Diamo un significato alla nostra presenza in questo nuovo e imprevisto processo. Alla luce del nuovo contesto generale e dei significativi cambiamenti nella nostra esperienza, riprecisiamo alcune questioni di orientamento generale.
Partiamo dalla constatazione dello stato di generale arretratezza e incapacità dell’area rivoluzionaria, pur di fronte alle grandi possibilità apertesi con questa crisi generale storica del capitalismo.
È urgente affrontare le contraddizioni in campo per quello che veramente sono e cercare una sintesi progettuale adeguata ai compiti della fase. Purtroppo non si può non rilevare che, da molti anni, le contraddizioni si sono accumulate piuttosto che risolte.
Non si riesce ad andare oltre la riproposizione degli schemi ideologici generali, dei principi fondamentali del marxismo-leninismo-maoismo, spesso ponendoli con pretesa di autosufficienza e certezza di vittoria (davvero grottesche). Quando la vera questione da affrontare, e risolvere via via nella verifica di nuove esperienze e concreti passaggi politici, è proprio la ricerca di superamento di limiti, errori e contraddizioni che ereditiamo dal passato. Quel passato, soprattutto recente, che ha visto un pesante arretramento del movimento comunista, in generale nelle aree centrali imperialiste, fra cui l’Italia; una caduta verticale della sua credibilità, nonché dell’idea stessa di Rivoluzione.
Si continuano ad usare toni perentori e pretenziosi, ed a proporre modelli ideologico-politici come fossero indiscutibili verità storiche, laddove invece dobbiamo rendere conto delle degenerazioni della prima ondata rivoluzionaria socialista, e dell’incapacità, più particolarmente qui nelle aree centrali, di ricostituirci come significative forze rivoluzionarie a seguito delle sconfitte degli anni ’80. Ciò che peraltro grava pesantemente sulle possibilità di una nuova ondata mondiale di rivoluzioni proletarie.
Tutto ciò richiederebbe un approccio ben diverso. Richiede capacità autocritica e un salto di qualità nel metodo politico, per saper cogliere quegli elementi di novità che ci arrivano dalle dinamiche sociali, incanalandole in una dialettica autentica con le esperienze e le nuove leve di classe.
Perché, se l’impianto ideologico e di partito sono essenziali, lo sono però in relazione ad un processo rivoluzionario che è un movimento d’insieme della classe; e quindi più livelli di coscienza ed organizzazione, che devono essere posti in condizione di contribuire e sentirsi partecipi. Ciò che richiede appunto una dialettica articolata, ed una organizzazione comunista viva ed aperta nel rapportarsi con le dinamiche sociali; al contrario di quel dogmatismo autoritario basato sulla presunzione di verità assolute di linea, sull’unilateralità della sua formulazione e sulla gerarchizzazione burocratica.
La dimostrazione storica dei danni provocati da quest’ultimo è sotto gli occhi di tutti e, ultimo lascito, nel persistere di questa impronta deleteria nella gran parte dei gruppi.
Pertanto basterebbe rifarsi ai passaggi più brillanti della storia rivoluzionaria, nelle loro sintesi potenti come “Stato e rivoluzione” di Lenin (scritto nel pieno del ’17). Per cogliere una visione ben più ampia, viva ed articolata del processo rivoluzionario. In cui certo il Partito ha il suo ruolo fondamentale, ma in funzione di una dinamica complessiva che trova nei Soviet, nelle
Comuni, la forma concreta e partecipata del potere proletario; di quello Stato proletario “che non è già più Stato nel senso proprio del termine”.
Insomma una visione ed una impostazione che, non arroccandosi su indiscutibili certezze ideologiche e su conseguenti procedure burocratizzanti, cerchi di sviluppare un processo rivoluzionario nel vivo della crescita e della sperimentazione da parte di settori sempre più ampi del proletariato.
OGGI
D’altronde, rivenendo all’attualità, stiamo vivendo il paradosso di qualche movimento di massa significativo che si sviluppa proprio con queste caratteristiche di consistenza – per quanto ancora ben lontano da una maturazione da fase rivoluzionaria – a fronte della suddetta pochezza e rigidità della soggettività comunista (qui nelle aree centrali imperialiste) verso questa maturazione dei movimenti di massa. L’attuale precipitazione di crisi ha svelato molto del capitalismo, dei suoi meccanismi, e in tutta la loro brutalità. Così i vari movimenti contro la crisi esprimono già una certa determinazione nell’affrontare il capitale finanziario, in quanto nemico principale; e ciò è tanto più significativo poiché è evidente che dire capitale finanziario non vuol dire limitarsi alla critica di quei settori borghesi usurai storicamente più odiosi, bensì toccare il sistema capitalistico nel suo insieme; di cui il capitale finanziario è il vertice piramidale, il motore, la forma stessa del capitalismo nell’epoca imperialista. Infatti nei punti alti dello scontro – come in Grecia, in alcuni paesi arabi o, anni fa in Argentina e America Latina – i movimenti di massa non solo si radicalizzano e vanno allo scontro frontale con il sistema economico-politico-istituzionale (certo nel limite delle loro possibilità), ma cercano dunque anche di fondare un’alternativa di potere nelle loro pratiche sociali e di lotta ed autorganizzazione (in forme di autogestione di fabbriche e servizi, e della sopravvivenza nei quartieri). Dichiarando apertamente che la soluzione va cercata fuori e contro il sistema. Tipico atto fondamentale a riguardo è il rompere i ponti con i maledetti “mercati”, sia rispetto ai famosi debiti (che incombono sulle popolazioni come terribile arma di ricatto e distruzione), sia rispetto al circuito produttivo.
È chiaro che questi atti non possono compiersi fino in fondo ma, giustamente, pongono quel terreno concreto dove le lotte sconfinano sulla questione del potere, su cui la proposta e la strategia rivoluzionaria possono innestarsi, proprio come strumenti e sbocco necessari per sviluppare e realizzare, quelle aspirazioni di trasformazione radicale.
È proprio la dove la lotta diventa cruda lotta per la sopravvivenza, e contro il sistema che la nega, che si può coniugare la dinamica rivoluzionaria di partito con le istanze di organizzazione di massa, trovando infine un terreno comune di sviluppo, e quindi d’innalzamento generale del livello di scontro.
Perciò, ovviamente, noi pensiamo che è sempre d’attualità tutta la costruzione di strategia, programma, e linea, sintetizzata nella formula del PC(P-M). Esso è il polo essenziale, il motore per attivare questa ampia dialettica finalizzata all’apertura del processo rivoluzionario. Secondo quelle forme e caratteri adeguati alla nostra realtà sociale, in parte già “scoperte” e provate dal ciclo di lotta rivoluzionaria degli anni ’70, in parte da scoprire nella concreta sperimentazione di questo nuovo ciclo. E unico modo per concretizzare qui, nelle aree metropolitane imperialistiche, la teoria generale della Guerra Popolare Prolungata. Il processo rivoluzionario può concretizzarsi solo come stretta dialettica fra l’azione politico-militare di partito e i movimenti di massa, in un susseguirsi di salti di qualità, di passaggi politici che sostanzino una maturazione ed un innalzamento reale del livello di scontro fra le classi. Immaginare il processo rivoluzionario al di là di questa concreta corrispondenza è puro elitismo di partito e/o militarista.
PC(P-M) riassume i caratteri acquisiti storicamente della forma partito, nello sviluppo delle fasi storiche dell’affrontamento Rivoluzione/Controrivoluzione. In particolare deve essere
l’assunzione dell’unità del politico-militare; per poter cioè essere quel preciso soggetto politico, il Partito Proletario di lotta per il potere, in grado di interagire con la dinamica di massa.
L’attuale arretratezza del percorso della sua costruzione impone di chiarire e superare tutta una serie di pesanti retaggi.
Dicevamo già del dirigismo autoritario della concezione assolutizzante/unilaterale del partito; concezioni che discendono dall’impostazione dogmatico fideistica sul piano ideologico. Le deviazioni sono note: machiavellismo tatticista, rapporto di tipo strumentale con le altre entità del movimento di classe, riduzione degli organismi di massa ad oggetto del proprio operare; alimentando una doppiezza di fondo fra rigidità dirigista e spregiudicatezza opportunistica sul piano dell’articolazione politica. Insomma, una gretta, meschina visione di potere, e del partito come proprietario del processo rivoluzionario. Ciò che peraltro si riflette pure internamente al partito stesso, nelle sue relazioni interne. Quanto questi retaggi pesino sul movimento comunista è evidente, e tanto più quanto se ne è aggravata l’inconsistenza e la marginalità come qui in Italia e Europa. Bisogna porsi il problema di come superarli, nel mentre si costituiscono le nuove forze.
Di sicuro un autentico processo rivoluzionario si impone con le ragioni della vita (come spesso diceva Lenin) cioè, per quanto ci riguarda oggi, rompendo quelle gabbie (tutte quelle forme politiche parassitarie) che impediscono alle energie vive della classe di prorompere e dispiegarsi.
Infatti non si può non constatare che, proprio per sottrarsi a quelle gabbie, parte significativa di queste energie si orienti attualmente verso il movimento anarchico. Proprio per la sua maggiore vitalità e coerenza nella determinazione allo scontro. È il caso su tutti i fronti più accesi, nei vari paesi europei. Unica eccezione di rilievo, il PCE(r) e i GRAPO di Spagna, che, nonostante le riserve che si possono avere su puntuali questioni di linea, costituiscono una notevole presenza con la loro continuità (e nonostante la pesantissima repressione che reggono da sempre). Unico esempio in Europa di presenza politico-militare comunista di una certa consistenza e di solidità politica ideologica. Perno possibile di importanti sviluppi data la fragilità della Spagna nella crisi e nella catena imperialista europea.
In Grecia si vive oramai una fase di crisi gravissima dove la lotta armata è condotta da gruppi anarchici, o nel migliore dei casi, da “anarco-comunisti” come Lotta Rivoluzionaria. Che appunto citavamo nel documento di ottobre 2011 proprio perché esemplare di questa determinazione coerente nonché di una già apprezzabile impostazione politico-organizzativa da processo rivoluzionario (per quanto insufficiente ma in superamento di quelle tipicamente spontaneiste-“nichiliste” che non possono portare da nessuna parte). Colpisce la capacità di queste aree ad inserirsi nei movimenti attuali nelle dinamiche reali, di diventarne fermenti attivi (come qui è evidente rispetto al movimento NO-TAV, per esempio). Può darsi che abbiamo qualcosa da imparare anche da loro? Di sicuro queste forze sono attualmente portatrici di istanze rivoluzionarie, al contrario dei tanti dogmatici scolastici e opportunisti. Perciò a maggior ragione, per riuscire ad orientare le nuove energie verso una strategia comunista è più che mai urgente l’obiettivo PC(P-M); da articolare nell’immediato di un livello di organizzazione comunista armata, che ponga i termini essenziali da costruire: politica rivoluzionaria come esercizio dell’unità p-m, come pratica di lotta armata su obbiettivi e dimensioni da partito, come ponte con la realtà di classe, e cioè come polo di forza armata per dare sbocco e prospettiva alle stesse lotte e rivolte di massa, viceversa condannate alla disperazione. In questo senso va valutata anche la ripresa di iniziativa p-m entro il conflitto capitale/lavoro.
I NUOVI MOVIMENTI: VERSO L’ANTICAPITALISMO?
Le lotte in Italia si confermano ancora nello stato di frammentarietà ed inadeguatezza rispetto all’attacco globale capitalistico. Non si riescono ancora a trovare quei punti di coagulo e generalizzazione che si stanno verificando in altri paesi; e con caratteristiche di nuovi movimenti che, per contenuti e metodi, costituiscono un grande salto di qualità sul piano delle dinamiche di massa. Il movimento italiano più avanzato e che ha addirittura conquistato un carattere di avanguardia di massa, è ovviamente il NO-TAV. Infatti assomiglia a questi altri nel mondo. Esso raccoglie in sé molta pratica di lotta e molti elementi di crescita e maturazione, ponendolo su quella linea di demarcazione dove dalla semplice rivendicazione, settoriale e negoziale, si passa a mettere in questione le regole economico-sociali di sistema. Qui mette in questione l’assoggettamento dei territori (il loro sconvolgimento, dissesto, inquinamento, la disgregazione delle “comunità” locali, la nuova urbanizzazione disumanizzante, ecc) e i comandamenti di “crescita”, “velocità”, “interesse nazionale”. Nonché la nuova autorità sovranazionale dell’Unione Europea, anche essa presentata come indiscutibile con tanto di potere di vita e di morte economica.
E poi c’è l’aspetto politico del modo in cui il movimento si è costruito: Assemblea Popolare permanente, rifiuto della delega, distanza di sicurezza rispetto ai partiti istituzionali, ricostruzione di senso comunitario, pratiche di “futuro”… Tutto ciò ha dato al movimento grande consistenza riuscendo così a superare dure prove e l’impatto con uno dei più alti livelli di militarizzazione del territorio. Infine realizzando quel salto di qualità nel suo divenire riferimento per tante resistenze popolari, in tutto il Paese. Così si è dato quello slancio solidale, con manifestazioni contro la repressione in tante città, dopo gli arresti di febbraio e il ferimento di un militante. Occasione in cui la bandiera NO-TAV è stata assunta come simbolico fronte di opposizione alle politiche di crisi e di massacro sociale.
In questa sua forza e portata sociale e politica, esso si avvicina ai grandi movimenti contro la crisi, generatisi fra le rivolte arabe e gli “Occupy Wall Street”. Essi hanno in comune di essere delle rivolte contro le politiche (e talvolta contro i regimi stessi) prodotte dalla crisi, certo, ma che risaltano anche fortemente i meccanismi inerenti al sistema capitalistico nel suo insieme, nella sua forma di vera dittatura del capitale finanziario. Si percepisce cioè la consapevolezza diffusa, non solo della grande violenza sociale del sistema (di questa dittatura sostanziale, mascherata dallo spettacolo della democrazia formale borghese), ma anche la ricerca di una strada, di una prospettiva di alternativa sociale al sistema dominante.
Slogan come “siamo il 99% contro l’1%”, “non si esce dalla crisi se non si esce dal capitalismo”, “non pagare debiti – espropriare banche e grandi capitali”, segnano un vero salto in avanti (sopratutto se rapportato a situazioni come gli USA). E si è trovata, infine, una pratica unificante del famoso mondo del lavoro frammentato, precarizzato, che da tempo non poteva più ricomporsi entro territori sociali come la grande fabbrica, dislocata sul mappamondo del dominio imperialista.
Paradossalmente, è sempre il capitale stesso che ci aiuta a risolvere i problemi: esso ha omogeneizzato, trasversalmente alla frammentazione del mondo del lavoro, le condizioni sociali del proletariato e dei maggiori strati popolari. E questo in particolare passando per la lunga fase di “sviluppo” drogato tramite la finanziarizzazione che ha creato queste condizioni di indebitamento di massa. Su due livelli: 1) in quanto singoli cittadini con i mutui, il credito al consumo che, tra l’altro, sono stati il corrispettivo della compressione salariale dagli anni
’90 in poi, 2) in quanto sudditi dello Stato, nella forma di debito pubblico. Qui poi ricongiungendosi di nuovo alle strategie di sfruttamento capitalistico, sia nella enorme rendita realizzata sui titoli pubblici, sia nell’uso del debito come arma per imporre le attuali politiche d’impoverimento e aumento dello sfruttamento del lavoro.
“Il debito pubblico, o, in altri termini, l’alienazione dello Stato, che sia esso dispotico, costituzionale, o repubblicano, marca della sua impronta l’era capitalistica. La sola parte della ricchezza nazionale che sia realmente in possesso collettivo dei popoli odierni, è il loro debito pubblico”
(Marx, Il Capitale, libro I)
Ora tutto ciò ha raggiunto una soglia quantitativa, una massa critica tale che, esplodendo, permette la sua trasformazione qualitativa in critica antisistemica. “Siamo il 99%…”, “Non siamo noi ad essere indebitati con voi, ma voi che siete dei ladroni”, “Abbiamo la possibilità di cambiare il mondo. Facciamolo (Do it!)”, ecc. Oakland è stato il punto più alto di questo vasto movimento che ha investito circa un migliaio di città USA. In particolare, nelle giornate fra ottobre e novembre scorsi, a seguito delle ennesime violenze poliziesche contro i manifestanti, venne indetto lo sciopero generale nel distretto. La cosa grandiosa fu che tale proclamazione avvenne ad opera dell’assemblea generale di piazza, i cui 1600 partecipanti erano anche settori rappresentativi di varie categorie e organismi/sindacati già in mobilitazione da tempo. E con una riuscita plebiscitaria dello sciopero stesso, il giorno dopo! Ma anche il contenuto della giornata è molto significativo: la grande massa di scioperanti; senza indugi, al blocco del porto, sia per il peso specifico dei portuali come avanguardia operaia della città, sia perché si volevano attaccare i terminali di un paio di multinazionali agro-alimentari note per le loro speculazioni genocide tra Wall Street e le periferie del mondo affamate… obiettivo davvero ben centrato, al cuore delle contraddizioni imperialiste.
Un orientamento decisamente classista che non rimane alla superficie degli effetti della crisi, ma che va a fondo nei meccanismi e nelle connessioni del sistema. E ancora, l’attacco alla “EGT” e alla “BUNGLE ltd. agrobusiness” cioè alle due Compagnie di assassini, veniva condotto pure in solidarietà alla lotta in corso su un altro porto della Costa Ovest, Longview, dove i portuali subivano una violenta repressione, sempre ispirata da queste Compagnie, e continuavano a lottare.
Altre componenti decisive a Oakland sono alcune grosse fabbriche, un sindacato di base dei carpentieri edili, e gli insegnanti e studenti. Insomma una bella riedizione dell’antica unità di classe, che peraltro deve affermarsi contro una delle legislazioni anti-sciopero più feroci e contro delle centrali sindacali note, per il loro totale asservimento. Tant’è (e anche questo la dice lunga) che questo sciopero generale è paragonabile a quelli del… 1946! Anno culmine di grande fase di scontro di classe che però, sconfitta, vide proprio l’avvio di questa legislazione! Anche questi richiami storici fanno la forza di questo movimento, che scopre le sue potenzialità.
Per concludere, si può rilevare un’altra idea-forza emersa fra gli OWS, che più o meno suona così: “Basta piangere sul pacifismo versato. La questione vera è sul legame indissolubile fra crisi globale del capitalismo e guerra.”
Passo a passo, ci si avvicina alla sostanza dei problemi… C’è poi grossa risonanza reciproca e interlocuzione a distanza fra gli OWS e le piazze arabe. I militanti più avanzati di queste ultime esprimono, con grande maturità, la consapevolezza che la lotta rivoluzionaria è appena iniziata e proseguirà per anni. Danno la massima importanza al proseguimento dell’autorganizzazione alla base, denunciando le elezioni come il classico passaggio di recupero e riassestamento controrivoluzionario (nell’evidente potenza economica capitalistica che manovra i burattini politici, partiti religiosi compresi). E mantengono aperto il fronte principale che è quello contro i regimi militari, sempre in piedi, e il loro alter-ego, la loro carta di sostituzione costituita dai partiti religiosi (regimi e partiti legati dai mille fili della stessa classe di appartenenza e che, talvolta, li porta pure al compromesso, come ora è il caso in Egitto e in Tunisia).
Autorganizzazione che, pur vedendo i suoi momenti forti e critici nelle piazze, è nata e si è sviluppata sotterraneamente anche nelle fabbriche, nel mondo del lavoro. E i militanti giustamente sottolineano la centralità di questo processo che coinvolge i settori operai più sfruttati e cresciuti nella nuova organizzazione capitalistica mondiale. Quindi i ranghi potenzialmente più consistenti di una nuova ondata rivoluzionaria mondiale! È molto forte sentire i loro appelli ai movimenti OWS (ed altri) affinché investano anch’essi la classe operaia. Il tutto prospettando obiettivi antisistemici e di trasformazione sociale, perché si percepisce che ormai il sistema è diventato una morsa schiacciante – basti pensare per loro, in Maghreb, alla morsa del capitale finanziario agente sul mercato mondiale agroalimentare che, a ondate successive, falcidia per fame popolazioni intere e provoca esodi immani dalle campagne alle bidonville metropolitane.
Non ci sono più margini, dicono, bisogna far saltare il sistema, che rende impossibile ogni evoluzione, e che si mantiene su precise forze e connessioni internazionali.
La stessa considerazione vale per la gigantesca operazione in corso, combinata fra capitale finanziario e governi nazionali e sovranazionali (BCE, UE, USA, FMI…). L’operazione di ripresa in mano della montagna di debiti, della macchina dell’indebitamento, attraverso le varie articolazioni politiche locali, porta ovunque agli stessi obbiettivi/risultati: un nuovo colossale drenaggio di ricchezza dalla base sociale produttiva verso l’oligarchia capital-imperialistica, la demolizione dei residui sistemi di sicurezza-previdenza pubblica, e una nuova feroce intensificazione dello sfruttamento. L’ultima trovata è l’istituzione del “pareggio di bilancio” persino nella Carta Costituzionale! Sorta di blindatura al massimo livello concepibile unitamente ai ferrei vincoli UE, ad impedire di fatto qualsiasi politica di aggiustamento-regolazione economico-finanziaria che non sia agendo sulla compressione salariale (in tutte le sue voci: salario diretto, differito e imposte). In questa accezione è proprio vero che il debito (sia quello sovrano, sia la massa di quelli privati) è diventato “una linea del fronte”: evidentemente le masse in rivolta non si sbagliano poi tanto. Perciò, più che mai, ben detto Marx:
“Se i democratici esigono la regolazione del debito pubblico, la classe operaia deve esigere la bancarotta dello Stato!”
(discorso alla Lega dei comunisti, 1850)
IN FABBRICA
Questa colossale operazione ricade pesantemente sugli stessi rapporti di forza in fabbrica, in produzione. Amplificando quello che è già diventato un rapporto terroristico, basato sui vari ricatti che il Capitale agisce. Non si può non vedere la perfetta sintonia, corrispondenza fra i grandi registi governativi (nazionali e sovranazionali) e l’oligarchia capitalistica (i vari Marchionne); in un ulteriore salto di quel processo di cosidetta “esecutivizzazione” e di ulteriore allontanamento/distacco dalla sfera di mediazione e legittimazione “democratiche”. I governi tecnici e la loro organicità ai centri dei potere sovranazionali e al Capitale Finanziario, rendono davvero tangibile quello che giustamente venne definito Stato Imperialista delle Multinazionali.
Ma anche qui, segnali di un nuovo risveglio, adeguato al livello dello scontro: dalle rivolte operaie in Cina e in Maghreb, fino agli appelli degli operai FIAT di Polonia e Serbia all’unità internazionalista per spezzare il gioco al massacro concorrenziale e fare fronte unito contro gli stessi padroni. Questa è visibilmente l’unica prospettiva per affrontare la terribile macchina capitalistica, e per ridare forza e incisività alle lotte operaie: il Capitale, strappati tutti i veli, gioca spudoratamente al ricatto, alla divisione concorrenziale, al potere terroristico sulle stesse possibilità di vita. Il proletariato può rovesciare questi diktat in unità internazionalista e organizzazione della sua forza (su tutti i piani, militare compreso) per dispiegare lo scontro di potere. Accettare la guerra o essere sconfitti!
D’altronde è la stessa forza delle cose a spingere in questa direzione. In Cina-che va sottolineato è diventata “la fabbrica del mondo”, e cioè lo zoccolo duro dello sfruttamento, utilizzato dal Capitale Multinazionale per cercare di risollevare quel tasso di profitto che tanto lo ossessiona e che ne provoca la crisi – le lotte operaie impattano immediatamente la repressione violenta ed esse stesse perciò ricorrono all’uso della forza. È chiaro che le sorti del capitalismo mondiale dipendono molto dal permanere di questa cappa di piombo che, finora, riesce ad impedire la generalizzazione e l’unificazione di un movimento operaio antagonista. Ma è altrettanto chiaro, prima o poi, salterà e finirà per sprofondare il capitalismo nella crisi più abissale. Mentre dal nostro punto di vista, di classe operaia internazionale, visto il peso vivo dell’eredità maoista fra la popolazione cinese ed il confinante processo rivoluzionario in corso in India, si può prevedere facilmente uno sviluppo potente della tendenza rivoluzionaria. E date le dimensioni asiatiche, la sua ripercussione a “tsunami” fin su tutte le altre rive continentali. Non è questione di lanciarsi in profezie e grandi visioni, ma più banalmente di rilevare che gli squilibri capitalistici così profondi e irrigiditi, in cappe di piombo a contenerne le contraddizioni, non possono che provocare esplosioni devastatrici… Concretamente e immediatamente dobbiamo tessere nuove relazioni di unità internazionalista di classe, per poter incidere nella lotta e per rompere le maglie del potere terroristico- ricattatorio.
ORIZZONTE GRECO
Sempre la forza delle cose ha portato la Grecia, sull’orlo dell’abisso, ma anche di una fase da maturazione rivoluzionaria. La crescita e la radicalizzazione del movimento di massa è continua e si intreccia ad esperienze di lotta armata organizzata. I contenuti e gli obiettivi sono sempre più di potere: rigettare i debiti, espropriare banche e capitali, uscire dall’UE, attacco al sistema parlamentare, assemblee generali e autorganizzazione di massa. Obiettivi che vengono concretizzati, in qualche modo, nelle pratiche di lotta, con gli attacchi a banche e palazzi del potere, con l’occupazione di case, edifici, con gli espropri di merci, con il boicottaggio di imposte e di altri pagamenti.
Insomma, c’è poco da inventarsi, la realtà parla da sé e, semmai, impone l’assunzione delle sue logiche conseguenze da parte dell’Organizzazione politica di classe.
Pensiamo sia importante e possibile sviluppare un Fronte di classe, trasversale alle nostre varie lotte, e con connessioni internazionali; la cui autenticità e vitalità è in rapporto ai suddetti contenuti, obiettivi e pratiche organizzative, tendenzialmente di potere. Fuori e contro i partiti istituzionali e anche contro quei ceti politici di “movimento” che funzionano da ultimo argine proprio a contenere il processo di autonomia di classe. Insomma il Fronte di classe come terreno di reale differenziazione e polarizzazione, di crescita di autonomia nei successivi salti di intensità dello scontro, fino alla fase decisiva di trasformazione in Soviet, in Comuni. Processo cui è necessario, ovviamente, il concorso del piano di iniziativa rivoluzionaria di Partito.
CONCEZIONE DEL FRONTE
La concezione del Fronte non è unica e pone vari problemi. Diciamo che, in generale, è un terreno e al tempo stesso un obiettivo che richiedono una certa elasticità tattica; è un tipico campo di sviluppo della tattica. Quindi richiede una costante attenzione al succedersi di eventi e situazioni, che possono modificare le stesse esigenze tattiche. Richiede verifiche e tentativi, esperienza pratica e capacità di bilancio e ridefinizione.
Ricca e controversa è stata l’esperienza storica di Fronte Unito di classe, dal basso e dall’alto. La dialettica viva delle situazioni prestandosi a diverse combinazioni, ma globalmente è chiaro che è il Fronte dal basso che può davvero sostanziare il processo di unità di classe è di sua maturazione rivoluzionaria e mettendo ai margini proprio quelle forze e partiti opportunisti e riformisti che invece preferiscono il Fronte dall’alto come strumento per ingabbiare e snaturare il suddetto processo.
Impostazioni che si riflettono pure sull’altro versante di pratica di Fronte, quello dell’antimperialismo. Qui la diatriba è ancora più accesa poiché la questione imperialista si presta a stemperarne il carattere di classe. A perdere di vista l’imperialismo in quanto “superstruttura del capitalismo”, in quanto sua forma storica, per concentrarsi sui suoi aspetti di dominio politico-militare, sul suo carattere di moderno “impero” (che poi molti identificano quasi esclusivamente negli USA). Si arriva così a perdere di vista il carattere di classe e l’autenticità dei movimenti di liberazione, facendosi abbagliare pure da movimenti reazionari o addirittura da stati borghesi pur che siano in “contrasto” con l’imperialismo dominante. E a concepire il Fronte con tali forze. Talvolta pure incondizionato.
Si sostituisce, nelle priorità, questo piano di “real-politik” con presunte forze antimperialiste (spesso super reazionarie) all’obbiettivo di costruzione delle forze rivoluzionarie di classe. Costruzione essenziale per praticare poi le mediazioni possibili con altre forze antimperialiste (e con certune, non con tutte). Certo, nella dialettica viva non ci sono dei prima e dei poi rigidamente separati, ed il flusso fra i soggetti in campo è continuo, e nei due sensi. Però ci sono delle soglie minime necessarie, al di sotto delle quali si scade a fare altro (pur non volendo): in questo caso data la debolezza/inconsistenza delle forze rivoluzionarie, si finisce a rendersi subalterni a forze borghesi e reazionarie e dentro uno scontro che non è antimperialista, bensì piuttosto scontro interno al campo imperialista per la ridefinizione del suo ordine, dei suoi vassallaggi. Certi movimenti sono talmente fondati storicamente nell’oppressione e sfruttamento dei propri popoli, e altrettanto i loro legami con l’imperialismo – al di là di transitorie fasi di scontro (basti pensare al torbido intreccio tra Talebani, potere pakistano, USA) – che non ci si può aspettare nulla di buono. L’imperialismo può perdere un po’ di presa su un dato paese o regione, sa di recuperarla per altre vie e anzi, strategicamente quelle forze reazionarie sono per esso fondamentali per mantenere sottomessi i popoli e per impedire vere insorgenze rivoluzionarie.
Mentre con i movimenti borghesi-popolari con cui sia possibile il Fronte, è necessario comunque un certo livello di forza e indipendenza dei rivoluzionari. Ciò che si dimostrò in Cina, in Vietnam, e oggi nell’avanzante guerra popolare in India. In Cina il fronte anti-giapponese fu fatto in condizioni particolari e favorevoli – contesto di guerra mondiale e peso favorevole del campo imperialista occidentale, grossa forza ormai accumulata dal CPC e dall’Esercito Rosso, ampie zone liberate – e, ciò nonostante, esso fu nei fatti molto aleatorio, a debita e ostile distanza con un Kuomintang nazionalista che continuava a perpetrare aggressioni e doppio gioco. Non fu mai vera alleanza, ognuno sviluppando il proprio campo in funzione dell’immediata resa dei conti, una volta sconfitto l’imperialismo giapponese. In Vietnam l’egemonia dei comunisti orientò in senso decisamente progressista le componenti borghesi e popolari. E nell’India moderna, benché essa sia un vero e proprio continente comprendente varie nazioni e popoli, e con uno Stato che pratica la guerra interna “coloniale” contro alcuni di essi, il CPI (Maoist) non coinvolge forze nazionaliste reazionarie nel fronte e precisa, sul piano internazionale, che per quanto ci si debba alleare con tutti quelli che combattono l’imperialismo, non si debba rinunciare alla lotta contro il loro eventuale carattere reazionario, per scalzarne l’influenza sulle masse (riferendosi in particolare al problema diretto che hanno con i movimenti islamici confinanti).
Per cui, anche qui nelle metropoli imperialistiche l’urgenza è alla costruzione di forze comuniste nei termini politico-militari necessari anche per un antimperialismo conseguente. E questo è sicuramente il vero aiuto che possiamo portare ai popoli del Tricontinente. Non quello di sostituirlo con surrogati tatticisti, per supplire spesso alle nostre incapacità e incoerenze, e che portano solo a pericolose subalternità e a deformare l’orientamento rivoluzionario. È la nostra arretratezza, la nostra assenza talvolta, dalla scena dello scontro rivoluzione/controrivoluzione internazionale che lascia spazio alla manipolazione borghese-reazionaria della rivolta dei popoli. Questo è il problema che abbiamo da risolvere, e contro quella manipolazione.
VERSO I SOVIET E L’ORGANIZZAZIONE POLITICO-MILITARE
Lo sprofondamento di questa crisi epocale ha il grande merito di spazzare via finzioni, margini di manipolazione e concertazione, illusioni legaliste. Il capitalismo si presenta con il suo volto autentico, feroce; accetta solo sottomissione e alienazione brutale dalla propria umanità, valida solo in quanto merce forza-lavoro; in una spirale di sfruttamento crescente e di eliminazione sociale, una volta spremuti.
Schiaccia i movimenti di resistenza sotto compatibilità di sistema sempre più blindate, indiscutibili. Ma proprio ciò li spinge a maturare, li spinge a porsi gli inevitabili problemi per poter avanzare. Problemi riassumibili in una parola: potere!
Pur se la geografia, la consistenza delle lotte di massa è diversificata, a seconda dei paesi, ovunque si vede una dinamica di crescita dell’autonomia di classe, nel senso di tendenza a contare sull’autorganizzazione e ad allontanarsi dal sistema politico-istituzionale. Percepito a ragione per quello che è: apparato di servitori dei padroni, a questi infeudati e con loro partecipi nei profitti estorti sulla devastazione sociale. Anche laddove la lotta è assente, e perciò si manifesta ancor più la crudeltà delle ferree leggi del sistema in crisi, si può cogliere facilmente che il passaggio “di potere” è la porta obbligata per aprirsi una prospettiva. In tutti i campi sociali:
- In fabbrica, e nella complessa rete della produzione capitalistica, dove si esercita al più alto grado la dittatura e lo sfruttamento. Dove il Capitale usa il mondo intero, la concorrenza ed il ricatto, per aggravarli senza
- Nella distruzione delle strutture sociali, di quei diritti acquisiti storicamente dal movimento operaio; per ridurre di nuovo il proletariato in povertà cronica, a classe di mendicanti.
- Nella condizione abitativa, con l’uragano dei “subprimes” e le conseguenti espulsioni e sfratti di
- Nel saccheggio di risorse e territori, disumanizzati da infrastrutture di puro uso e consumo
- E ancor più nella violenza imperialistica storica, contro tutti i popoli delle periferie, con l’indotto fenomeno delle migrazioni/deportazioni.
- Nelle condizioni sociali generali degradate brutalmente dalle miserie della crisi, avvelenate dai valori tossici dei rapporti sociali borghesi. Degradazione che investe con massima violenza i rapporti di genere, la condizione
E si potrebbe continuare…
Il nodo politico, quello che riassume le varie esigenze e quello che può raccogliere e sviluppare adeguatamente le nuove resistenze ed il loro porsi, oggettivamente, sul terreno del potere, è appunto il piano dell’Organizzazione Comunista strategica (tendenzialmente nella forma di PCP-M). Che solo può concretizzare la volontà di scontro di potere; a cominciare dal ricostruirsi dell’identità del proletariato come classe antagonista e potenzialmente rivoluzionaria. E perciò ristabilire un piano di scontro politico generale, che possa, via via avvicinarci alla prova di forza definitiva di rovesciamento di Stato e Capitale.
Ciò che è possibile solo nella sua forma politico-militare. L’uso delle armi come modo preciso, storicamente determinato e necessario, di essere della politica rivoluzionaria del partito proletario. La lotta armata di partito come modo preciso e incisivo di intervenire nel vivo dello scontro e della crisi in corso; in quanto modo di costruire da subito l’Organizzazione ed il suo rapporto con la classe. Come strumento essenziale, infine, per poter porre concretamente e coerentemente la prospettiva di potere, la possibilità dell’alternativa sociale che solamente potrà farsi strada nel processo di demolizione del modo di produzione capitalista e del dominio imperialista.
Nel contesto di questa battaglia politica situiamo, naturalmente, il processo in corso che come sempre, è occasione di confronto fra i militanti rivoluzionari e lo stato nel suo tentativo di piegare, ridurre, devitalizzare l’istanza rivoluzionaria, riconducendola entro i margini della semplice manifestazione di malessere e protesta sociale.
Gioco sottile, giocato con sbarre di ferro, in cui è importante essere il più chiari possibili ed evitare ambiguità. Perciò anche in seguito alle evoluzioni che si sono date con la rottura del nucleo militante alla base di questo percorso, pensiamo sia utile affermare con ancora più chiarezza il rapporto con la giustizia borghese e le sue diatribe: non abbiamo nulla da cui difenderci, né da giustificare. Rivendichiamo l’essere stati parte di un’Organizzazione Comunista armata finalizzata allo sviluppo di una politica rivoluzionaria.
E ne riaffermiamo l’esigenza attuale e urgente.
SVILUPPANDO LA RESISTENZA PROLETARIA COSTRUIAMO I TERMINI POLITICO-MILITARI PER LA SUA PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA!
TRASFORMIAMO LA CRISI STORICA CAPITALISTICA NELLA GRANDE OCCASIONE!
CONTRO LA CRISI E L’IMPERIALISMO GUERRA DI CLASSE PER IL COMUNISMO!
DAVANZO Alfredo
SISI Vincenzo militanti per il PCP-M
Milano – 15 maggio 2012
Un pensiero su “Crisi e organizzazione. Dichiarazione processuale di Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi militanti per il PC P-M. Processo “Partito Comunista Politico-Militare PC(p-m)””