il potere della borghesia imperialista è organizzato in funzione antiproletaria e controrivoluzionaria, con progettualità e mezzi che integrano il piano politico e quello militare, e articola le sue iniziative nella costante azione tesa a convogliare la lotta di classe all’interno di compatibilità economico-sociali e forme di rapporto istituzionalizzate per svuotarne di contenuti la contrapposizione e annientarne la spinta antagonistica. Nelle diverse congiunture l’iniziativa rivoluzionaria deve rivolgersi quindi contro le politiche con cui lo Stato affronta la contraddizione dominante tra le classi, per disarticolare l’equilibrio politico dominante, rendere relativamente ingovernabili le contraddizioni e disporre sullo scontro per il potere le avanguardie e i proletari rivoluzionari. Il processo rivoluzionario nella metropoli imperialista è quindi un processo di distruzione dello Stato che attraverso l’offensiva militare finalizzata alla sua disarticolazione politica procede in rapporto alla trasformazione concreta degli equilibri di forza e politici verso una fase di guerra dispiegata, processo in cui l’aspetto politico è sempre dominante. Nelle condizioni di scontro presenti nel centro imperialista la guerriglia vive in “stato di accerchiamento strategico” dall’inizio della sua attività fino alla fase finale della presa del potere. Ha dunque un rapporto con il nemico di guerra senza fronti, in cui non ci sono spazi politici diversi da quelli che la guerriglia stessa si conquista per esistere ed avanzare e su cui attestare le forze organizzate. La guerra di classe nel centro imperialista nasce perciò dall’attacco politico-militare al nemico e non da forze accumulate giudicate sufficienti a condurla nelle sue fasi successive.
La guerra non è costituita solo da iniziativa militare perché è una guerra di classe in cui il nemico non è una forza esclusivamente militare, ma lo Stato, cioè una forza politico-militare il cui rapporto con il proletariato è dominato dalla politica proprio in funzione contro rivoluzionaria e della stabilità del proprio dominio, per cui l’attacco militare e la corrispettiva forza da costruire per condurre la guerra, devono essere rivolti a colpirne l’azione politica, non le forze militari in quanto tali e devono esprimere una capacità offensiva selettiva dell’azione politica del nemico per ottenere l’effetto del suo logoramento.
La guerra di classe è di lunga durata perché le contraddizioni intrinseche del capitalismo non portano a un crollo, il potere politico è stabile, la borghesia imperialista convoglia interessi sociali attorno al suo potere perché le condizioni per lo sviluppo della guerra di classe stessa sono prodotte dall’azione soggettiva delle forze rivoluzionarie, che deve realizzare un logoramento del nemico e una costruzione delle forze del proprio campo per poter arrivare a una rottura rivoluzionaria vincente.
Coerentemente col principio dell’unità del politico e del militare che informa la guerra di classe nei paesi a democrazia matura, la strategia della lotta armata definisce il partito comunista come un partito combattente e in relazione alla natura del processo rivoluzionario – di distruzione dello Stato/costruzione del partito – definisce la sua formazione come risultato di un processo politico-militare che la guerriglia determina sulla linea dell’agire da partito per costruire il partito. Per le Brigate Rosse le condizioni politiche della costruzione del partito comunista combattente si danno a partire dalla capacità di disarticolare l’azione politica dello Stato, perché la progettualità con cui lo Stato interviene nelle congiunture politiche della contraddizione dominante che oppone le classi è la modalità con cui si esprime la sua funzione antiproletaria e controrivoluzionaria. Le Brigate Rosse non sono il partito ma sono la forza rivoluzionaria operante come un esercito rivoluzionario che attaccando lo Stato nelle sue politiche centrali sostanzia l’agire da partito per costruire il partito e avvia la costruzione del partito, la costruzione degli elementi politico-teorici, strategici, soggettivi, organizzativi che costituiscono il nucleo fondante il partito.
Il programma politico di disarticolazione dello Stato che le Brigate Rosse propongono alla classe definisce gli obiettivi programmatici concreti che costituiscono nello scontro di classe effettivo il piano di lotta per il potere, di costruzione del partito comunista combattente e di mobilitazione della classe sulla sua linea politica. Il progetto politico con cui lo Stato affronta la contraddizione dominante tra le classi è il cuore dello Stato. Non si tratta quindi di un uomo, di una struttura, di una funzione o di uno specifico apparato statale, ma di una progettualità che non si definisce a tavolino una volta per tutte, ma si imposta e si aggiorna irradiandosi progressivamente nel complesso delle relazioni tra le classi, specificando la costruzione di equilibri politici generali e parziali intorno ad essa. Il massimo vantaggio politico conseguibile dal combattimento si dà colpendo il personale che costruisce l’equilibrio politico in grado di far avanzare i programmi della borghesia imperialista, un equilibrio che lega interessi non univoci e anzi contrastanti agli interessi sociali e agli obiettivi politici della frazione dominante della borghesia imperialista. La guerriglia può conseguire così l’obiettivo politico di disarticolare la progettualità statale, squilibrandone l’azione delle varie forze che concorrono a realizzarla. La disarticolazione non è effetto politico ottenuto una volta per tutte con un singolo attacco, ma si produce nella misura in cui si sviluppa il combattimento. L’attacco allo Stato non è inteso in sé e per sé a paralizzare e a impedire in modo assoluto lo sviluppo reale delle sue politiche antiproletarie e controrivoluzionarie, per far questo è necessario un intero processo di guerra che faccia man mano conquistare posizioni più avanzate nei rapporti di forza e politici alla classe organizzata dal partito comunista combattente sul terreno della guerra. L’attacco al cuore dello Stato quindi è al linea strategica di disarticolazione politica dello Stato, impostata sui criteri di centralità, selezione e calibramento definiti dal patrimonio della guerriglia delle Brigate Rosse nel nostro paese.
Il rilancio dell’attacco al cuore dello Stato operato dalle BR-PCC con l’iniziativa del 20 maggio ’99 contro D’Antona ha dimostrato la vitalità e la propositività politica della strategia della lotta armata nello scontro generale tra le classi, pur a fronte di una lunga interruzione del combattimento nella quale sono intervenuti cambiamenti sociali e politici che hanno riguardato i termini della mediazione politica tra le classi stesse. Questo primo rilancio dell’intervento combattente ha confermato la maturità raggiunta dalla guerriglia nel nostro paese e del patrimonio elaborato e verificato nel corso dello scontro rivoluzionario dalle Brigate Rosse. Un rilancio a cui lo Stato ha risposto elevando i livelli di controrivoluzione, come sempre al fine di annientare la guerriglia e di esercitare un’azione deterrente e preventiva sulla dialettica aperta dall’iniziativa delle BR-PCC con le istanze antagoniste prodotte dal conflitto di classe, un’azione sostenuta dai mezzi, dalle ingenti risorse e dagli apparati repressivi rafforzati in questi anni e dal collaborazionismo di quei ceti politici che hanno fatto del controllo delle realtà di classe il valore d’uso del loro ruolo da parte dello Stato e quindi la condizione della propria agibilità politica. Questo non ha impedito, pur nella situazione di arretramento complessivo del campo proletario e di svuotamento del movimento rivoluzionario, che si potessero avviare delle dialettiche politiche che sono andate dalla semplice espressione pubblica del riconoscimento della prassi rivoluzionaria delle BR, in varie forme ovviamente adeguate a parare la reazione della controrivoluzione, ad istanze e nuclei rivoluzionari che hanno preso concretamente posizione sia in appoggio all’iniziativa delle BR sia assumendosi la responsabilità di disporsi nello scontro con contenuti e pratiche offensivi, definendo così uno schieramento rivoluzionario. Al di là delle specificità queste dialettiche hanno avviato un percorso politico e materiale concreto di costruzione di un reale campo rivoluzionario sulla base della discriminante della lotta armata per il comunismo. Piano diverso da quello della formazione di uno schieramento rivoluzionario è quello della costruzione del partito comunista combattente, un’entità che non si produce spontaneamente o come frutto virtuale di un allineamento ideologico, ma è un’organizzazione concreta centralizzata su una linea precisa e con un’articolazione di strutture in grado di applicarne il programma politico-militare in base all’impianto teorico e strategico della lotta armata, all’indirizzo politico-strategico delle Brigate Rosse. È questa impostazione di fondo che garantisce alle BR-PCC la capacità di individuare e colpire il cuore dello Stato.
Con l’azione del 19 marzo 2002 contro Biagi, ideatore e promotore delle linee e formulazioni legislative elaborate nel “Libro bianco”, l’attacco delle Brigate Rosse in quanto prassi cosciente e adeguata alla fase, ha indotto visibilmente una netta chiarificazione del quadro politico e sociale rilevando responsabilità e posizioni di tutte le forze in campo, riconducendole alla sostanza del conflitto inconciliabile fra gli interessi generali del proletariato e quelli della borghesia imperialista, al rapporto rivoluzione/controrivoluzione. Colpendo Biagi le BR-PCC attaccano la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana, per la quale l’accentramento dei poteri nell’esecutivo, il neo corporativismo, la stabilizzazione dell’alternanza fra coalizione incentrate sui propri interessi, il “federalismo” costituiscono le condizioni per governare la crisi e il conflitto di classe in questa fase storica segnata dalla stagnazione economica e dalla guerra imperialista. Una progettualità politica tesa a riadeguare il dominio della borghesia imperialista e rafforzarlo nei confronti delle istanze proletarie e della tendenza al loro sviluppo in autonomia politica antistatuale e antiistituzionale che nascono dalle attuali condizioni strutturali. Una progettualità politica che si costruisce e si sviluppa attraverso entrambi gli schieramenti politico-istituzionali e che, misurandosi con i nodi generati dalle risposte di politica economica, di riforme strutturali e di rifunzionalizzazione dello Stato che sono state messe in campo negli anni trascorsi per governare la crisi e il conflitto di classe, deve ora affrontare il contemporaneo maturarsi di questi processi. Diventa quindi decisiva la capacità di integrare organicamente i passaggi di questa duplice priorità che ha connotato in generale le legislature degli anni ’90 pena l’incapacità di governare efficacemente le contraddizioni alimentate dall’andamento della crisi. Il governo Berlusconi si è insediato qualificando quale aspetto prioritario del suo programma proprio l’accelerazione e l’approfondimento del processo di complessiva ristrutturazione e riforma del sistema economico-sociale. La effettiva capacità di varare una serie di riforme definite improcrastinabili avrebbero costituito un punto di forza per consolidare il sostegno di tutti i settori confindustriali (come non si verificò durante la prima esperienza governativa del centro-destra) e limitare la vulnerabilità di una maggioranza coesa dalla figura stessa di Berlusconi caratterizzata notoriamente (rispetto ad altri paesi a democrazia matura) dall’anomala concentrazione di interessi capitalistici e politici, perciò vulnerabile all’iniziativa congiunta della concorrenza economica e dell’opposizione parlamentare, anche attraverso le molte occasioni offerte all’iniziativa giudiziaria. L’azione dell’esecutivo per la riforma del mercato del lavoro secondo le direttrici delineate dal Libro bianco di Biagi riflette il livello di crisi a cui è pervenuto il capitale che obbliga la borghesia imperialista a recuperare margini di profitto e prevenire l’acutizzarsi del conflitto fra interessi sempre più polarizzati, a fronte di una base produttiva in continua contrazione, processo che, come hanno dimostrato gli ultimi trent’anni, non c’è politica economica in grado di invertire, specie dopo il varo dell’euro e l’impossibilità di ricorrere al palliativo delle “svalutazioni competitive”. In questo quadro per una economia come quella italiana sempre più debole nelle produzioni di punta e sottoposta tanto alla concorrenza dei monopoli europei e americani quanto a quella dei “paesi emergenti” diventa necessaria una riorganizzazione delle relazioni sociali in funzione: 1) dell’obiettivo della competitività del capitale attraverso la regolazione al ribasso del costo del lavoro grazie all’organizzazione del mercato del lavoro tesa a rendere l’esercito industriale di riserva non solo un perenne calmieratore del prezzo della forza lavoro ma un fattore forzoso (le politiche “attive”) di capacità competitiva del sistema economico sociale; 2) della strutturazione di forme di rapporto sociale idonee non solo a rendere “flessibili” i fattori produttivi umani, cioè la forza-lavoro, ma anche a rimodellare il conflitto per prevenire la caratterizzazione di classe, tramite le nuove condizioni contrattuali e normative appositamente articolate per la selettività progressiva e individualizzata dall’accesso al lavoro salariato; 3) della rimodellazione della rappresentanza politica e sociale in correlazione ai processi di accentramento nell’esecutivo delle misure necessarie al governo della crisi, esecutivizzazione da articolare in dimensioni localizzate e tra loro, a volte, competitive (col supporto dei necessari strumenti di coercizione e repressione – polizie regionali e provinciali) presupposto questo tanto della riforma dello Stato in senso “federale” che della tenuta del fronte interno rispetto all’impegno bellico costane dello Stato. La compenetrazione tra pubblico e privato nei settori dell’istruzione, della sanità, dell’assistenza, etc. con un maggior ruolo delle fondazioni, del terzo settore, dei fondi per la previdenza integrativa privata, dà una base economica e sociale concreta a questo disegno politico, come pure glielo assicura l’ulteriore trasformazione del sindacato confederale (ufficialmente rivendicata da Cisl e Uil) in associazione di iscritti ai quali fornire essenzialmente “servizi”, e non più ruolo di organizzatore del conflitto col capitale. È riferendosi politicamente a questa base sociale che il governo formalizza quel modello di nuove relazioni neo corporative delineate nel “Patto per l’Italia”, sottoscritto con solo una parte dei sindacati confederali e giunto a compiuta definizione dopo una serie di forzature e successive mediazioni connesse alla necessità di stabilizzare la fase del superamento della concertazione come “metodo per governare”, concertazione già entrata in crisi manifesta con il governo D’Alema per la resistenza che suscitavano nella classe le misure che ne giustificavano il ruolo politico e la difficoltà di varare le ulteriori trasformazioni del mercato del lavoro per cui premeva la Confindustria. Se alcune componenti governative sottolineano la novità del metodo del “dialogo sociale” mentre altre evidenziano i fattori di continuità con la lunga storia delle relazioni neo corporative e, in stretta consonanza con la Cisl definiscono il nuovo assetto “concertazione con chi ci sta”, l’esecutivo nella sua interezza, attraverso il “Patto per l’Italia” opera per ottenere quel ridimensionamento del peso politico della Cgil che comporta anche l’indebolimento del Centro-sinistra e in particolare dei DS. L’esito del referendum sull’art. 18 e l’approvazione del decreto attuativo della riforma Biagi segnano ulteriori passaggi di un’azione di governo che non ha ancora dispiegato interamente i propri contenuti antiproletari ma la cui tenuta politica è comunque vincolata dall’efficacia con cui perseguirà il processo di rimodellazione economica e sociale, condizione interna imprescindibile per il ridefinirsi del ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo. Perciò l’esecutivo è impegnato a sciogliere nodi cruciali tuttora esistenti come una effettiva riforma previdenziale secondo linee ormai proprie a tutti i paesi a democrazia matura e l’avvio di una revisione costituzionale necessaria per fornire un compiuto quadro istituzionale funzionale alla progettualità politica della borghesia imperialista. Il riadeguamento delle forme di domino della borghesia è una dinamica in corso che investe tutti i paesi imperialisti. Nel caso italiano questo processo si carica di un ulteriore valore politico immediato, assumendo la funzione di verifica della capacità dell’esecutivo nella gestione di un periodo di riacutizzazione dello scontro di classe nella prospettiva di aggravamento in senso apertamente recessivo dell’attuale stagnazione economica, e insieme di verifica, che, sul piano internazionale, il governo Berlusconi garantisca di saper articolare la conferma del rapporto bipolare privilegiato con gli Usa e il ruolo italiano nel riavvio dei processi di coesione europea dopo il posizionamento differenziato dei maggiori paesi imperialisti a fronte delle forzature americane per accelerare i tempi dell’attacco all’Iraq. L’attiva partecipazione italiana alla proiezione bellicistica delle politiche centrali dell’imperialismo si concretizza nel massimo dispiegamento di truppe operative oltre confine (Balcani, Afghanistan, Iraq) mai verificatosi nella storia recente del paese, impegno consentito dal compiersi della trasformazione delle forze armate, avviata dai governi di centro-sinistra, da esercito di leva a esercito di mestiere, impostato organizzativamente sul crescente impegno in missioni all’estero in piena coerenza con la tendenza alla guerra che caratterizza la fase attuale dell’imperialismo.
Con l’attacco dell’11 settembre l’intera catena imperialista si è dovuta misurare con le conseguenze e le ripercussioni in ogni parte del mondo. L’elevata potenza distruttiva dell’azione e la sua specifica selettività hanno inferto un rilevantissimo colpo destabilizzante tale da indurre la controrivoluzione imperialista ad operare un salto di qualità complessivo con immediate implicazioni politiche e sociali interne ai vari Stati e riflessi a lunga scadenza sugli equilibri internazionali, sullo stesso significato della mediazione politica, sul piano del diritto, sul ruolo e la funzione delle organizzazioni sovrannazionali, sul’assetto delle alleanze e sugli sviluppi della stessa dottrina militare. È stata infatti dimostrata la praticabilità (e quindi la possibile reiterazione) di un attacco di portata prima impensabile ad obiettivi centrali, politico-militari ed economico-finanziari nel cuore del territorio nemico senza impiegare le sue tecnologie avanzate e senza disporre l’enorme capacità distruttiva dei suoi arsenali. La successiva propaganda sulle vittorie conseguite nella guerra al “terrorismo internazionale” non ha potuto comunque mistificare l’evidenza storica di un’azione che ha sbriciolato il mito americano dell’inviolabilità del proprio spazio metropolitano, privando nei fatti gli Usa di uno dei pilastri di quel potere di deterrenza da sempre basato sull’asserita impossibilità di subire danni paragonabili all’entità delle distruzioni inflitte in tutto il mondo nel corso di decenni di aggressioni imperialiste. In questo senso l’11 settembre ha rappresentato un concreto fattore di contrasto della strategia americana, ne ha dimostrato la vulnerabilità sistemica, l’ha costretta a modificare piani e tempi di applicazione pur senza ovviamente farne venir meno gli interessi che la motivano, scaturiti da ragioni strutturali, proprie della dinamica generale della crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale che si riflette nell’estendersi e prolungarsi della recessione con le sue conseguenze geopolitiche sulla rimodellazione gerarchica della catena imperialista. Gli Usa hanno dovuto perciò accelerare la propria mobilitazione, esponendosi alle contraddizioni di scelte operate per reazione e non nel momento e nelle modalità previste, dovendosi limitare ad allestire una coalizione a sostegno dell’aggressione dell’Afghanistan non interamente attivizzata nell’invasione nonostante la conclamata e pressoché unanime adesione ad “Enduring freedom”. Questa accelerazione della proiezione bellica americana già all’indomani dell’occupazione dell’Afghanistan si è tradotta nell’adozione ufficiale della nuova “Strategia per la sicurezza nazionale” da parte dell’amministrazione Bush. È il passaggio dalla dottrina della deterrenza e del “contenimento” delle situazioni di crisi alla rivendicazione del diritto alla “guerra preventiva” come garanzia del consolidamento dell’egemonia globale attraverso l’intervento militare diretto in qualsiasi contesto individuato come potenzialmente pericoloso per gli interessi Usa. In tale quadro la mediazione politica assume sempre più le vesti di una forzatura, tendente a ricomporre le contraddizioni latenti nel campo imperialista con il riadeguamento della Nato ai nuovi compiti (allargamento che influisce sulla dinamica del processo di coesione europea, ampliamento indefinito dell’area operativa) ed affidando una volta per tutte all’Onu il ruolo di ratifica del fatto compiuto, con copertura strumentale e relativa cosmesi “umanitaria” delle linee stabilite da Washington. La vecchia rete di alleanze viene affiancata dalla promozione di coalizioni a “geometria variabile” finalizzate sia all’obiettivo immediato da conseguire sia alla verifica permanente del riallineamento gerarchico della catena imperialista. Nel rapporto Usa/Europa (e in particolare con Francia e Germania da un alto e con i paesi del “Gruppo degli otto” dall’altro) l’applicazione di questo schema politico-diplomatico ha aperto al strada dell’aggressione all’Iraq. La decennale resistenza di questo paese all’embargo e alla costante pressione militare angloamericana, nonché l’indisponibilità del suo governo ad alcun compromesso con l’entità sionista e l’appoggio fornito alle componenti (nazionali e islamiste) più conseguenti della resistenza palestinese, facevano dell’Iraq il maggiore ostacolo al dominio imperialista di tutta l’area più cruciale per il controllo delle risorse energetiche e per il futuro assetto degli equilibri internazionali. Un’area che alla vigilia dell’attacco a Baghdad vede ai suoi due estremi da una parte l’avvenuto insediamento politico-militare Usa in Asia centrale e dall’altra la rinnovata offensiva israeliana contro il popolo palestinese per piegarne definitivamente la resistenza e costringerlo ad accettare la sottomissione storica all’entità sionista, reale contenuto di ogni manovra e accordo diplomatico per la pacificazione dai patti di Oslo in poi. L’annientamento del governo iracheno e la dissoluzione del paese come struttura statale ed entità nazionale autonoma e indipendente sono quindi l’obiettivo su cui convergono gli interessi americani, sionisti e quelli inglesi, orientati a riproporre l’influenza britannica in un’area dove tradizionalmente è sempre stata insediata sia a veder confermata la posizione dell’Inghilterra come partner privilegiato degli Usa. Si delinea così l’ambizioso disegno complessivo di riscrivere la carta geografica mediorientale attraverso una serie di tappe che, a partire dall’occupazione dell’Iraq e dall’incameramento delle sue risorse petrolifere, prevedono crescenti misure economiche, politiche e militari di pressione diretta su Siria e Iran e indiretta verso quei paesi della Lega araba che, seppur strettamente vincolati a Washington, rappresentano un potenziale fattore di crisi a fronte di una situazione interna dove l’insofferenza crescente delle masse per condizioni economiche e sociali in progressivo deterioramento si alimenta politicamente con il riferimento alla resistenza palestinese come punta avanzata della lotta al sionismo e alla presenza imperialista. La conquista di Baghdad con la conclusione relativamente rapida delle operazioni manovrate, ha confermato – dopo la Jugoslava e l’Afghanistan – l’evidente strapotere americano nella conduzione dei conflitti tradizionali tra forze regolari, non solo grazie all’enorme disponibilità di mezzi e risorse mobilitabili da una rete sempre più estesa di basi logistiche ma per l’impiego di tecnologie sofisticate missilistiche, avioniche, satellitari frutto dell’espansione del complesso militare-industriale come scelta di politica economica controtendenziale alla dinamica generale della crisi e volano per il rilancio dell’apparato produttivo. La tattica impiegata non ha provocato affatto vittime civili solo come “effetto collaterale” di obbiettivi militari: ancor più che in Afghanistan lo scopo di colpire le popolazioni inermi è stato perseguito come parte integrante della pianificazione operativa così come il surplus di brutale cinismo con venature razziste della concomitante campagna mediatica. Eppure è proprio nel momento della massima ostentazione della potenza Usa che si evidenziano le difficoltà e l’arco di contraddizioni aperto da una strategia imperialista in cui ogni avanzamento è precondizione vincolante di ulteriori forzature. All’impossibilità di allestire in tempi politicamente utili un credibile governo collaborazionista si somma la crescente intensità e diffusione della resistenza popolare irachena e la sua prospettiva di passaggio alla fase della guerriglia dispiegata. Questa situazione, oltre a frustrare le aspettative di un veloce ritorno economico con l’immediata spartizione del bottino petrolifero e la sua immissione sul mercato, pone alle forze occupanti enormi problemi di prospettiva che l’allargamento del numero e della consistenza dei contingenti già presenti ad affiancare gli angloamericani (come quello italiano a Nassiriya) non sono attualmente in grado di risolvere. Nel contempo rimane più che aperto il quadro di operazioni afghano (anch’esso dato molto prematuramente come già pacificato) e si radicalizza l’opposizione palestinese alla cosiddetta “Road map”.
La catena imperialista a guida Usa nell’allargare i fronti di conflitto si espone alla dispersione delle forze e laddove deve insediarsi militarmente per conquistare e preservare il controllo fisico del territorio crea quindi le stesse condizioni che favoriscono la resistenza e il contrattacco antimperialista, sostenendo costi economici e politici crescenti e perdite umane sempre meno sopportabili, a dimostrazione dell’intrinseca vulnerabilità di una strategia a cui per prevalere non basta il più formidabile degli arsenali.
L’attacco all’imperialismo è asse programmatico della strategia che le BR praticano e propongono alla classe e con cui storicamente hanno sostanziato la necessità e possibilità di alleanze antimperialiste tra forze rivoluzionarie dell’area europeo-mediterranea-mediorientale da stringere nella costruzione di un Fronte combattente antimperialista che ha lo scopo di indebolire e destabilizzare l’imperialismo attaccandone le politiche centrali. Se per le BR-PCC lo sviluppo del processo rivoluzionario continua a realizzarsi facendo “la rivoluzione nel proprio paese” perché questa rimane la dimensione politica principale della lotta fra le classi, l’integrazione della catena imperialista intorno al capitale statunitense e al sistema di alleanze a egemonia americana, il formarsi di una frazione di borghesia imperialista aggregata al capitale finanziaria Usa e di un proletariato metropolitano costituiscono i termini attuali della contraddizione storica borghesia/proletario in tutto il campo imperialista entro cui si ripropongono i nodi dello sviluppo di una prassi rivoluzionaria adeguata a far avanzare una prospettiva di potere. Questa condizione politica generale richiede fin da subito di praticare l’obiettivo dell’indebolimento dell’imperialismo operando sull’asse programmatico dell’attacco alle sue politiche centrali. L’obbiettivo politico-strategico della costruzione del Fronte combattente antimperialista può essere raggiunto nella misura in cui si realizzano condizioni politiche e militari per attaccare l’imperialismo da parte di forze rivoluzionarie dell’area europeo-mediterranea-mediorientale, area che ha una sua estrinseca complementarietà economico-politico, cioè di forze rivoluzionarie che possono avere anche diverse finalità o concezioni rivoluzionarie. Il FCA non sostituisce l’obiettivo storico del processo di costruzione dell’Internazionale comunista che è realizzabile tra forze che hanno identiche finalità politiche e concezione teorica e condividono la discriminante di fondo della lotta armata per il comunismo. Una discriminante storica che ha rimarcato l’inconciliabilità con le posizioni revisioniste, comunque camuffate. Oggi i simulacri residuali di queste opzioni politiche si rinnovano non solo come legittimatori, ma come veri e propri attori dell’azione degli Stati imperialisti nel genocidio dei popoli e nella subordinazione del proletariato alla schiavitù salariata, sulla base dell’attribuzione di un valore assoluto alla democrazia rappresentativa borghese come fattore di superiorità e di conquiste sociali in cui il proletariato potrebbe avanzare le proprie istanze di “libertà e diritti” e che perciò gli Stati imperialisti sarebbero legittimati ad imporre nel mondo con la guerra, contro il proletariato e i popoli tramite la sconfitta di quelle forze antimperialiste o rivoluzionarie che si pongono sul terreno di una lotta finalizzata alla distruzione dell’imperialismo o anche solo alla difesa di una reale autonomia nazionale di singoli paesi. La situazione in Palestina e Iraq dimostra che lo scontro continua e la avanguardie rivoluzionarie sapranno fare del contrasto contro le mire israelo-anglo-statunitensi di ridefinizione a proprio vantaggio degli equilibri in medio oriente un punto di programma su cui aprire la prospettiva storica della costruzione del fronte combattente antimperialista promuovendo i termini politico-militari necessari per affrontare gli impegnativi e decisivi compiti legati alla trasformazione della guerra imperialista in avanzamento della guerra di classe.
Abbiamo il dolore e l’orgoglio di rendere onore al nostro compagno Mario Galesi, caduto il 2 marzo 2003 combattendo per il comunismo. Nella guerriglia si mette a disposizione se stessi, si combatte e si può cadere, come è accaduto nella storia a tanti compagni. Mario Galesi ha fatto questa scelta di militanza con la responsabilità che ne è connessa e con la coerenza di cui è stato capace, cosciente di quanto ciò sia necessario per l’avanzamento del processo di liberazione del proletariato, nella sua lotta per il potere, la distruzione dello Stato e dell’imperialismo, per l’abolizione di lavoro salariato e capitale, per il superamento rivoluzionario della società divisa in classi.
La sua vita e la sua storia dimostrano come, nel processo di costruzione del Partito comunista combattente, la militanza rivoluzionaria si misura con una profonda frattura politica soggettiva, necessaria alle avanguardie cresciute nelle lotte del proletariato per trasformare un ruolo politico che si forma e matura nel contesto del movimento di classe in un ruolo indispensabile e più avanzato; un ruolo che determina il proprio rapporto con la classe in quanto combattente contro lo Stato e l’imperialismo. È questo un mutamento complessivo del punto di vista formatosi nella storia di una militanza e nella mobilitazione delle lotte in un salto qualitativo che consiste nell’assumere le finalità della lotta armata per il potere come propria finalità soggettiva. Il compagno caduto ha messo a disposizione senza limiti le proprie forze nel programma rivoluzionario delle Brigate Rosse. Il suo impegno, lo studio e il lavoro politico-militare, la sua vita sono ricchezza collettiva del partito combattente e del proletariato rivoluzionario. Vivono, come la storia di cui è parte, nelle finalità, nella strategia, nella linea, nel programma, nella prassi combattente delle Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente, che egli ha contribuito a sviluppare, entro cui operava quando è caduto, e che oggi l’organizzazione porta avanti nella conduzione dello scontro, adesso e domani. Perché lo scontro continua e le BR-PCC proseguiranno nella linea di attacco al cuore dello Stato, oggi che, anche confidando nel vantaggio militare momentaneamente conseguito contro la guerriglia, l’esecutivo Berlusconi si propone di accelerare le tappe di attuazione del programma antiproletario di rimodellazione economico-sociale e istituzionale delle forme di dominio statale, condizione interna imprescindibile per il ridefinirsi del ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo.
Come militanti prigionieri delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente rivendichiamo di fronte al nemico e di fronte alla nostra classe la nostra piena responsabilità per la storia, per il programma, per la linea politico-militare, per la prassi combattente della nostra organizzazione dal 1970 ad oggi.
Ai tribunali dello Stato imperialista non riconosciamo il diritto di giudicarci: siamo combattenti nemici prigionieri nel quadro di un conflitto concreto oggi più chiaro che mai. Il nostro rapporto con lo Stato e la giustizia borghese non può che essere un rapporto di guerra. Della nostra condotta politica e pratica rispondiamo solo al proletariato e alla nostra organizzazione che ne rappresenta gli interessi strategici.
Meglio di noi prigionieri, dunque, parlerà la guerriglia in attività, le Brigate Rosse.
– Attaccare e disarticolare il progetto antiproletario e controrivoluzionario di rimodellazione economico-sociale neocorporativa e di riforma dello Stato.
– Organizzare i termini politico-militare per ricostruire i livelli necessari allo sviluppo della guerra di classe di lunga durata.
– Attaccare le politiche centrali dell’imperialismo, dalla linea di coesione europea ai progetti e alle strategie di guerra e controrivoluzionari diretti dagli Usa e dalla Nato.
– Promuovere la costruzione del Fronte Combattente Antimperialista.
– Trasformare la guerra imperialista in avanzamento della guerra di classe.
Onore al compagno Mario Galesi caduto combattendo per il comunismo!
Onore a tutti i compagni e combattenti antimperialisti caduti!
Militante prigioniero delle Brigate Rosse
per la costruzione del PCC
Minguzzi Stefano
Roma 07/10/2003
Un pensiero su “Prima Corte d’Assise d’Appello di Roma, Udienza del 07/10/2003. Dichiarazione letta in aula da Stefano Minguzzi, allegata agli atti”