Fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo la sinistra rivoluzionaria in Italia pone per la prima volta la questione della conquista del potere politico da parte del proletariato in un paese a capitalismo avanzato. In questo contesto nascono le Brigate rosse, che intendono coniugare la tradizione marxista-leninista con gli insegnamenti della rivoluzione culturale cinese e le esperienze di guerriglia urbana nel mondo. Sono state l’organizzazione armata che maggiormente ha inciso sugli equilibri politici del paese.
L’ipotesi rivoluzionaria e la strategia della tensione
Fra il 1968 e il 1969 si sviluppano in Italia forti lotte studentesche e operaie. In numerose fabbriche del nord nasce un nuovo movimento autonomo dal basso, fuori dai partiti e dai sindacati della sinistra storica. Alcune realtà di base milanesi e comitati di lavoratori studenti formano il Collettivo politico metropolitano (Cpm), per costruire l’organizzazione rivoluzionaria a partire dal conflitto nelle fabbriche e nelle scuole. A novembre, con un convegno a Chiavari, la struttura cambia nome in Sinistra proletaria. Nel documento finale, Lotta sociale e organizzazione nella metropoli, la lotta armata viene posta come prospettiva concreta.
La strage di piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, di cui sono strumentalmente accusati gli anarchici, dà inizio alla strategia della tensione, una catena di attentati, in gran parte rimasti impuniti, messa in atto da alcuni settori dello Stato, sostenuti dagli Usa, per combattere il «pericolo comunista» e bloccare la trasformazione sociale e politica. Le bombe accelerano nella sinistra extraparlamentare il dibattito sull’uso della violenza nel processo rivoluzionario. Il percorso organizzativo di Sinistra proletaria fa un passo avanti durante l’estate successiva, con il convegno di Pecorile, a cui partecipano anche i giovani di Reggio Emilia conosciuti come il «gruppo dell’appartamento», provenienti in buona parte dalla Fgci.
Le origini in fabbrica
Nel settembre 1970 a Milano va a fuoco la macchina di un manager della Sit Siemens. L’azione è firmata Brigata rossa. Al singolare. Seguono altre iniziative nelle fabbriche milanesi, centro nevralgico della nuova organizzazione. Sono per lo più incendi di auto dei capi aziendali. Ma anche dei cosiddetti fascisti – «il potere armato dei padroni» – «in camicia nera e in camicia bianca», ovvero esponenti dell’Msi e della Dc. Le prime due brigate nascono alla Pirelli e alla Sit Siemens.
Il battesimo mediatico delle Brigate rosse avviene il 25 gennaio 1971 con un’azione contro la pista di prova della Pirelli. Degli otto ordigni piazzati sotto altrettanti autocarri ne esplodono tre. Ma il clamore è grande. Nella primavera dello stesso anno Sinistra proletaria pubblica il giornale «Nuova Resistenza», che raccoglie il dibattito sulla lotta armata. Escono due numeri. Al centro c’è l’organizzazione operaia, ma l’attenzione è rivolta anche all’esperienza dei tupamaros uruguaiani, alle guerriglie in Germania e Palestina, alla Cina di Mao Tse-tung.
Fin dall’inizio, le Br superano il modello terzinternazionalista, specificando di non essere «l’embrione di un futuro esercito rivoluzionario», ovvero il braccio armato di un movimento di massa disarmato, ma un’organizzazione combattente caratterizzata dall’unità del politico e del militare. La lotta armata assume da subito un significato strategico.
Il 3 marzo 1972 c’è il primo sequestro lampo. L’ingegner Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit Siemens, viene prelevato di fronte allo stabilimento. Mentre il Partito comunista liquida le Brigate rosse come fenomeno di criminalità comune, la nuova organizzazione espande la propria presenza nelle fabbriche. Spesso sono gli stessi operai a segnalare le macchine e i capetti da colpire.
Nel maggio 1972 viene ucciso il commissario Luigi Calabresi, considerato dalla sinistra rivoluzionaria responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Nessuna rivendicazione. Nello stesso mese scatta la prima grande operazione repressiva contro le Br. I militanti che sfuggono agli arresti si riorganizzano in clandestinità. Nascono due colonne a Torino e Milano, ognuna composta da brigate di fabbrica e di quartiere.
L’attività delle Br diventa con il passare del tempo più intensa. Sono colpite sedi e rappresentanti di sindacati di destra, capireparto, imprenditori. Le azioni, tra cui alcuni sequestri lampo, sono condannate dai dirigenti confederali, ma ottengono la simpatia della base. Nel frattempo, nonostante le forti lotte operaie, e le vittorie ottenute, il contratto dei metalmeccanici viene rinnovato ignorando le richieste operaie.
Dalle fabbriche allo Stato
All’inizio del 1974, mentre il Partito comunista di Enrico Berlinguer, dopo il golpe in Cile, lancia la politica del compromesso storico, le Brigate rosse – che si stanno consolidando in varie regioni – decidono di dare un respiro più ampio e una maggiore forza al loro intervento, allargando il campo d’azione dalle fabbriche allo scontro diretto con lo Stato nelle aree urbane. Colpire il potere politico, il potere democristiano, è l’obiettivo. Il primo a finire nelle maglie dell’organizzazione è il giudice Mario Sossi, rapito il 18 aprile a Genova. Reazionario, artefice di vari processi contro esponenti della sinistra. Durante il sequestro sono attaccate sedi di imprenditori legati alla Dc e viene distribuito l’opuscolo Contro il neogollismo, portare l’attacco al cuore dello Stato, in cui si afferma la necessità di conquistare il potere attraverso la lotta armata, abbattendo lo stato borghese democristiano che sta trasformando la repubblica nata dalla Resistenza in una repubblica presidenziale. Con il rafforzamento dei poteri del governo e del capo dello Stato a danno del Parlamento, la modifica del sistema elettorale da proporzionale a maggioritario.
Nel 1974 il clima è molto teso, la strategia della tensione al suo apice. È l’anno della strage di Brescia, della bomba sul treno Italicus, di tentativi golpisti. Il rapimento crea contrasti nelle istituzioni. La richiesta delle Br di liberare i detenuti della XXII Ottobre, inizialmente accolta, è bloccata all’ultimo dal procuratore generale Francesco Coco. Per le Brigate rosse è comunque una vittoria. Dopo trentacinque giorni il giudice viene rilasciato.
Il 17 giugno 1974 a Padova, a venti giorni dalla strage di Brescia, durante un’incursione in una sede missina restano incidentalmente uccisi due fascisti. L’organizzazione si assume la responsabilità dell’evento pur non condividendolo. Ribadisce però che l’attacco armato deve essere rivolto contro lo Stato e non centrato sull’antifascismo militante.
Alla metà di ottobre si riunisce la prima Direzione strategica, per ridefinire la propria struttura in seguito agli arresti di Renato Curcio e Alberto Franceschini. Altri dirigenti vengono catturati nei giorni e nei mesi successivi. Nel febbraio 1975 un commando libera Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Sarà di nuovo arrestato circa un anno dopo. Alla guida dell’azione c’è sua moglie Margherita Cagol, che perde la vita il 5 giugno, in un conflitto a fuoco nel corso di un sequestro per autofinanziamento. È la prima militante delle Brigate rosse che cade sotto i colpi del nemico. L’emozione è forte, ma l’attività prosegue.
La ristrutturazione economica e lo Sim
Gli effetti della più profonda crisi economica successiva alla seconda guerra mondiale iniziano a farsi pesantemente sentire in Italia nel 1974. In autunno parte la ristrutturazione della Fiat e del mercato del lavoro. Licenziamenti, cassa integrazione, delocalizzazione, ovvero il trasferimento della produzione in paesi a basso costo e scarsa sindacalizzazione della forza lavoro.
In questo periodo, fra il 1974 e il 1975, le Br definiscono i tre terreni di intervento che rimarranno costanti negli anni, pur assumendo nei vari periodi un peso diverso: l’attacco allo Stato, in particolare alla Democrazia cristiana, l’offensiva nelle fabbriche per promuovere l’autonomia operaia, la liberazione dei prigionieri.
La Risoluzione della Direzione strategica diffusa nell’aprile 1975 specifica le caratteristiche della crisi e del processo di ristrutturazione mondiale, che provoca cambiamenti nei rapporti di produzione, a tutto svantaggio della classe operaia e del proletariato. Nella nuova situazione nasce in ogni paese lo Stato imperialista delle multinazionali (Sim), per garantire le esigenze del capitale internazionalizzato, della «controrivoluzione globale» guidata dagli Stati Uniti. La Democrazia cristiana è il cardine in Italia di questo progetto, volto a legare le sorti della classe operaia a quelle del capitale e dello Stato, per farle assumere i costi economici della ristrutturazione. Attraverso la politica del compromesso storico, il Pci tenta di entrare nella gestione del processo. La prospettiva politica delle Br diviene allora quella di «unificare e rovesciare ogni manifestazione parziale dell’antagonismo proletario in un attacco convergente al cuore dello Stato». Mentre l’obiettivo ultimo rimane la presa del potere, gli obiettivi congiunturali da attaccare sono individuati nel patto corporativo fra governo, Confindustria, sindacati, asse portante della ristrutturazione capitalistica, nelle strutture politico-militari dello Stato, negli organi della repressione e in alcuni settori del giornalismo che si distinguono nella «guerra psicologica».
La struttura organizzativa
Le Brigate rosse si pongono come il nucleo che lavora per la costruzione del Partito combattente, una struttura di quadri, il reparto più avanzato della classe operaia, in cui radicare l’organizzazione della lotta armata e la coscienza della sua necessità storica, nella forma di una guerra civile di lunga durata. Al contrario di altre organizzazioni di quegli anni, convinte che l’avanguardia combattente scaturisca spontaneamente dall’autonomia di classe, le Br ritengono che sia la guerriglia urbana, colpendo il nemico sul suo terreno, a permettere lo sviluppo della resistenza e dell’autonomia operaia.
Nella prima metà degli anni Settanta le Brigate rosse perfezionano la loro struttura organizzativa. Arrivano a essere formate da colonne su base territoriale, composte da brigate, e ad avere un lavoro articolato in Fronti di combattimento, per elaborare e indirizzare la lotta nei settori specifici.
Colonne delle Br, intitolate in genere a militanti uccisi, sono state presenti a Torino (Margherita Cagol), Milano (Walter Alasia), Genova (Francesco Berardi), Roma (28 marzo), nel Veneto (Annamaria Ludmann), a Napoli. In Toscana e nelle Marche sono esistiti Comitati rivoluzionari territoriali diretti dalle colonne più vicine, mentre in Sardegna per alcuni anni è stato attivo un rapporto politico-organizzativo con Barbagia rossa.
La linea politica viene decisa nella Direzione strategica; il Comitato esecutivo è incaricato di attuarla. I regolari lavorano a tempo pieno per l’organizzazione, sono per lo più clandestini, al momento della cattura devono dichiararsi prigionieri politici. Gli irregolari hanno gli stessi diritti e doveri, ma non sono clandestini. Per non compromettere l’intero gruppo in caso di arresto, i militanti usano fra di loro nomi di battaglia.
Le Br agiscono per campagne, che concentrano nei vari periodi le principali energie dell’organizzazione, pur non escludendo contemporanee azioni su altri fronti di lotta.
Il cuore dello Stato
L’abbattimento del regime democristiano, attraverso l’attacco al cuore dello Stato, è considerato un passaggio necessario per la conquista del potere. Il «cuore» è identificato nei progetti di intervento tramite i quali lo Stato, nello scontro fra le classi, rappresenta gli interessi generali della borghesia. Il 15 maggio 1975 c’è il primo ferimento intenzionale a Milano di un consigliere comunale della Dc. Il partito della borghesia, della classe dominante, dell’imperialismo. Alla fine dell’anno si verifica una divisione nelle Br, con la fuoriuscita di Corrado Alunni, Susanna Ronconi e Fabrizio Pelli, che creano le Formazioni comuniste combattenti (Fcc). Nel 1976 invece il confronto con i Nap porta a una breve campagna congiunta, con attacchi a caserme dei carabinieri e strutture repressive.
La prima grande azione di «disarticolazione politica e militare delle strutture dello Stato» è effettuata dalle Brigate rosse l’8 giugno 1976. A Genova vengono uccisi il Procuratore generale della Repubblica Francesco Coco e due uomini della sua scorta. Fra il 1976 e il 1977 l’organizzazione decide di alzare il tiro, colpendo anche mortalmente numerosi «servi dello Stato»: giornalisti, magistrati, appartenenti alle forze di polizia, esponenti democristiani e missini, dirigenti industriali. I tentativi di aprire un intervento a Roma, centro del potere politico, sulle prime non danno risultati. La colonna romana entra in azione agli inizi del 1977. Nello stesso periodo a Genova il sequestro dell’armatore Costa a scopo di finanziamento porta ai brigatisti un miliardo di lire.
Nel giugno 1977 viene lanciata la campagna contro la «stampa di regime» e la sua funzione controrivoluzionaria. Si articola nel ferimento di alcuni giornalisti e nell’uccisione di Carlo Casalegno, de «La Stampa». Parallelamente viene sviluppato un vasto attacco contro uomini politici, dirigenti di fabbrica, esponenti dell’apparato repressivo.
Il processo guerriglia
Nel maggio 1976 si apre a Torino il primo grande processo contro il «nucleo storico» delle Brigate rosse, come viene definito dalla stampa. Per i prigionieri è un momento di confronto politico-militare fra proletariato e borghesia, interno alla guerra di classe. Decidono di trasformarlo in processo guerriglia, ribaltando il loro ruolo da accusati ad accusatori. Rifiutano il tribunale giudicante, gli interrogatori in aula, revocano il mandato ai difensori, chiedono agli avvocati d’ufficio di rinunciare all’incarico. Leggono comunicati in cui si dichiarano combattenti comunisti, assumendosi la responsabilità politica di tutta l’attività delle Brigate rosse. Ribadiscono che lo Stato va disarticolato nei suoi centri vitali in quanto strumento della controrivoluzione, usato per tentare di distruggere ogni resistenza proletaria e superare le contraddizioni strutturali del capitalismo. Il processo è più volte sospeso, anche perché le numerose rinunce dei giudici popolari impediscono di formare la corte. L’organizzazione all’esterno coordina le azioni con l’evoluzione del dibattimento. Nell’aprile 1977 un decreto legge blocca la scarcerazione degli imputati per scadenza termini. Poco dopo le Brigate rosse uccidono Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Torino, incaricato di nominare i difensori d’ufficio. Il dibattimento riprende a Torino nel marzo 1978 e si conclude a giugno, nonostante il contemporaneo «processo» delle Brigate rosse ad Aldo Moro. Le condanne più pesanti, 15 anni, sono contro Renato Curcio e Pietro Bassi.
La tecnica del processo guerriglia sarà in seguito riproposta dalle Brigate rosse. Nella prima metà degli anni Ottanta viene però meno il comportamento unitario dei prigionieri di fronte ai tribunali. Pentimenti, dissociazione, divisioni politiche portano nelle aule bunker dei maxiprocessi alla frammentazione degli imputati, che prendono posto in gabbie distinte.
La Risoluzione della Direzione strategica del febbraio 1978
È uno dei principali documenti nella storia delle Br, e rappresenta la sintesi di un lungo dibattito interno, esteso ai militanti in carcere. Contiene un’analisi dell’imperialismo entrato nella fase delle multinazionali, in cui i governi dei singoli paesi si trasformano in articolazioni locali della borghesia imperialista e in cui la crisi strutturale per sovrapproduzione assoluta di capitale obbliga a una ristrutturazione dell’apparato economico ma anche di quello politico-militare. In questa situazione la controrivoluzione assume un carattere internazionale, che rende la lotta armata nelle metropoli una «guerra di liberazione antimperialistica». Solo la trasformazione della propaganda armata in guerra civile potrà evitare un nuovo conflitto generalizzato fra l’imperialismo e il socialimperialismo (Urss e paesi del Patto di Varsavia).
Lo Stato imperialista delle multinazionali (Sim), di cui la Dc è in Italia «forza centrale e strategica», ha come principali caratteristiche: la formazione di un personale politico imperialista, la centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’esecutivo, il riformismo, espresso dalla concertazione tra le parti sociali, la controrivoluzione preventiva, con l’annientamento di ogni forma di antagonismo non gestibile pacificamente. Le forze rivoluzionarie devono prepararsi a una guerra di classe di lunga durata di cui la propaganda armata è la fase iniziale. L’uscita dalla crisi si avrà solo con la conquista del potere da parte del proletariato, e il distacco dell’«anello Italia» dalla catena imperialista.
Le Br ritengono necessario agire sin da subito da Partito, ponendosi come nucleo strategico del Pcc in costruzione, collocando «l’iniziativa politico-militare all’interno e al punto più alto dell’offensiva proletaria, cioè sulla contraddizione principale e sul suo aspetto dominante in ciascuna congiuntura». Gli slogan finali del documento sintetizzano gli obiettivi delle Brigate rosse: portare l’attacco allo Stato imperialista delle multinazionali; disarticolare e distruggere i centri della controrivoluzione imperialista; creare-organizzare ovunque il potere proletario armato; riunificare il movimento rivoluzionario nella costruzione del Partito comunista combattente.
La campagna di primavera: il sequestro di Aldo Moro
Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, è il principale artefice della formazione di un governo di solidarietà nazionale, guidato da Giulio Andreotti e sorretto da una maggioranza allargata al Pci. Viene rapito a Roma il 16 marzo 1978, mentre sta andando a votare la fiducia al nuovo governo, anche se la coincidenza è casuale. Nell’azione restano uccisi i cinque agenti della scorta. Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il «teorico» e lo «stratega» indiscusso di quel regime democristiano che da trent’anni opprime il popolo italiano. Ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro Paese, dalle politiche sanguinarie degli anni Cinquanta, alla svolta del «centro-sinistra» fino ai giorni nostri con «l’accordo a sei», ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste.
La campagna di primavera, una delle vicende più complesse dell’Italia repubblicana, mira a incidere sugli equilibri politici generali. Le Br chiedono, in cambio del rilascio dell’ostaggio, la liberazione di alcuni militanti prigionieri. Lo Stato adotta la linea della fermezza, la trattativa fallisce e il corpo dello statista viene ritrovato il 9 maggio a Roma, a due passi dalle sedi centrali della Dc e del Pci.
Con il rapimento Moro, le Brigate rosse diventano un elemento nodale della politica italiana. Contro il quale lo Stato impiega tutto il potenziale repressivo che riesce a mettere in campo, imponendo leggi speciali e arrivando a usare in modo sistematico la tortura. Sulla campagna Moro si sono negli anni scatenate varie interpretazioni dietrologiche, prive di fondamento, nel tentativo di dimostrare che le Brigate rosse sono state dirette o manovrate dall’esterno.
Il «dopo Moro»
Per tutto il 1978 proseguono le azioni delle Br, anche nelle grandi fabbriche del nord. Forti lacerazioni provoca l’uccisione, il 24 gennaio 1979 a Genova, del sindacalista della Cgil Guido Rossa, responsabile dell’arresto dell’operaio dell’Italsider Francesco Berardi, irregolare delle Br suicidatosi in carcere alcuni mesi dopo.
Una significativa frattura interna avviene invece a febbraio, quando Valerio Morucci e Adriana Faranda lasciano l’organizzazione dopo il disaccordo sulla gestione del rapimento Moro. Nello stesso anno si sviluppa un acceso dibattito fra i brigatisti in carcere e l’Esecutivo su come indirizzare l’attività e superare la fase della propaganda armata. I militanti prigionieri producono un ampio testo teorico che sarà pubblicato nel dicembre 1980 con il titolo L’ape e il comunista.
Il 3 maggio 1979, in piena campagna elettorale, le Br assaltano la sede provinciale della Dc di piazza Nicosia a Roma. Sono sequestrati documenti, fatti esplodere ordigni, disegnate stelle a cinque punte e lasciata la scritta Trasformare la truffa elettorale in guerra di classe. Nella sparatoria che scoppia all’intervento di una pattuglia della Digos, due agenti sono feriti a morte.
In estate la campagna contro le carceri speciali – dove dal 1977 sono stati trasferiti i detenuti politici e dove si susseguono lotte, proteste, rivolte – viene ripresa con l’uccisione di Antonio Varisco, comandante del nucleo traduzioni del tribunale di Roma.
Dopo la conclusione del processo di Torino molti brigatisti sono finiti nel carcere speciale dell’Asinara, considerato un vero e proprio lager. Creano una brigata di campo che comprende i detenuti comuni. Nell’agosto 1978, nel corso di una settimana di lotta danneggiano alcune strutture del penitenziario. Chiedono l’abolizione del trattamento differenziato a cui sono sottoposti i detenuti considerati pericolosi. Nella primavera del 1979 i prigionieri comunicano ai compagni esterni di aver organizzato un’evasione per i 53 detenuti. Le Br prendono contatti con alcuni militanti sardi per costruire una nuova colonna e mettere in atto il piano. I problemi logistici si dimostrano però insormontabili. L’arresto di Prospero Gallinari, a cui viene trovata la piantina del carcere, fa mettere definitivamente da parte il progetto. Fallita l’idea della fuga, il 2 ottobre i detenuti dell’Asinara, con una notte di battaglia, rendono inagibile la famigerata sezione Fornelli. Nel frattempo le Br, tramite i palestinesi dell’Olp, riescono a prendere in Libano un carico di armi pesanti.
Il nuovo decennio si apre con la creazione della colonna napoletana e varie azioni armate contro personale dello Stato e della repressione. Tra il giugno 1978 e la primavera del 1980, nella campagna contro gli apparati dell’Antiterrorismo, le Br uccidono dodici militari in diverse città. Nei primi mesi del 1980 sono colpiti a morte due giudici, Vittorio Bachelet, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, e Girolamo Minervini, neodirettore degli Istituti di prevenzione e pena.
Intanto esplode un fenomeno che contribuirà allo smantellamento dell’organizzazione. Nel febbraio 1980 viene catturato Patrizio Peci, dirigente della colonna torinese. La sua delazione porta a oltre ottanta arresti e alla scoperta della base di via Fracchia a Genova, dove il 28 marzo i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa uccidono a freddo quattro brigatisti: Annamaria Ludmann, Riccardo Dura, Piero Panciarelli, Lorenzo Betassa.
Dalla propaganda armata alla guerra civile
Nell’ottobre 1980 viene diffusa una nuova Risoluzione della Direzione strategica. Intende sancire la fine della fase della propaganda armata e l’inizio di un periodo di transizione che, in modo lento, contraddittorio ma irreversibile, sta assumendo i tratti della guerra civile dispiegata. La Dc continua a essere l’asse portante della controrivoluzione imperialista, il Pci il partito dello Stato dentro la classe operaia.
La ristrutturazione capitalistica ha prodotto la precarizzazione del mercato del lavoro, la rottura della solidarietà di classe, una forte intensificazione dello sfruttamento. La classe operaia mantiene un ruolo centrale ma non è più l’unico referente sociale strategico. Le carceri sono parte del cuore dello Stato in quanto luogo di controllo del proletariato metropolitano e di annientamento della sua avanguardia politico-militare. Per la fase di transizione le Br lanciano al movimento di classe la parola d’ordine di costruire i primi nuclei clandestini di resistenza, capaci di unire la pratica politica e quella militare, mentre il Partito comunista combattente ha il compito di conquistare le masse alla lotta armata e organizzarle in un articolato sistema di potere proletario armato. Ai due Fronti esistenti (lotta alla controrivoluzione e logistico) viene aggiunto il Fronte di massa, suddiviso in tre settori: classe operaia e fabbriche, lavoratori dei servizi, proletariato marginale.
Nel frattempo prosegue l’attacco della Fiat alla classe operaia. Dopo i 61 licenziamenti politici dell’estate 1979, nel settembre 1980 l’azienda, in profonda crisi, annuncia quasi quindicimila licenziamenti. In seguito alle lotte, ai picchetti che bloccano l’azienda, per la prima volta nella storia d’Italia i quadri intermedi – impiegati, colletti bianchi – sfilano a Torino chiedendo il diritto di tornare al lavoro. Sarà chiamata la «marcia dei quarantamila». È la vittoria della ristrutturazione. La Fiat blocca i licenziamenti ma mette in cassa integrazione a zero ore ventitremila operai.
Il sequestro D’Urso
Nel dicembre 1980 le Brigate rosse rapiscono a Roma il magistrato Giovanni D’Urso, della Direzione generale degli Istituti di prevenzione e pena presso il Ministero di Grazia e giustizia, responsabile del trattamento dei detenuti. Nell’iniziativa vengono coinvolti i Comitati di lotta delle carceri, per la prima volta considerate dalle Br come «l’altra faccia della fabbrica per chi lotta e combatte», dove vivono i settori più deboli del proletariato metropolitano, extralegale, un terreno che si prepara a divenire decisivo nello scontro di classe.
La strategia differenziata attuata nelle carceri non è svincolata dalla ristrutturazione nelle fabbriche, ma parte integrante di essa: il momento più alto di annientamento delle forze rivoluzionarie.
L’azione ha come obiettivo la chiusura dell’Asinara e delle altre carceri speciali. Il 26 dicembre, mentre il governo ribadisce la politica della fermezza, il Ministro di Grazia e giustizia annuncia lo sgombero dell’Asinara provocando varie proteste, anche del Pci. Il Comitato di lotta del carcere parla di vittoria. Durante il sequestro scoppia la rivolta nel carcere di Trani. Lo Stato adotta la linea della fermezza; il primo assalto della polizia viene respinto con l’uso di esplosivo. I detenuti fanno una serie di richieste sulle condizioni di vita e la legislazione speciale, oltre che sulla chiusura dell’Asinara. Il 29 dicembre i reparti speciali dei carabinieri assaltano il carcere, i detenuti subiscono pesanti pestaggi. Due giorni dopo le Brigate rosse uccidono il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, responsabile della sorveglianza esterna delle carceri speciali. La richiesta dei brigatisti di dare spazio ai comunicati dei Comitati di lotta delle carceri divide i mass media. Alcuni li pubblicano. Il giudice è rilasciato a gennaio. La sentenza viene sospesa e il prigioniero D’Urso viene rimesso in libertà. La lotta contro l’annientamento carcerario continua fino al conseguimento dell’obiettivo finale: distruzione di tutte le carceri e liberazione di tutti i proletari prigionieri.
La fine dell’unità
In questo periodo si conclude di fatto il percorso unitario delle Brigate rosse, nonostante i tentativi per evitare le divisioni. Così i sequestri del 1981, in precedenza decisi dall’Esecutivo come operazioni dell’organizzazione, vengono in seguito utilizzati dalle varie componenti nella battaglia politica interna.
La prima separazione viene sancita negli ultimi mesi del 1980 con la colonna milanese Walter Alasia. Le divergenze riguardano prevalentemente il ruolo della fabbrica e la centralità operaia, l’organizzazione del Pcc e degli organismi di massa rivoluzionari. La Walter Alasia prosegue autonomamente le azioni. Tra queste, il 3 giugno 1981, il rapimento dell’ingegnere dell’Alfa Romeo Renzo Sandrucci, capo dell’ufficio organizzazione del lavoro dell’Alfa di Arese. Alcune iniziative di propaganda nello stabilimento confermano il radicamento dei militanti. Per la liberazione del sequestrato viene chiesta la revoca della cassa integrazione, prevista in un accordo firmato dai sindacati. Sandrucci è rilasciato dopo cinquanta giorni.
L’arresto di Mario Moretti, il 4 aprile 1981, a lungo dirigente delle Br, coincide con una accelerazione del processo disgregativo. La colonna napoletana e il Fronte delle carceri, guidati da Giovanni Senzani, gestiscono i sequestri Cirillo e Peci, acuendo le divergenze con l’Esecutivo nazionale. La scissione viene ufficializzata nell’autunno. A dicembre nascono le Br-Partito della guerriglia, con un opuscolo in cui si diffondono le Tesi di fondazione del Partito Guerriglia. Questa componente sostiene la necessità di adeguare la linea politico-militare ai bisogni delle masse, e ritiene esista una inimicizia assoluta tra le classi che nella metropoli assume la forma di scontro totale in tutti i rapporti sociali, in vista di una imminente guerra civile strisciante. Ciro Cirillo, assessore regionale democristiano all’urbanistica e all’edilizia popolare e vicepresidente del comitato tecnico campano per la ricostruzione dopo il terremoto del 1980, è rapito a Napoli nell’aprile 1981. L’azione, in discontinuità con la linea storica dell’organizzazione, si rivolge ai bisogni e alle lotte del proletariato marginale (senzatetto, disoccupati), per costruire il potere proletario armato. Per liberare l’ostaggio si richiede la requisizione degli alloggi sfitti, la chiusura di un villaggio di roulotte per terremotati, un sussidio di disoccupazione, la pubblicazione di comunicati. Nella controversa trattativa fra la Dc e la colonna napoletana cercano di intromettersi i servizi segreti e la criminalità organizzata. Il sequestro si conclude con la firma di un decreto di requisizione delle case e di indennità di disoccupazione per i giovani, il pagamento di un ingente riscatto – inizialmente non preventivato – che andrà a finanziare il nuovo Partito guerriglia. L’ostaggio è liberato.
Nel giugno 1981 viene rapito Roberto Peci, per un breve periodo militante del Comitato marchigiano delle Brigate rosse e fratello del pentito Patrizio. È accusato di essere stato un informatore. Viene ucciso il 3 agosto alla periferia di Roma.
Il sequestro di Giuseppe Taliercio, direttore del petrolchimico Montedison di Marghera, nel maggio 1981, provoca un’ulteriore frattura, con la formazione della effimera colonna 2 agosto. L’azione mira a rafforzare e sviluppare le lotte operaie, con l’attacco al piano di ristrutturazione del settore chimico, accettato dai sindacati, che avrebbe portato a licenziamenti, cassa integrazione, intensificazione dei ritmi di lavoro in quella che, per la sua nocività, viene definita «fabbrica della morte». Le Br chiedono la revoca della cassa integrazione. Non viene aperta alcuna trattativa, e il corpo dell’ingegnere è ritrovato vicino al Petrolchimico. La componente «ortodossa» delle Br, che ha gestito questo sequestro e si pone in continuità con il passato, tenta di rilanciare la proposta politica con un’azione clamorosa.
Le divisioni interne e la «ritirata strategica»
Il generale James Lee Dozier, il più alto comandante delle forze terrestri Nato in Italia, di stanza a Verona, viene rapito il 17 dicembre 1981, per denunciare il ruolo subordinato dell’Europa agli Stati Uniti, la politica di potenziamento degli armamenti, la prevista installazione nelle basi militari italiane degli euromissili Cruise. Nel secondo comunicato della campagna si annuncia il nuovo nome dell’organizzazione: Per il comunismo. Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente. Lo Stato, pressato dal governo americano, utilizzando sevizie, ricatti, dichiarazioni di collaboratori, individua un gruppo di militanti a conoscenza della base padovana in cui è tenuto l’ufficiale. Dozier viene liberato il 28 gennaio 1982 da un blitz dei Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza). I cinque catturati sono sottoposti a pesanti torture, come numerosi brigatisti arrestati in quei mesi. Cesare Di Lenardo resiste, denunciando le sevizie alla magistratura. Gli altri quattro cedono. Due di essi, Antonio Savasta e Emilia Libera, dirigenti dell’organizzazione, con le loro dichiarazioni producono una catena di fermi e arresti in varie regioni. Il bilancio interno seguito a questi fatti, e alle divisioni organizzative, viene reso noto in un volantino «A tutto il movimento rivoluzionario». Si annuncia la proposta di «ritirata strategica», ovvero un periodo di riflessione critica in cui l’avanguardia rivoluzionaria dovrà adeguare l’impianto teorico e la linea politica alle mutate condizioni, ritirandosi in seno alle masse e costruendo al loro interno un sistema di potere, senza abbandonare la lotta armata. La volontà di sottrarsi ai possibili esiti della tortura è posta dai dirigenti delle Br-Pcc al di sopra della salvaguardia della propria vita. Nel tentativo di evitare a qualsiasi prezzo la cattura, Umberto Catabiani, ex membro della Direzione strategica, viene ucciso a maggio dai carabinieri. Mentre nelle carceri vari militanti si sono pentiti o dissociati, e all’esterno la Walter Alasia e il Partito guerriglia sono smantellati nel 1982, le azioni delle Br-Pcc proseguono sui due fronti centrali: questione sociale e antimperialismo. Il 3 maggio 1983 viene ferito a Roma il giuslavorista Gino Giugni, docente e membro del Comitato centrale del Partito socialista italiano. Il 15 febbraio 1984 a Roma le Br-Pcc, insieme alla Frazione armata rivoluzionaria libanese (Farl), uccidono Leamon Hunt, direttore generale della Forza multinazionale e di Osservazione dell’Onu in Sinai, a cui partecipa un contingente italiano, considerata un baluardo degli interessi statunitensi in Medio Oriente in funzione antipalestinese. Nel giugno 1985 è arrestata Barbara Balzerani, rimasta alla guida dell’organizzazione. Nel febbraio 1986 è ucciso l’ex sindaco di Firenze Lando Conti, accusato di aver partecipato al progetto di Guerre stellari, e nel febbraio 1987 viene effettuato un assalto a un furgone postale, in cui perdono la vita due agenti di polizia, mentre i brigatisti lavorano anche per realizzare il Fronte di lotta antimperialista con organizzazioni armate di altri paesi.
La soluzione politica
Contrapposti a chi all’esterno prosegue la lotta armata, alcuni prigionieri, che non hanno seguito percorsi di dissociazione o pentitismo, lanciano una battaglia volta alla soluzione politica del conflitto degli anni Settanta. La campagna parte con una lettera diffusa nel febbraio 1987, firmata da Renato Curcio, Mario Moretti, Piero Bertolazzi, Maurizio Iannelli, in cui si dichiarano chiusi un ciclo di lotte e l’esperienza della lotta armata, si chiedono una rivisitazione critica degli anni Settanta e la liberazione dei prigionieri. Vi aderiscono vari brigatisti ed ex dirigenti, tra i quali Barbara Balzerani. Numerosi militanti, dentro e fuori le carceri, individuano nella proposta una trattativa volta a svendere un patrimonio storico politico nell’ambito di un quadro di pacificazione sociale funzionale agli interessi borghesi. Il dibattito investe i settori legali della sinistra antagonista. I più radicali ritengono la soluzione politica una dichiarazione di abbandono e delegittimazione dell’ipotesi rivoluzionaria.
Nell’aprile 1988 le Br-Pcc uccidono il senatore Roberto Ruffilli, esperto di problemi istituzionali e collaboratore del presidente del Consiglio, il democristiano Ciriaco De Mita. L’azione ha anche l’obiettivo di rilanciare la lotta armata per contrastare quella che viene considerata la resa di buona parte dei prigionieri. L’organizzazione è decimata nel settembre 1988 con arresti nel Lazio e in Toscana.
Alcuni dati
Secondo il Progetto memoria, per le Brigate rosse (Br) sono state inquisite 911 persone, tra cui quasi il 25% di operai. A questi si aggiungono, dopo le divisioni, 93 inquisiti per le Brigate rosse-Partito comunista combattente (Br-Pcc), 147 per le Brigate rosse-Partito guerriglia (Br-Pg), 113 per le Brigate rosse-Walter Alasia (Br-WA). Tra i militanti morti, 12 sono riconducibili alle Br, 3 alle Br-Pcc, 1 alle Br-Pg, 5 alle Br-WA. Tra le persone colpite dalle organizzazioni armate, 52 morti sono rivendicate o attribuite alle Br, 6 alle Br-Pcc, 11 alle Br-Pg, 3 alle Br-WA.
Scheda tratta da: Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, Roma, DeriveApprodi 2015.
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