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Recensione di Mario Bonanno

31 gennaio 2015

Cadute in battaglia dalla parte sbagliata. Morte giovani per la rivoluzione. Uccise, quasi sempre, da gente in divisa che ha appeso i sogni a qualche chiodo, per combattere al soldo di uno Stato democratico, ma solo in apparenza. Uno Stato finto-buono, menzognero, soprattutto se si tratta di adulterare la verità dei fatti. Le esecuzioni compiute a freddo, per esempio. Come quella di Margherita – “Mara” – Cagol a Cascina Spiotta, malgrado la resa. O quelle del massacro di via Fracchia, a Genova, dove Annamaria Ludmann viene assassinata quasi nel sonno (insieme a tre dei suoi compagni di lotta) dai gruppi speciali del generale Dalla Chiesa. Secondo i benpensanti (per non parlare poi dei reazionari) la guerra era allora senza quartiere e in guerra, il più delle volte, non si fanno prigionieri. Verissimo. Purché non ci si ostini ancora a parlare di buoni e di cattivi, di martiri della democrazia e di pazzi criminali che in fondo se la sono cercata.
Le pagine dell’eversione armata comunista – quella che va ben oltre le azioni da sempre paludate della politica, persino del PCI, finchè è durato – sarebbe da riscrivere dalla giusta distanza e in modo più equanime. Soprattutto senza bau-bau da falce & martello, nè miopie da storici-giornalisti farisei.
Con “Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie” (DeriveApprodi, 2015), Paola Staccioli ci prova in modo inedito, inquadrando storia e protagonisti da una prospettiva “al femminile”. Lo fa, anzi tutto, per sfatare un luogo comune recidivo: quello che relega le donne a mano armata a un ruolo subalterno rispetto al corrispettivo maschile. In altre parole: semplici “donne del capo”, rivoluzionarie in gonnella, più per amore che per consapevole adesione alla Causa. Attacca così questo libro, mettendo sin da subito le cose in chiaro in merito agli intenti:

“Nel commando c’era anche una donna. Una delle tante azioni armate di organizzazioni clandestine della sinistra. Anche. Un mondo intero racchiuso in una parola. A sottolineare l’eccezionalità ed escludere la dignità di una scelta. Sia pure in negativo. Nel sentire comune una donna prende le armi per amore di un uomo, per cattive conoscenze. Mai per decisione autonoma. Al genere femminile spetta un ruolo rassicurante. Madre, moglie, figlia. Amante, al più”. (pag. 9).

Niente di più falso, invece. Come dimostrano le dieci storie esemplari che si rievocano tra le pagine: dieci vite brevi e fiammeggianti di militante politiche comuniste, di cui l’autrice ripercorre le azioni (rivoluzionarie e umanissime). Dagli anni Settanta fino allo scavallare del secolo breve. Dopo di che, a destra come a manca, si è autolesionisticamente smesso di credere, facendo così il gioco dei fascismi economici sparpagliati per il mondo).
Il drappello delle rivoluzionarie è quasi esemplare, tanto conosciuto che potresti quasi citare a memoria: Barbara Azzaroni, Laura Bertolini, Antonietta Berna, Margherita Cagol, Elena Angeloni, Annamaria Mantini, Annamaria Ludmann, Wilma Monaco, Maria Soledad Rosas. La scrittura tesa e affilata della Staccioli (autrice militante, tra i suoi titoli vanno almeno ricordati “Piazza bella piazza”, “La rossa primavera”, “Per sempre ragazzo”) fa sì che le storie si leggano quasi come dei racconti polizieschi. Peccato che quelle date – nascita e morte di esistenze spezzate – in esergo a ogni capitolo ci ricordino che è successo davvero, riportandoci alla realtà senza sconti dei così detti anni di piombo.
Il testo si avvale anche di una testimonianza di Silvia Baraldini, “sopravvissuta” a 25 anni di carcere in America, soltanto per aver manifestato solidarietà con il Black Liberation Army e il movimento indipendentista di Puerto Rico. Se si riesce a sgombrare il campo da possibili pregiudizi ideologico-mentali, “Sebben che siamo donne” risulta, insomma, una lettura quasi salutare. Per un sacco di buoni motivi.

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